Malgrado il crescente interesse internazionale per l’Artico, la Groenlandia rimane uno dei luoghi più remoti e meno conosciuti del pianeta. Con suoi due milioni e passa di chilometri quadrati, è considerata l’isola più grande del mondo. Gli abitanti sono appena 57.000, di cui circa 16.000 nella capitale Nuuk, e il resto sparso in piccoli villaggi assai distanti tra di loro. In rapporto alla popolazione, la Groenlandia ha un numero rilevante di aeroporti di grandi e medie dimensioni, retaggio del suo ruolo strategico e di transito nelle passate guerre calde e fredde. Di fatto, però, mancano le strade al di fuori degli abitati (il sistema viario di Nuuk, per esempio, ha un’estensione di circa 10 km), e sia il traffico locale sia quello turistico dipendono da imbarcazioni, elicotteri e piccoli aerei.
Visitare la Groenlandia è costosissimo e, soprattutto d’inverno, una vera e propria scommessa: a causa del cattivo tempo, i voli possono subire giorni e giorni di ritardo. Pur non essendo affatto il luogo più freddo del mondo – le temperature invernali nel meridione oscillano tra i -20 e i – 4°C – si trova proprio sul percorso delle tempeste nord-atlantiche.
I retroscena
La Groenlandia non ha alcuna esperienza storica come stato indipendente. I primi abitanti – un ramo del popolo Inuit, localmente chiamato groenlandese – raggiunsero l’isola almeno 4500 anni fa dall’Artico canadese. I fiordi sud-occidentali furono colonizzati tra il X e il XV secolo da navigatori norvegesi provenienti dall’Islanda, con qualche incursione anche sulle coste americane nord-orientali. La Danimarca, che all’epoca governava l’Islanda, esercitò un controllo crescente sulla Groenlandia a partire dal XVIII secolo, monopolizzando i commerci nell’area. Nel 1814, l’isola divenne ufficialmente una colonia danese.
I primi veri rapporti con il mondo esterno iniziarono durante la seconda guerra mondiale, tra il ’41 e il ’45, con l’occupazione delle forze americane e la costruzione dei grandi aeroporti, ancor oggi in uso. Alla fine della guerra, in contrasto con l’Islanda – che conseguì la piena indipendenza nel 1944, mentre la Danimarca era occupata dai tedeschi – i danesi si riappropriarono della Groenlandia e, nel 1953, ne modificarono lo status da colonia a provincia amministrativa del regno danese.
Questa scelta ha garantito un’amministrazione moderna e un welfare elevato, accompagnandosi tuttavia a una campagna per imporre la lingua e la cultura danese, e inurbare la popolazione nomade. Per reazione, i sentimenti nazionali dei groenlandesi si sono rafforzati, mentre un ulteriore pomo della discordia si è profilato nel 1973, con l’adesione della Danimarca alla UE: la Groenlandia vedeva Bruxelles come una minaccia a causa delle sue politiche restrittive sulla pesca e del divieto di commerciare derivati della foca.
Nel 1979, la Danimarca concesse un primo importante riconoscimento alla Groenlandia quale entità separata con la Legge sull’Autonomia, trasferendo il potere al governo e al piccolo parlamento di Nuuk, ma mantenendo a Copenaghen il controllo delle risorse naturali, la politica estera e la difesa.
Nel 1983, la popolazione groenlandese votò per abbandonare l’Unione Europea. In un successivo referendum, nel novembre 2008, confermò l’aspirazione a una maggiore autonomia e, il 21 giugno, 2009, la Groenlandia ottenne lo status definitivo di etnia separata. Attualmente, il governo locale controlla le risorse naturali, il servizio di polizia e la giustizia, mentre Copenaghen mantiene le competenze su difesa e affari esteri.
Limiti di autonomia
Oggi, come nazione autonoma all’interno del Regno di Danimarca, la Groenlandia (che si autodefinisce Kalaallit Nunaat) ha un alto grado di autoderminazione in alcuni campi e una forte dipendenza in altri. Il suo tessuto antropologico e culturale non potrebbe essere più diverso da quello della madrepatria danese; l’88% dei suoi abitanti sono classificati come indigeni (anche se molti hanno qualche goccia di sangue danese) e il groenlandese è ormai l’unica lingua ufficiale. A livello di politica estera, la decisione di uscire dalla UE ha permesso alla Groenlandia (analogamente alle Isole Færøer) di instaurare un rapporto particolarissimo con Bruxelles.
La Groenlandia è ufficialmente classificata come uno dei “Paesi e territori d’oltremare” (PTOM) dell’Unione, status creato per le ex colonie di Francia, Olanda e Regno Unito. In più ha firmato nel 2006 convenzioni speciali sulla gestione della pesca e sui rapporti generali con la UE. I finanziamenti Europei a favore della Groenlandia hanno raggiunto i 175 milioni di euro nel periodo 2007-2013, che diventeranno 217,8 milioni nel periodo 2014-2020, cifra che quasi eguaglia gli introiti di tutti gli altri PTOM messi insieme.
Essendo sempre più interessata alle questioni artiche (e decisa a migliorare la sua immagine nella regione), l’Unione Europea ha cercato di orientare i finanziamenti verso progetti sociali, ambientali, educativi e di ricerca che possano migliorare i rapporti con la Groenlandia e superare le incomprensioni tuttora esistenti sulla caccia alle foche e alle balene.
Difesa e Sicurezza
La Groenlandia non ha forze armate e demanda i compiti di polizia locale alla guardia costiera. La Danimarca resta responsabile in linea di principio per la difesa, e di recente ha deciso di concentrare le sue attività militari nell’artico presso una nuova base a Nuuk, lasciando solo una piccolo distaccamento alle Færøer.
Le forze danesi sono comunque limitate. La copertura strategica della Groenlandia contro le minaccia gravi è a carico dalla NATO, in particolare dagli Stati Uniti. Dopo la seconda guerra mondiale, gli americani volevano continuare a utilizzare le strutture dell’isola e un certo punto si offrirono persino di acquistarne il territorio.
Fu invece firmato un trattato difensivo nel 1950, che consentì agli Stati Uniti di costruire la base aerea di Thule nell’estremo nord: in seguito, questo accordo suscitò un vespaio di polemiche allorché venne spostato di forza un vicino insediamento inuit; e, successivamente, quando corsero voci su armi nucleari smarrite nei ghiacci.
Nel 2004, un nuovo accordo trasformò lo sviluppo dei radar di allarme immediato a Thule in una componente fondamentale del sistema di difesa antimissilistica degli Stati Uniti. È interessante notare che il governo locale della Groenlandia firmò l’accordo come terza parte in causa dopo Washington e Copenaghen, a riprova del fatto che gli americani intendevano cautelarsi in vista di un’eventuale secessione groenlandese.
Economia e relazioni esterne
La Groenlandia ricava oltre il 90% del suo reddito dalla pesca. Il turismo rimane un settore relativamente poco sviluppato. Le entrate supportano parzialmente lo stile di vita a cui la popolazione si è abituata: il PIL pro capite è di circa 28.000 euro, superiore a molti Paesi dell’Europa centrale. La differenza è coperta da un sussidio diretto della Danimarca, attualmente fissato a 3,7 miliardi di corone danesi all’anno, che equivale a circa metà dell’intero bilancio groenlandese (le Isole Færøer ricevono circa il 10% in meno).
In tema di affari esteri, invece, la Groenlandia ha molto meno spazio di manovra rispetto alle Færøer. Non ha uffici di rappresentanza all’estero, anche se può aggregare propri funzionari alle missioni diplomatiche danesi, come ha ampiamente fatto a Bruxelles, presso la UE. Mentre la Costituzione del 2009 le consente, in linea di principio, di firmare (tramite la Danimarca) trattati internazionali che non si applichino all’intero regno danese, o di astenersi dal firmarne altri che lo coinvolgano, questa opportunità è stato scarsamente sfruttata. La Groenlandia non ha ottenuto un proprio seggio in nessuna organizzazione mondiale. Gli unici sono quelli presso il Consiglio Nordico e la Nordic Investment Bank. Il solo Paese a mantenere una parvenza di legazione diplomatica in Groenlandia è l’Islanda, che ha istituito un consolato generale a Nuuk nel 2013.
Il dibattito ai giorni nostri
Apparentemente, questi presupposti rendono abbastanza improbabile una prossima indipendenza della Groenlandia. La quale dal 2009 ha avuto formalmente l’opportunità di fare proposte in questa direzione, nel qual caso si sarebbero aperti negoziati con la Danimarca per stabilire tempi e modi. D’altra parte si tratta di una possibilità esistente anche per le Isole Færøer, dove anche i partiti indipendentisti hanno finora preferito procedere con i piedi di piombo.
La cosa interessante è che la Groenlandia, a prima vista meno qualificata a vivere per conto proprio, ha eletto nel 2013 un primo ministro del partito Siumut, Aleqa Hammond, apertamente schierata a favore dell’indipendenza e largamente votata per questo. All’epoca disse: “Il nostro popolo si alzerà in piedi e reclamerà ciò che è suo di diritto. Ci assumeremo la responsabilità di noi stessi e e delle nostre famiglie. E come politici ci assumeremo la responsabilità del nostro Paese”. Cos’è che rende lei e i suoi sostenitori così convinti che si tratti di una prospettiva realizzabile?
A parte le dinamiche politiche interne di lungo periodo, gran parte delle risposte immediate a questa domanda sono legate ai mutamenti climatici nella regione artica. Con lo scioglimento dei ghiacci sulla terraferma e sul mare, diventa sempre più facile accedere a zone della Groenlandia ricche di minerali, tra cui i metalli preziosi e le “terre rare” necessarie alle industrie ad alta tecnologia.
Stanno diventando più favorevoli le condizioni per l’estrazione di petrolio e gas, per i quali sono già in corso da tempo le prospezioni al largo delle coste orientali. Il riscaldamento dei mari potrebbe accrescere, almeno temporaneamente, le riserve ittiche nelle acque groenlandesi, assicurando maggiori profitti con la vendita delle licenze e la pesca locale. Le attività di trasporto potrebbero avvantaggiarsi di questi fenomeni, come anche del previsto aumento del transito attraverso l’Artico occidentale di prodotti provenienti dai nuovi giacimenti di petrolio e gas di altri Paesi, e probabilmente di merci dall’Asia. Se la Groenlandia riuscisse ad aumentare le sue entrate dirette grazie a una o più delle suddette fonti, il contributo danese si ridurrebbe secondo una formula concordata nel 2009, magari al punto di diventare del tutto superfluo.
Se queste prospettive danno vigore ai sogni indipendentisti della Groenlandia, esiste anche un elemento propulsore di tipo più politico. Con il crescere dell’interesse internazionale per l’artico, la posizione geografica della Groenlandia e le sue risorse pressoché intatte stanno attirando l’attenzione politica ed economica delle grandi potenze. Il presidente della Corea del Sud si è recato in visita a Nuuk nel 2012, mentre veniva firmato un accordo di collaborazione con la società coreana Kores per effettuare ricerche minerarie. La società London Mining ha ottenuto una licenza trentennale per avviare una colossale miniera di ferro, con lavoratori provenienti dalla Cina. Cercatori australiani vogliono estrarre minerale di uranio in Kvanefjeld. Tutte le principali compagnie petrolifere hanno ottenuto licenze per i sondaggi off-shore di petrolio e gas naturale.
Simili offerte di investimenti dall’estero sono allettanti, ma nascondono anche insidie che metterebbero a dura prova il giudizio di governi più potenti ed esperti. Il pericolo più evidente sono quei danni collaterali all’ambiente che potrebbero accelerare il riscaldamento globale. Non mancano preoccupazioni di tipo sociale legate al probabile afflusso di lavoratori stranieri: che impatto avrebbero sulle piccole comunità isolate della Groenlandia?
Sono probabilmente esagerati i timori nei confronti di una Cina che, guadagnato un punto d’appoggio in Groenlandia, potrebbe sfruttarlo per scopi strategici; tuttavia, consentire ai cinesi di controllare l’estrazione di materie prime non sarebbe un bene per la competizione globale, in quanto quel Paese fa già la parte del leone ricavando questi materiali del proprio territorio (e almeno in un caso ha già minacciato di limitarne l’esportazione). L’estrazione dell’uranio è di per sé una minaccia alla sicurezza, e alcuni a Copenhagen hanno sostenuto che si tratta di decisioni che Nuuk non dovrebbe prendere da sola, considerati i risvolti difensivi.
Questo ci porta al punto nevralgico delle dinamiche artiche. I punti di vista di Nuuk e Copenaghen sono sempre stati differenti, ma questo divario si sta allargando a mano a mano che le insidie e le opportunità legate al cambiamento climatico si fanno più pressanti. La Danimarca non può materialmente arrestare e nemmeno limitare i danni che il riscaldamento e l’innalzamento marino stanno provocando all’ecosistema e ai modi di vita groenlandesi. La diplomazia danese può lavorare per la pace e la cooperazione nel Grande Nord, ma le sue forze non riuscirebbero a proteggere l’isola se, per esempio, dovesse esserci un’eplosione di violenza. Non sarebbero neppure in grado di affrontare le grandi calamità civili, come una nave da crociera che affondasse nelle acque groenlandesi. D’altra parte, a Nuuk il desiderio di sfruttare le nuove opportunità economiche di profitto si rafforza non soltanto per il loro rapporto con l’indipendenza, ma anche per la necessità di creare nuova ricchezza e posti di lavoro per compensare gli aspetti negativi del riscaldamento.
Il governo Siumut, rispetto ai predecessori, si è mostrato più consapevole dei rischi ambientali e sociali, ma ha insistito sul proprio diritto di prendere le decisioni finali. Nonostante gli avvertimenti e le preoccupazioni espresse con vigore dal Folketing, il parlamento danese, nell’ottobre 2013 il parlamento groenlandese ha accettato di revocare la moratoria sull’attività mineraria, permettendo così alla London Mining e a Kvanefjeld di proseguire con i loro progetti.
In aggiunta ai contrasti politici, la questione del diritto groenlandese a parlare in prima persona nelle sedi internazionali è balzata agli onori delle cronache nella primavera 2013. I rappresentanti della Groenlandia e delle Isole Færøer di regola si uniscono alla delegazione danese durante le sedute del Consiglio Artico, e nelle precedenti riunioni erano stati spesso assegnati loro posti a sedere (e bandiere) al tavolo delle trattative. Stavolta però la Svezia, che ospitava l’evento nel maggio 2013, rifiutò di concedere tre seggi alla Danimarca. In segno di protesta, la neoeletta Aleqa Hammond decise che il suo governo non avrebbe partecipato alla riunione, mentre il rappresentante feringio rimase. In seguito si è lavorato parecchio per appianare i dissidi, e i danesi hanno assicurato a entrambi i loro territori autonomi che li consulteranno prontamente per qualsiasi questione riguardante la regione artica.
A Nuuk però, appresa la lezione, si stanno studiando tutti i modi possibili per tutelare i propri interessi attraverso una forma “substatale” di diplomazia. In particolare, la Groenlandia sta coltivando la cooperazione con l’Islanda e le Færøer tramite il Consiglio Nordico Occidentale, in cui la Danimarca non è rappresentata.
Sebbene la Groenlandia non si sia spinta fino al punto delle Færøer nell’adottare una propria “strategia artica”, si è convenuto che i tre membri del Consiglio Nordico Occidentale dovrebbero redigere alcune linee guida comuni riguardo alle future politiche nella regione, compresa la gestione delle risorse.
Piccolo Paese, grandi rischi
Il caso della Groenlandia è interessante non solo a livello pratico per la sua natura complessa e in rapida evoluzione, ma anche per gli aspetti teorici sul rapporto tra indipendenza formale ed effettiva autodeterminazione. Non è difficile simpatizzare con le speranze e le frustrazioni di Nuuk, ed è probabile che le divergenze con Copenaghen continueranno a crescere, mentre il ruolo danese nell’artico diminuirà in proporzione. D’altra parte, è evidente che se Groenlandia diventasse indipendente, diciamo nel prossimo decennio, lo farebbe passando da un livello di indipendenza a un altro. Strategicamente, dovrebbe affidarsi a una protezione ancora più esclusiva da parte americana, e forse canadese. Economicamente, dipenderebbe da capitali stranieri per creare nuova ricchezza, continuando a importare la maggior parte delle sue fonti alimentari ed energetiche, esponendosi ai rischi delle forze naturali che interferiscono con le comunicazioni, e alle fluttuazioni del mercato mondiale. Decima nella classifica mondiale degli Stati sovrani più piccoli, la Groenlandia disporrebbe di una élite troppo ridotta e scarsamente qualificata per tenere a bada i Paesi maggiori e le multinazionali. E i microsistemi politici sono notoriamente terra di conquista per gli interessi commerciali o criminali. Come insegna la recente altalena islandese di boom e crolli finanziari, si possono anche commettere errori marchiani.
Probabilmente sarebbe saggio mantenere la Groenlandia nell’ambito delle istituzioni della comunità nordica, magari rafforzando ulteriormente la collaborazione all’interno della comunità stessa in tema di difesa, sicurezza e politiche regionali dell’Artico. Ciò farebbe da contrappeso alla crescente influenza americana e asiatica, traducendosi in una politica più prudente e in un sostegno su cui contare in caso di necessità. Ma soltanto i groenlandesi debbono poter decidere quando e come esercitare il loro diritto di autodeterminazione.