L’appiattimento sotto le bandiere dell’antirazzismo altro non è che il razzismo che si reincarna e prosegue
Il rinvigorire degli studi e delle ricerche a carattere popolare cui si assiste negli anni più recenti sta rivelando vastissime lacune di metodologia scientifica e di approccio culturale alle varie entità etniche. Manca, sostanzialmente, un’efficace base di razionalità e di rigore in uno studio – come quello che si occupa delle etnie più o meno oppresse – osteggiato dalla cultura ufficiale e caotizzato da una mentalità gretta, largamente diffusa nelle coscienze storiche cosi come le hanno apprese da una scuola retorica, mitologica nella sua galleria di falsi eroi; eroi squallidi, patetici e quasi deamicisiani, imbevuti di fantasie colonialistiche.
Il nascente interesse per gli “altri” (quegli “altri” che scopriamo coabitare in casa nostra, quegli “altri” che, non di rado, siamo noi stessi) è senz’altro un fatto positivo; ma non ha ancora la coscienza completa della scoperta, la forza politica per abbattere il muro dei tabù e dei luoghi comuni: usufruiamo ancora, insomma, dei modelli “turistici” e “folklorici” di approccio.
Uso il termine “folklorico” non tanto in opposizione, quanto in alternativa a “folkloristico”, essendo quest’ultimo passato decisamente nell’ambito dei concetti negativi; nondimeno, si è talmente abusato del primo da rendere la sua accezione quantomai dubbia: essa sembra sottolineare efficacemente l’opinione diffusa che il mondo cosiddetto civile proceda verso un’unica, luminosa direzione, lasciandosi alle spalle delle sacche residue di umanità cui vale la pena di prestare qualche attenzione. Un’attenzione “turistica”, per l’appunto, erronea per almeno due motivi: da un punto di vista morale è infatti abbastanza avvilente per gli interessati essere considerati alla stregua di un monumento muto del passato; dal lato scientifico – ancora più rimarchevole – il nostro atteggiamento è assolutamente falso… L’intera specie umana è costituita da miriadi di culture che sono il millenario e irripetibile distillato di stretti rapporti con il paesaggio e con il clima, con i frutti che la terra offre variamente, con le lotte e le fatiche che centinaia di generazioni hanno condotto per assicurare la propria sopravvivenza. E con queste, le evoluzioni linguistiche e le scoperte culturali, il differente modo di intendere la socialità e le tradizioni che la preservano.
È evidente che, in un mondo dove le frontiere nazionali sono tracciate dalla mano degli statisti e dall’avanzata degli eserciti, dove stati e regioni sono mere entità amministrative, non c’è posto per il pluralismo destabilizzante; si crea una cultura a tavolino e la si instilla abilmente nell’anima della massa, poi si assiste con bonario e tollerante interesse all’agonia dei residui culturali non ancora assorbiti. Chi non accetta l’inciviltà di tale logica viene oggi tacciato di razzismo.
Razzismo?
Agnul Pittana, in una sua lettera, mi scrisse una frase bellissima che riassume pienamente un’intera concezione del rapporto tra gli uomini: la lotta per la libertà di un’etnia, egli diceva in sostanza, è un atto d’amore. Un atteggiamento di rispetto e di interesse culturale nei confronti di chi è diverso da noi, che rifugge da inutili intellettualismi e da verbosità politiche. Ma è davvero sufficiente questo amore, questo rispetto, per cambiare le cose? Diciamo che dovrebbe essere così; che lo sarebbe se, all’ombra dello stato italiano, non crescesse vigorosa l’erba dell’intolleranza, della istituzionalità ereditaria di un fascismo mai morto, del rifiuto della diversità da parte di una schiera di demagoghi disperatamente aggrappati alla maniglie del potere. La critica mancanza di argomentazioni di questi violenti (poiché di violenti si tratta) si risolve sempre in un’accusa di razzismo nei confronti di chi non si riconosce nella loro pseudo-identità statale, di chi desidera essere padrone a casa propria e non accetta la logica delle migrazioni forzate che distruggono la cultura di invasi e invasori, e tanto comodo fanno al “palazzo”.
La loro ignoranza li spinge fino all’uso semanticamente erroneo della lingua che essi vorrebbero imporre a tutti. Cos’è, infatti, il razzismo? Una definizione esaustiva potrebbe essere la seguente:
il razzismo è un atteggiamento ideologico il quale, prendendo spunto da particolari caratteri morfologici e antropometrici generalizzati a un gruppo umano, tenta di risalire al suo patrimonio genetico-evolutivo allo scopo di determinare l’inferiorità del gruppo stesso rispetto ad altri, e giustificarne così, sul piano giuridico ed etico, l’oppressione, lo sfruttamento o la distruzione.
Come si vede, siamo ben lontani dal significato attribuito al termine dai soliti tribuni.
Ma esaminiamo, ancora, alcune caratteristiche del razzismo:
1) Relativa modernità del fenomeno. Esso è nato dalle necessità delle società economica postrinascimentale, ma è stato condizionato anche dallo sviluppo del pensiero di tale società: realtà presenti da sempre, come l’oppressione e lo schiavismo, hanno dovuto ricorrere a una serie di giustificazioni teologiche, filosofiche e scientifiche per alleviare i dubbi delle nuove coscienze.
2) Antiscientificità. Secondo un’analisi freddamente razionale, le dottrine che hanno tentato di dimostrare le tesi razziste sono assolutamente destituite di ogni fondamento, scientificamente errate, e costruite sull’asservimento del procedimento d’indagine alla tesi da dimostrare.
3) Inumanità. Il razzismo, con la ferocia e la crudeltà che gli sono proprie, contrasta con il diritto di tutti gli esseri viventi alla libertà e alla non sofferenza, e si fonda sulla distruttività che, come è stato ampiamente dimostrato, è una pulsione contro natura e, tautologicamente, inumana.
4) Finalità abietta. Se, in qualche caso, si può parlare di vera e propria affezione patologica o di isolati deliri, in generale le istanze razzistiche sono frutto di una precisa spinta oligarchica ed egoistica tendente ad assicurare il massimo vantaggio a un potere nato dalla forza, mai dall’intelligenza e dalla razionalità.
L’appiattimento di regime
Questa enumerazione acquista particolare significato se la applichiamo all’“appiattimento snazionalizzante”, ossia all’ideologia degli italianisti accentratori (un idiota ha fin scritto su un giornale del Veneto che bisogna abolire i dialetti per non scavare fossati tra gli italiani, ma questo è addirittura fuori concorso).
Diremo infatti che l’appiattimento snazionalizzante è un atteggiamento ideologico il quale, attribuendo alla diversità un carattere negativo, ne nega l’esistenza al fine di giustificare la distruzione del patrimonio culturale e l’affossamento dei diritti politici di un gruppo mediante l’assorbimento e la disindentificazione etnica.
Le sue analogie con il razzismo sono eloquenti: anche qui lo sviluppo recente del fenomeno e le stesse finalità abiette, dettate dalla moderna necessità dell’oligarchia di preparare un deserto culturale omogeneo e predisposto ad accogliere i nuovi modelli politici ed economici; anche qui la stessa antiscientificità, come può testimoniare qualsiasi antropologo, alimentata dalla confusione tra “uguaglianza reale” e “uguaglianza di diritti”; anche qui, infine, la stessa inumanità, violenta e distruttiva nei confronti della crescita equilibrata e naturale di un popolo.
Verrebbe proprio da dire, con Tullio De Mauro, che razzismo e appiattimento sono due fenomeni uguali e contrari. Ma, se riduciamo ulteriormente la definizione di razzismo e stabiliamo che esso altro non è che la violenza di un gruppo umano su un altro gruppo, allora le due ideologie sono realmente la stessa cosa: l’accentramento, l’invasione etnica e culturale è razzismo; e i suoi Soloni non sono altro che stolidi e retrivi reazionari. A loro diremo, parafrasando Fromm, che tra “avere” una patria e “essere” una patria c’è una bella differenza…