Dopo la carneficina della prima guerra mondiale, fra Langhe e Monferrato, i contadini che più di tutti avevano pagato cara l’avventura militarista ed erano tartassati da tasse sempre più opprimenti crearono il “Partito dei Contadini” per difendere la casa, il lavoro e la vita tradizionale.
L’evento che fece nascere la nuova formazione politica fu l’inasprimento della tassazione sul vino, principale attività economica dei piccoli proprietari del Basso Piemonte ma alla base della decisione di far sentire la voce dei ceti marginali della campagna stavano soprattutto la profonda rabbia per i lutti della guerra ed il sordo rancore per le promesse disattese fatte dopo la sanguinosa “Vittoria” per cui più di tutti si erano sacrificati i popolani più indifesi.
La piccola formazione politica capeggiata da Urbano Prunotto e Giacomo Scotti ebbe subito un consenso straordinario e suscitò la feroce ostilità dei “Popolari”, dei Socialisti, dei Nazionalisti e dei Fascisti. Più ambiguamente il neonato “Partito Comunista d’Italia” finse di dialogare col Partito ruralista con l’obiettivo recondito di neutralizzarlo, assorbirlo o disgregarlo.
Nel 1925 il gruppo contadinista finì per arrendersi a Mussolini anche perché era diventato suo segretario generale un ambiguo personaggio che dopo una giovanile militanza anarchica si era legato ai servizi segreti ed allo spionaggio italiano.
Dopo la Liberazione, il “Partito dei Contadini” rinato per iniziativa di Alessandro Scotti tornò ad
essere una forza politica egemone in gran parte delle zone rurali del Piemonte ottenendo anche consistenti consensi elettorali.
Nel 1953 la “Democrazia Cristiana” rifiutò sdegnosamente l’apparentamento coi contadinisti e fu un grave errore perché le mancarono poche migliaia di voti che avrebbero garantito la maggioranza premiale prevista dalla “legge truffa”.
Il declino del movimento ruralista iniziò sotto l’azione disgregatrice di Adriano Olivetti che favorì una sciagurata scissione ma il dissenso politico delle campagne continuò comunque a manifestarsi ed esplose clamorosamente con le grandi lotte del “Sessantotto contadino”, purtroppo durate poco e finite in niente.
Malgrado tutte le contraddizioni ed i limiti della loro classe dirigente improvvisata ed incapace, i contadinisti esprimevano pienamente le istanze sociali e culturali dei ceti rurali innalzando l’orgogliosa insegna del “Da noi”, emblema d’un mondo severo, produttivo e risparmiatore in cui dominava il lavoro e da cui emanava un profondo senso di pienezza e d’appagamento.
La meteora politica contadina era già in partenza destinata alla sconfitta, perché si esprimeva ingenuamente sul terreno minato del confronto elettorale dove si faceva portatrice d’istanze ideali che non potevano avere piena cittadinanza nella società capitalistica fondata sul profitto e sulla speculazione.
Il suo fallimento avvenne proprio negli anni in cui finiva con le ossa rotte anche un intellettuale coraggioso e controcorrente come Giovanni Guareschi, esaltatore ed apologeta del “mondo piccolo”, del marginalismo paesano contro “quelli di città”, nel segno d’una forte avversione al burocrate cittadino ed al conformismo piccolo borghese.
Come lo scrittore emiliano, anche i contadinisti piemontesi trovavano logico e naturale affiancare al loro oggettivo autonomismo localistico un deamicisiano ed ingenuo patriottismo ed una romantica fede monarchica facendo prevalere al Referendum istituzionale i suffragi pro-dinastici nelle zone in cui erano egemoni, in assoluta controtendenza con le scelte repubblicane delle altre regioni del Nord.
L’epitaffio critico più convincente su questa originale forza politica e sociale la scrisse in occasione della morte di Alessandro Scotti il giornalista e scrittore Franco Piccinelli, uno dei figli migliori della terra piemontese dove il contadinismo aveva conosciuto le sue maggiori fortune. Senza nascondere un nostalgico rimpianto, il commentatore astigiano ricordava che nel Dopoguerra della forsennata e caotica urbanizzazione selvaggia imposta in Piemonte dal grande capitale industriale il contadinismo ebbe il merito storico di mettersi coraggiosamente di traverso.
La sua sconfitta segnò il disastro del mondo contadino, della sua cultura legata alla terra, della difesa dei tradizionali valori religiosi cristiani e del miglior conservatorismo misoneista ed ecologista.
Roberto Gremmo
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