Sulla base di documenti storici, ridimensioniamo la portata del “fremito d’amore” e del “delirio di gioia” con cui, secondo le versioni ufficiali, le popolazioni meridionali accolsero Garibaldi prima e Vittorio Emanuele poi. La truffa e la suprema beffa di un falso “plebiscito”.
Nell’autunno del 1860 uno fra i più popolosi, ricchi e progrediti Stati della penisola preunitaria, seppure di recente nascita – il Regno delle Due Sicilie – si scioglie come neve al sole, schiacciato dagli interessi convergenti delle piccole e grandi potenze europee. E, se non è proprio possibile ignorare – solo per citare l’esempio più noto e illuminante – che la prima tratta ferroviaria (1839) non venne costruita nell’alacre paese sabaudo, ma nella borbonica terra napoletana, pare essere di onore e vanto quanto meno essersene impossessati. Nonostante tutti i tentativi di rendere definitivi i “sacri confini” ancor oggi in corso, è possibile, anche se con qualche difficoltà, cercare di riflettere sugli avvenimenti del 1860. Dando per avvenuta – pur senza chiedersi come né perché – la “spedizione” di Garibaldi, arriviamo alla giornata del 7 settembre 1860, data dell’ingresso del Dittatore in Napoli. In una pubblicazione dell’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia, stampata nel 1960, si può leggere che Garibaldi, “salito in ferrovia a Vietri, giunse a Napoli a mezzogiorno, accompagnalo soltanto da Cosenz, Bertani, Nullo e da altri due ufficiali”;1 e poco oltre: “Era in tutto il popolo un fremito d’amore, un delirio di gioia… Il corteo passò sotto i cannoni di Castel del Carmine: gli artiglieri borbonici sembravano inchiodati ai loro pezzi.”2 Ah! Le agiatezze dei viaggi in treno! Se non fosse ancora tabù avere opinioni eterodosse sull’Eroe dei Due Mondi, si potrebbe dire che i viaggi in treno alla conquista delle capitali sono davvero la tomba delle libertà. E ai poveri artiglieri di Castel del Carmine non si poteva certo chiedere di prendere a cannonate la folla.
Quali fossero, nonostante tutto, il fascino e l’autorità del Garibaldi lo si può dedurre anche dal giudizio sulla sua dittatura contenuto in un opuscolo, naturalmente anonimo, stampato nel 1861 e conservato presso le Raccolte storiche del Comune di Milano: “… La dittatura fu il governo della piazza, distrusse, fu violenta, ardita, immorale, ma non fu crudele.”3 Certo, da un opuscolo che esordisce con le seguenti parole: “L’anno è compìto. Un anno di sventure e di dolori per il nostro infelice paese…”, non si può pretenderela massima considerazione per il nuovo padrone, sia pur esso provvisorio; ciò nondimeno, il giudizio non è del tutto negativo. Cosi, mentre il grosso dell’esercito borbonico apprestava difese consistenti per il re fuggitivo, e mentre la repressione si annunciava ed era terribile – si legge ancora nel fascicolo dell’UNUCI, in un brano che non riesce a minimizzare come vorrebbe – “qua e là, nelle province meridionali, erano scoppiate sollevazioni, specie da parte di contadini contrari al nuovo regime. Una delle più forti fu repressa prontamente dalle forze di Turr, che subito provvide a sbandare anche i 4.000 uomini del generale borbonico Bonanno che l’avevano fomentata. Fortunatamente stavano giungendo a Napoli i vari corpi dell’esercito meridionale; prima il Sirtori, poi il Cosenz, e il Bixio.”4 Già si profilava il problema dell’annessione dei territori liberati e della forma di questa annessione. A tal proposito vennero emanati alcuni decreti5 che stabilivano le norme valide sia per la Sicilia che per le province napoletane. Ciò che imporla qui riferire è che il progetto iniziale prevedeva l’elezione di un’assemblea a cui era demandato il compito di “pronunziare il voto di unione al Regno d’Italia”, e che il voto sarebbe stato espresso a scrutinio segreto, l’elettorato attivo fissato a 21 anni, quello passivo a 25, ma con l’obbligo di saper leggere e scrivere. Le cose, invece, non andarono cosi. Infatti il giorno 21 ottobre 1860 gli elettori furono chiamali a votare per il plebiscito la seguente formula: “Il popolo vuole l’Italia una ed indivisibile, con Vittorio Emanuele, re costituzionale, e suoi legittimi discendenti?” Ed il voto “sarà espresso per SI e per NO, per mezzo di un bollettino stampato… Si troveranno nei luoghi destinati alla votazione, su di un apposito banco, tre urne; una vuota nel mezzo, e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bollettini col si, e nell’altra quelli del no, perché ciascun votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota”.6 Così questa forma palese e indegna liberò le province napoletane e la Sicilia.
Ecco, tratto dal verbale dello scrutinio del plebiscito delle province napoletane proclamato dalla Corte suprema, il risultato: “…Quindi la Corte suprema, di giustizia dichiara: Che la votazione nei comizi, sul plebiscito espresso nel decreto dittatoriale del di 8 ottobre 1860, offre per tutte le province continentali dell’Italia meridionale il risultato generale di 1.312.376 votanti, dei quali hanno votato affermativamente 1.302.064 e negativamente soli 10.312. Che ciò importa piena e assoluta accettazione del plebiscito medesimo e che in conseguenza il popolo delle province continentali dell’Italia meridionale vuole “L’Italia una ed indivisibile, con Vittorio Emanuele, re costituzionale, e suoi legittimi discendenti. ” In Sicilia, invece, il risultato fu il seguente: votanti 432.119, sì 432.053, no 66. Anche la Sicilia accettava il Plebiscito. Come siano stati estorti questi voti lo fa ben capire il De Sivo;7 questi sono solo due esempi: “Il governatore rivoluzionario della Capitanata cosi rapportava da Foggia, il 24 ottobre 1860: il giorno del plebiscito è stato per questa provincia un giorno d’insurrezione, ed i comizii in più comuni non si sono raccolti. Si sono fatti e si fanno sforzi straordinari, perché il movimento non fosse generale…”8 E, poco più oltre: “Il governatore rivoluzionario di Teramo dava fuori a 2 novembre 1860, cioè nove giorni dopo il plebiscito, questa ordinanza: Tutti i comuni della provincia dove si sono manifestati o si manifesteranno movimenti reazionari, sono dichiarati in istato di assedio. In tutti i detti comuni sarà eseguito un rigoroso e generale disarmo… I cittadini che mancheranno all’esibizione delle armi di qualunque natura, saran puniti con tutto il rigore delle leggi militari da un consiglio di guerra subitaneo. Gli aggruppamenti saran dispersi con la forza. I reazionari presi con le armi saran fucilati… Gli spargitori di voci allarmanti saran considerati reazionari e puniti militarmente con rito sommario. P. De Virgili.”9
Fin qui tutto potrebbe ancora essere comprensibile: le truffe, le violenze, gli stati d’assedio, i giubili finali. Ma il 21 ottobre 1860, mentre ancora si combatteva – e si votava per plebiscito – le Due Sicilie erano state annesse già da sette giorni all’Italia, secondo il decreto dittatoriale del 15 ottobre 1860: “Decreto col quale il Dittatore Garibaldi dichiara che le Due Sicilie fanno parte integrante dell’Italia, e che egli deporrà la dittatura nelle mani del Re. 15 ottobre 1860 (n. 275). Per adempiere ad un voto indispensabilmente caro alla Nazione intera il Dittatore decreta: Le Due Sicilie che al sangue italiano devono il loro riscatto e che mi elessero liberamente Dittatore – fanno parte integrante dell’Italia Una ed Indivisibile – con suo Re Costituzionale Vittorio Emmanuele ed i suoi discendenti. lo deporrò nelle mani del Re – al suo arrivo – la dittatura conferitami dalla Nazione. I prodittatori sono incaricati della esecuzione del presente decreto. S. Angelo, 15 ottobre 1860. G. Garibaldi.” Cosi, oltre al danno, ecco le beffe: “II 21 ottobre 1860 fu secondo l’usanza un ‘suffragio universale’; un suffragio dopo che il dittatore aveva decretata l’annessione!”10 Naturalmente anche Garibaldi prese parte alla votazione, come Bixio, e le “consorti”, soggiunge il De Sivo.11 Il nuovo re giunse a Napoli il 7 novembre 1860: ecco la versione data dall’opuscolo – già citato – dell’UNUCI, pubblicato cent’anni dopo: “…Il 7, sotto una pioggia scrosciante, fra le deliranti acclamazioni del popolo napoletano, Garibaldi accompagnò il re nel suo ingresso solenne nella capitale, fino alla Reggia e poi al Duomo.”12 Ed ecco la testimonianza dell’anonimo testimone della luogotenenza: “…Vittorio Emmanuele stette a Napoli,… vide sul suo passaggio per le vie la gente indifferente pel grande unificatore, osservò che quel popolo scettico, senza saperlo, che avea subito tante dominazioni, subìva anche lui…”13 E, per finire, un’altra piccola annotazione: i risultati del plebiscito, e in ispecial modo quelli relativi alla Sicilia, sono quasi perfettamente sovrapponibili a quelli del 1866, che liberarono e annetterono il Veneto: 432.053 sì e 66 no in Sicilia; 647.246 sì e 69 no nel Veneto. 4 Ma le analogie non finiscono qui: stesso il sistema di voto palese con schede diverse e prestampate, stesse le violenze e, coincidenza forse inquietante, stessi il giorno e il mese: il 21 ottobre, “giorno del plebiscito.”
ENTRATA DI GARIBALDI IN NAPOLI (da un volantino dell’epoca)
Milano, 21 Agosto 1860. – Tipografia LOMBARDI
(Ultime Notizie)
Mentre l’Austria ingrossa le fila del suo esercito alle frontiere Lombarde e si prepara poderosamente alla eventualità d’una nuova lotta, e Lamoriciero che teme uno sbarco sulle sponde dell’Adriatico, i moti della piccola Arpino, la discesa di Nicotera dalle Alpi Toscane guarnisce Terracina, radunando il nerbo della poliglotta armata tra Pesaro e Fermo, Garibaldi colla spada dà un colpo disperato nel nodo gordiano, che stringeva la causa nostra, e lo scioglie. Nemico egli d’ogni consiglio che impedisce all’Italia di risorgere regina sul Campidoglio, s’ è fatto legge inviolata seguitare nel generoso intento col coraggio e colla spada, col ferro redimerla dall’un capo all’altro, non coll’oro comprarla sulle bilance, dove i Brenni gettano la spada per avarizia e per insulto. Colla fede in Dio e nel Popolo venne alle porte di Palermo e la vinse, colla fede in Dio e nel Popolo ha spazzato di Sicilia i Tiranni. E quando la diplomazia voleva arrestarlo, egli gettò il dardo al di là del Faro e gridò come Cesare al Rubicone : è gettato, e v’andò. Il Borbone , che vedendosi l’abisso innanzi i piedi aperto, s’ammantò di clemenza e sperò 1’alleanza del Piemonte , caduto nell’ inganno da lunga mano preparato altrui, invano ora le armi, concesse per lo Statuto al popolo, vorrebbe torgli. Ma finché una cartuccia gli rimane sarebbe più facile torgli la vita, che 1’arme. Napoli non s’è lasciala abbagliare ai colori d’una bandiera da tanti anni non vista , dove il rosso ricorda sangue di popolo tradito, ha voluto una bandiera levata in alto dal valore, non dalla viltà; una bandiera battezzata dal fuoco della guerra benedetta dalla vittoria delle armi Italiane, tra il tuono delle artiglierie e il fumo del campo e non inaugurata con riti, spergiuri , ingloriosa e bastarda. Napoli che tanto ha patito le catene del Borbonico servaggio e ancor si mostrò sulla persona i solchi, ora è in festa a ricevere la bandiera, che trionfatrice sui campi della Sicilia, tolta al tiranno, gli reca Garibaldi. Non è più la Napoli, l’antica schiava dei Borboni, ma la Napoli, promessa sposa ad un forte principe; ora non sono grida per Francesco II, che tanto ha pensato per dar all’ ultimo uno Statuto, ma per Vittorio Emmanuele, che ha sposato la causa dell’Italia, grida pel Dittatore della Sicilia, per l’ardito condottiero, per i soldati suoi, inni per la libertà e perfino voti per Venezia e Roma. E la venuta di Garibaldi a Napoli sul fatto meraviglioso, che merita esser inscritto sulle storie presso le romane glorie, imperocché colla spada egli abbia ricomprato all’ Italia milioni di popoli da anni ed anni avviliti nel duro servire. Garibaldi venuto a Napoli ha fatto tremare l’Austria e Roma, ha trionfato di tutti i nemici dell’ Italia. Da Napoli Garibaldi moverà sulla flotta d’Italia alla liberazione della Venezia, che gli stende le braccia supplichevoli e poi di Roma, che maltrattata nel più indegno modo dal governo teocratico, dimanda libertà. Napoli è pazza d’entusiasmo, d’esultanza per la vittoria di Garibaldi e corrono sotto le armi vecchi e giovani a combattere l’ultimo palmo di terreno su cui ancora si sostiene il nemico. E l’eroe di Palermo frena quegli animi ardenti, e s’affretta a cancellare intanto le orme selvaggie, nella reggia, e nella città ha lasciato il Borbone e leva su sant’Elmo la bandiera di tre colori, sposata al simbolo della redenzione, alla Croce di Vittoria. Possa così Garibaldi un giorno quel vessillo porre presso il Leone di San Marco e piantare nel Campidoglio; allora l’Italia avrà il trono della Città, che dettò leggi al mondo. Viva Napolli. Viva la Spada di Garibaldi.
Note
1UNUCI, Gruppo regionale della Lombardia 1860-1960 • L’anno decisivo per l’unità d’Italia, Milano, 1960, p. 62.
2 Ibidem p, 63.
3Anonimo, Un anno di Luogotenenza piemontese a Napoli, 1861.
4UNUCI, op. cit., pp. 65-66
5 I principali decreti portano le date del 25 giugno, 5, 8, 11 e12 ottobre 1860. Sono stati pubblicati nel 1967 dall’editore Borzi di Roma in appendice alla ristampa dell’opera di B. Garanti» Alcune notizie sul plebiscito delle province napoletane, Torino, 1864.
6Decreto prodittatoriate 8 ottobre 1860.
7G. De Sivo, I napolitani al cospetto delle nazioni civili, Roma, 1861; ristampa a cura di M. Battagline 1967, Borzi ed., Roma.
8 Ibidem, p. 55, nota 1.
9 Ibidem, p. 55, nota 1.
10 Ibidem, p. 54, nota 4.
11 Ibidem, p. 53.
12UNUCI, op. cit., p. 102.
13Anonimo, op. cit., p. 3.
14E. Beggiato, Plebiscito: prima e dopo la truffa, in “Etnie”, n. 5, p. 48.