Nel 1865 usciva una guida pratica per i funzionari sabaudi che dovevano trasferirsi a Firenze, la nuova capitale. Una piccola miniera “antropologica” di curiosità d’epoca e abitudini autoctone per insegnare ai piemontesi a convivere con i neo-concittadini toscani.
Gustavo Buratti, uno dei nostri “maestri” di etnolinguistica, aspro avversatore del Risorgimento e dell’Unità che avevano portato alla distruzione delle parlate locali – e in primo luogo dello stesso piemontese – amava citare una serie di libercoli messi insieme dalla nuova propaganda per convincere i “neoitaliani” a parlare la lingua ufficiale. Era questa nient’altro che il toscano, anzi, secondo gli esperti dell’epoca, un fiorentino di maniera che doveva suonare tanto ostico quanto bizzarro a molte persone. Trattandosi spesso di “popolani”, i destinatari dei manuali imparavano a coniugare e declinare verbi e nomi vili, come spesseggiare le peta e trarre le vesce (vado a memoria: di quel materiale burattiano, purtroppo, non ho più trovato traccia).
Il libretto che proponiamo, La nuova capitale – guida pratica popolare di Firenze, malgrado il titolo è dedicato a figure più altolocate, quei dirigenti, funzionari e impiegati sabaudi che, a partire dal 1864, da Torino furono malvolentieri costretti a trasferirsi nella nuova capitale fiorentina. La lingua utilizzata, come avremo modo di approfondire più sotto, resta quella pedantesca degli altri libretti, sebbene più arguta; ma a incuriosire è soprattutto la descrizione di una Firenze dell’epoca, con i suoi aspetti pratici e comportamentali (quindi etnici), presentati e confezionati per illuminare, e sotto sotto tranquillizzare, il borghese medio di Torino.
Proponiamo il volumetto in versione completa quel tanto da non annoiare, con qualche riassunto e commento.
La città e i suoi abitanti
Se il lettore richiamandosi alla mente la configurazione di Torino, sostituisca l’Arno al Po, ai colli d’oltre Po, le colline che s’elevano sulla riva sinistra dell’Arno; e, dal lato opposto, invece delle vette delle Alpi, ponga, a molta minor distanza, i dossi e le creste dell’Appennino, ed a luogo delle poche case del Borgo Po, disegni un ampio quartiere, anzi una parte importante della città, avrà tracciato, in digrosso, a volo d’uccello, come suolsi dire, la figura topografica, e l’aspetto di Firenze – adagiata nella fertile valle che vi forma il quarto bacino dell’Arno, quasi tramezzata da questo fiume, difesa da una verdeggiante e fiorita cortina di colli, sui quali s’arrampica e s’innoltra con i suoi palagi, le mura, ed i lussureggianti giardini di Boboli.
La seconda impressione che riceve il forestiero in Firenze può variare a misura de’ gusti, delle abitudini, delle prevenzioni; ma la prima è indubitatamente quella di una grande e simpatica città la quale attrae e seduce a prima giunta non solo per la meravigliosa bellezza de’ monumenti che racchiude e delle opere d’arte, per le gloriose memorie che ad ogni mutar di passo richiamano in folla i suoi palagi e le sue vie, ma per la pittoresca ed incantevole sua situazione, per lo splendore e la mitezza del cielo, e, più di tutto, per una spiccante ed elegante armonia, che è nel suo insieme come in ogni sua parte; una giusta e perfetta intonazione – direbbe un artista – che è in ogni cosa; la quale accarezza e si cattiva subitamente l’animo e gli occhi del forestiero.
È codesto il carattere, l’effetto più brillante – e più durevole – della vista e visita di Firenze; com’è pure la ragion principale – quand’anche non avvertita – per cui quella città guadagnasi la simpatia di chi la prima volta la vede e vi dimora.
Seguono dati demografici molto interessanti, secondo i quali dal censimento del 1861 i fiorentini risultavano 114.363, 55.506 maschi e 58.857 femmine. Dopo la descrizione dei quartieri (“mandamenti”), delle porte e dei ponti, il paragrafo dedicato alle vie sottolinea che – per quanto splendide di palazzi e di negozi – queste “non brillano troppo, fino ad ora, e malgrado la vistosa apparenza degli spazzini pubblici, per accurata pulitezza”.
I commenti sul clima, idealmente in rapporto con quello torinese, sottolineano la mitezza delle temperature, con inverni quasi mai sotto lo zero ed estati temperate dagli zefiri… assai lontane, ci pare, da quelle che da anni stanno sperimentando i fiorentini moderni.
Tralasciando i cenni storici, vale la pena di riportare le considerazioni etniche sull’indole degli abitanti:
Il fiorentino è per natura mite, cortese ed ospitale; le quali virtù non gl’impediscono d’essere sottile e di saper ben condurre i proprii interessi; nel che esso non ismentisce le sue tradizioni. È il popolo che ha inventato la cambiale e che fu retto per alcuni secoli da una dinastia sórta dal banco e dal braccio; è insomma un popolo mercante.
È più riflessivo che inclinato allo slancio; tratta gli affari con molta ponderazione e non di rado venuto al punto di concludere un contratto, dopo esaurite tutte le trattative, chiede di potervi dormir sopra ancora una notte, per ciò che egli conosce il proverbio che la notte è buona consigliera.
Non è diffidente; ma è cauto.
L’energia non è sempre la più evidente delle sue virtù; ma è perseverante.
Si mostra più adatto al mestiere dell’avvocato che a quello dell’armi. Malgrado ciò, siccome è passibile d’entusiasmo al pari degli altri Italiani, all’occasione non è men prode di essi.
In compenso nessuno è più parco del fiorentino. Con ciò vogliam solo dire che non è mangione. I piaceri della mensa non son quelli ch’esso cerchi con maggiore passione; vive con poco e ciò che non ispende in cucina, lo spende volentieri a fare buona figura in pubblico, e a procurarsi fama d’agiato.
Per il che accade non di rado che agli occhi altrui talune famiglie appaiano ricche, mentre n’hanno solo l’apparenza – e a danno del ventre.
A questi pregi – o difetti, come piacerà al lettore di giudicarli – il fiorentino ne unisce un altro assai caratteristico; ed è la fierezza per la sua storia, pel suo primato artistico, e per la sua lingua.
Su questi tre punti non è disposto nè a cedere, nè a transigere, con chichessia.
E forse non ha torto! Ed è tanto sicuro della propria supremazia che talora non si fa scrupolo di sorridervi malignamente sul muso se voi vi mostrate o ignari od incuranti delle sue glorie storiche e artistiche, ovvero se vi scappa di bocca una frase – un solo vocabolo – che non sia il più ortodosso.
Speriamo che i nuovi tempi lo renderanno più tollerante o benigno.
Con la descrizione degli usi e costumi di questa popolazione entriamo nel vivo del libercolo. Come altri dell’epoca a uso dei piemontesi, è forte l’intento di sottolineare gli aspetti comuni dei vari popoli per legarli al concetto di italianità. Impresa per ora non difficilissima: le località nominate appartengono quasi soltanto al centro-nord, essendo ancora poco conosciute le popolazioni meridionali ai pubblicisti del nuovo regime.
La massima dice che tutto il mondo è paese.
E la massima sarà giustissima; ma non impedisce che ogni paese abbia usi tutti suoi proprii, che, cioè, non si trovano altrove, e che producono una certa impressione su chi gli avverte per la prima volta.
Botteghe Così un abitante dell’Italia Settentrionale – eccettuati, forse, i Veneziani – rimane colpito e quasi scandalizzato della tarda ora in cui si aprono le botteghe la mattina.
Alle nove e mezza voi ne trovate ancora di chiuse.
La domenica, poi, e le altre feste nessuna è aperta, tranne quelle in cui si vendono commestibili, i caffè, i liquoristi e le pasticcerie.
Nè è a credersi che in compenso i bottegai veglino tardi la sera. Poco più, poco meno, essi abbandonano i loro negozii fra le otto e le nove.
Fra le undici ore e la mezza notte, poi, si chiudono anche i caffè e le osterie; e la città, poco dopo s’immerge nel silenzio, che per altro non è sempre si profondo, o per dire più esattamente, non è spinto fino allo scrupolo come a Torino.
Un altro uso, tutto speciale a Firenze, è quello che le vetture per le vie della Città e alle Cascine, tengono la sinistra; i cittadini poi s’attengono – quando possono – al modo comune.
Siffatta usanza offre il vantaggio alla gente a piede – come scrive il Municipio di Torino – di aver sempre in faccia o dal lato opposto i veicoli che percorrono la stessa via, e quindi minore il pericolo d’essere storpiati, o toccare un più grave malanno.
Questa predilezione per la sinistra deve non poco andare a sangue agli onorevoli Crispi, Mordini e compagni. Il trionfo benché extra parlamentare della sinistra non può essere che di buon augurio per essi…… a Firenze.
Caffè Quanto al modo di vivere in pubblico non v’ha notevole differenza dagli altri paesi d’Italia.
Il Fiorentino al pari del Milanese, del Torinese e del Veneziano frequenta assai volontieri i caffè, che sono pieni in tutte le ore del giorno, e la sera sono zeppi stipati.
In tutte le sale dei caffè si fuma liberamente; e questa libertà che potrebbe scandalizzare un buon torinese è giustificata dall’assenza quasi assoluta delle donne.
Se ne veggono alcune la mattina a far colezione; la sera mai – fatta eccezione, s’intende, per le straniere e per le donne del popolo sovrano, il quale, quivi, come ovunque, è superiore ai pregiudizi.
Le donne alla finestra Le donne fiorentine amano moltissimo di stare alla finestra.
E i cittadini delle altre parti d’Italia che giungono a Firenze per la prima volta notano quest’uso, che non di rado fa loro concepire un giudizio non troppo favorevole.
Ma è giudizio temerario – assolutamente temerario.
E perchè di questo peccato non si macchi anche il nostro lettore, ci facciamo un dovere di spiegargli la ragion del fatto. Abbiamo già detto, poco prima, che nel centro, specialmente, della città le case sono piccole, e senza cortili. Se le case sono piccole, piccole sono naturalmente anche le camere; non essendovi cortili, oppure essendo questi strettissimi, sì che dir si potrebbero piuttosto bussole, voi capirete benissimo che l’ambiente di quei quartieri non debb’essere sempre il più respirabile. Ora se l’aria è uno dei principali elementi di vita, e se la donna, colà come ovunque, ha ad esser casalinga, è pur troppo giusto ch’essa cerchi d’ossigenare i suoi polmoni stando alla finestra. Avete capito?
Porte delle case Quanto all’altr’uso di tenere le porte delle case chiuse anco di giorno, e quanto al modo di farle aprire, rimandiamo il lettore all’articolo Abitazioni.
Mode E però per non invadere il campo di materie più esplicitamente trattate al loro posto, in questa guida, aggiungeremo soltanto qui che fedeli in tutto alla massima del noto adagio“Meglio dell’essere
vale il parere”i fiorentini amano il ben vestire; sì che ne’ giorni di festa voi cerchereste invano l’operaio, l’artigiano, il manovale; per le vie non incontrate che signori. Perfino il becero (lo straccione) se in que’ dì non riesce ad assimilarsi al benestante, si sforza anch’esso tuttavia di far onore ai due versi su citati.
Posta questa generale tendenza, è inutile soggiungere che l’impiegato e il commerciante non potranno godere a Firenze di quella libertà, di quel laisser-aller – come dicono i nostri vicini – di cui si gode a Torino, forse più che in qualsiasi altra metropoli d’Italia.
Il manualetto, edito dalla Tipografia Letteraria di Torino, è apposito per il personale pubblico che deve trasferirsi nei nuovi ministeri a quasi 500 km di distanza. Indispensabile quindi parlare delle case in affitto. Finora i contratti di locazione a Firenze si stipulavano raramente per iscritto, e proprietari e affittuari si ritenevano vincolati di sei mesi in sei mesi, salvo il diritto reciproco di dare disdetta. Ma adesso le cose cambiano e, con il nuovo regime e l’afflusso di forestieri, i padroni di casa trovano più prudente ricorrere a contratti su carta, le cosiddette “capitolazioni”.
Uno strano calendario – in base al quale i trasferimenti d’alloggio hanno luogo due volte l’anno, in maggio e novembre… ma evitiamo di addentrarci nei particolari – fa sì che si finisca per pagare l’affitto periodicamente otto mesi prima della scadenza del semestre; e questo, ammettono gli autori, fa imbufalire non poco il torinese.
E i prezzi? 1) Il compito degli estensori è tranquillizzare i travet in trasferta, sicché l’idea universalmente diffusa che a Firenze gli affitti siano esorbitanti è quantomai erronea: la media per una camera è infatti attorno alle 120 lire al semestre, più o meno 570 euro (si tratta pur sempre di locali angusti, ancorché dotati, come vedremo, di… videocitofono e apriporta).
In compenso le botteghe, quelle sì che son care: i palazzi patrizi non le vogliono e le altre case hanno facciate troppo piccole per ospitarne un buon numero. Insomma, sono poche, e a fronte del nuovo affollamento tricolore i prezzi salgono. Forse ora capiamo meglio perché a Torino scoppiano sommosse contro lo spostamento della capitale…
Ora che abbiamo un quartiere e ne abbiamo pagata con qualche dolore la pigione, esaminiamolo un po’ attentamente, e nel suo interno e nelle sue adiacenze.
Porte Voi sapete già che le porte delle case in Firenze (eccettuati i palazzi che possono permettersi il lusso di un portinaio) stanno chiuse dì e notte.
Ma chi le apre al bisogno? – chiederete voi.
Le aprono gl’inquilini stessi – alla moda di Venezia.
Ci spieghiamo.
Ogni casa ha in uno dei battenti della porta o nella spalla della medesima tanti bottoni o maniglie che corrispondono, mediante un filo, ad altrettanti campanelli quanti sono i quartieri
del casamento.
Ognuno di questi bottoni porta ordinariamente il nome dell’inquilino del tale o tal altro piano. E siccome le case sono in generale piccolissime, ed ogni inquilino, per regola, occupa tutto un piano, così più spesso i bottoni non indicano che i piani stessi.
Ora che sapete ciò, supponiamo che vi occorra d’andare nella tale via a visitare il tale vostro amico.
Giunti innanzi alla porta in quistione, voi esaminate ben bene quella schiera di bottoni che somigliano assai al registro dell’organo della parrocchiale; e trovato quello che corrisponde al quartiere del vostro amico, gli date una buona strappata; poi, ciò fatto, alzate il muso al piano corrispondente, per sapere se v’ha gente in casa, e se la vostra scampanellata venne udita.
Poco stante – infatti – un altro muso, maschile o femminile, s’affaccia ad una finestra, e sia che vi ravvisi, o sia che non conoscendovi vi chiegga chi siate, compiuto il suo esame, tira un altro filo che corre parallelo al filo che avete seosso voi, e la porta si spalanca, e voi salite per una scala piuttosto
angusta, e il più delle volte molto oscura.
Avete capito?
Non neghiamo che quest’uso, se protegge dai ladri le abitazioni, è in compenso molto incomodo e pei visitatori e pei visitandi.
Facciamo perciò ardentissimi voti perchè diventando Capitale del Regno, Firenze abolisca cotesta noia.
E per verità, siccome ogni regola ha le sue eccezioni, vi diremo anche che in molte case s’incomincia già ad essere meno vogliosi di queste strappate di fili dal sotto in su, e dal sopra in giù; e si chiude volentieri un occhio se la porta rimane aperta. È un buon augurio.
Ma continuiamo la nostra via, e non dimentichiamoci che andiamo a visitare l’amico.
Scale V’abbiamo detto che la scala è un po’ buia, e la ragione si è che non riceve luce dalla corte, per la semplice ragione che di corti o non ve ne sono, o tutto al più se ve n’ha qualcuna qua e colà, non merita a rigor di vocabolo un tal nome.
Camere Entriamo nel quartiere. Vedete! Le son tutte camere anguste, e il più delle volte neppure a pareti parallele, a motivo che le case stesse per lo più non sono neppur esse parallele, le vie essendo tutte più o meno tortuose e serpeggianti – eccettuate quelle nei quartieri nuovi della città.
Caloriferi Fate attenzione alla scarsezza, diremo quasi alla completa assenza di camini nelle camere. Tutt’al più troverete qualche franklin.
A Firenze gli è cosi! O per essere più esatti nel parlare, accade a Firenze, ciò che accade a Genova, a Roma e a Napoli. L’idea preconcetta che quivi è il paese del dolce clima, e delle eterne tepide aure primaverili, fa sì che non si piglino precauzioni di sorta pel caso in cui le tepide aure si convertano in gelidi aquiloni.
Ma sapete come si traggono d’impaccio i Fiorentini? Precisamente come se ne traggono i Romani e i Napoletani – Cioè?
Col caldanino (scaldino, o marito).
Entrate nel banco dei commerciante, nello studio del curiale, del letterato, e perfino in qualche pubblico uffizio nei giorni di rigore atmosferico, e non troverete che individui intenti alle faccende loro col caldanino di terra in mano, o in grembo, o sullo scrittoio.
Forse si potrebbe fare a meno di simile arnese, anche senza stufa, o camino, purché si curasse un po’ meglio che usci e finestre chiudessero ermeticamente. Ma le sono baie coteste!
È per altro a notarsi che se si lascia piena libertà a messer Eolo, dio dei venti, d’entrare e d’uscire a piacer suo per tutte le aperture delle abitazioni, in compenso, non v’ha quartiere borghese il più modesto (dei quartieri signorili non è d’uopo parlare) in cui l’impiantito (pavimento) d’ogni camera non sia coperto da tappeti.
Non v’è caso! Chi non ha tappeti fa la figura del pitocco.
E a Firenze, giova ripeterlo, la figura del pitocco nessuno la vuol fare.
Nè crediate che quest’uso sia secondato dal buon prezzo dei tappeti. Oibò!
Se non sono più cari, non si pagano, certo, meno che a Torino. Le tele di canapa stampate per tappeti, e della qualità più democratica, non si trovano a meno di L. 1,50 al metro.
E partendo da questa minima, più si vuol roba bella e appariscente, e più si paga – com’è naturale.
Tiriamo avanti.
Decorazione Le pareti dei quartieri borghesi sono, in generale, dipinte a stampo, imitante le tappezzerie – come si usa molto anche in Lombardia. Ma ora si vanno introducendo anche le tappezzerie, che si chiamano carta da apparato, o più comunemente carta di Francia.
Innominabili Abbiamo udito non pochi Torinesi – costretti al grande trasferimento – lagnarsi che nelle case di Firenze manchino assolutamente – o quasi – que’ certi luoghi reconditi, in cui per ritirarsi discendono perfino i re dal trono.
È una falsità.
Le case di Firenze sono provvedute di cotesti gabinetti al pari di Torino.
Oltre a ciò, ricordiamo un’altra volta, esistere in tutti i quartieri della città latrine pubbliche.
Balconi A chi ama coltivare i fiori dobbiamo dare una brutta notizia. A Firenze le case non hanno balconi verso la via, nè ballatoi verso la corte – quando v’abbia una corte. Non v’hanno che finestre, salve arcicarissime eccezioni.
Portinai In seguito a quanto abbiamo detto fin qui, voi non durerete fatica a comprendere che a Firenze il portinaio è un mito. Non ne trovate che nei palazzi e negli alberghi; e se ne incontraste uno per caso, in qualche casa borghese, potete tenerlo in conto d’un animale esotico o transatlantico.
Economia domestica
Gastronomia fiorentina V’ha taluno il quale si è fitto in testa che Firenze per gli agi della vita gastronomica sia poco meno che un villaggio.
Errore storto, stortissimo.
Firenze fa sempre residenza invernale, prediletta, di stranieri, principi e titolati, ricchi di sterlini e di rubli.
Ora pensate un po’ se cotesti Luculli, se cotesti Epuloni vorrebbero correre mille miglia e lasciare Londra, Parigi e Pietroburgo, per andare a vivere da anacoreti in riva all’Arno.
Oibò! Sarebbe un’assurdità; e quei milordi e quei boiardi potranno forse cadere nell’assurdo tre volte il dì in politica, ma in fatto di vita sibaritica, andate là che ne sanno da insegnare a noi.
Se vanno a passare dei mesi a Firenze, e vi ritornano ogni anno – come le rondini – gli è segno che vi si sta bene.
E bene vi si sta in fatti.
Siate adunque di buon animo, o capi di divisione, e voi tutti che mediante il buono stipendio, o il buon censo vostro potete viverla da signore, siate di buon animo che a Firenze troverete tutte le leccornie che possiate desiderare, tutte le raffinatezze, cui siete usi a Torino, a Milano, a Bologna, a Genova, a Napoli.
Pizzicherie I Cirio, i Valazza, gli Ansaldi, i Falcioni e gli altri eroi della pizzicheria dell’ex-provvisoria, hanno in riva all’Arno i loro poderosi rivali, o sosii – come vi piacerà meglio chiamarli. E per soprappiù sappiamo che qualcuno dei sullodati campioni di qui pensa di trasportare colà le sue tende.
Ad ogni modo vi diamo assicuranza che di pizzicagnoli a Firenze se n’incontrano ad ogni passo, e le loro botteghe che sono belle, pulitissime – diremmo quasi artisticamente disposte – sono anche ben provviste di prodotti gastronomici del luogo, e delle altre principali piazze – come si dice – dell’Italia.
I Piemontesi vi troveranno perfino i loro prediletti salami di Alessandria.
Macelli Frequentissime sono pure le botteghe dei macellai, le quali se non isfoggiano il lusso di quelle di Torino, sono tuttavia decenti.
Le carni delle quali si fa maggior consumo per la cucina sono il vitello e l’agnello; si trova anche il bove (manzo), ma i Fiorentini non l’usano per lesso, come non l’usavano neppure i Torinesi prima del quarantotto. I prezzi correnti delle carni sono di alquanto al disotto di quelli di Torino.
Che dire? Il lettore d’oggi si starà chiedendo perché un prontuario per piemontesi sia scritto in una specie di fiorentino; anzi, in quel linguaggio che viene definito “manzonismo” ed è abbastanza tipico dei padani (D’azeglio, De Amicis) e dei veneti (Tommaseo) dell’epoca periunitaria quando tentano di parlare italiano. Questo favellar pesante – completamente diverso dall’agilità del vero toscano – è ben descritto dal Carducci con l’espressione “manzonismo degli stenterelli”.
D’altra parte proprio questa buffa espressività ci permette di toccare con mano la portata dell’operazione distruttiva intentata dal regime coloniale “italiano”, cioè l’imposizione di una lingua ufficiale basata sul parlare delle classi colte fiorentine.
Le sfumature ridicole sfuggono a questi pubblicitari dell’unità, per esempio quando ci assicurano che i piemontesi potranno ritrovare in riva all’Arno le amate “pizzicherie” (il “capo divisione” sabaudo, con un sospiro di sollievo, ritroverà qui il suo consueto panino col lampredotto?).
Riassumiamo la lista della spesa ricordando che: il pollame è abbondante e a buon mercato, mentre a Firenze le verdure sono un po’ più care (ma in compenso lì se ne trovano anche in inverno che in Padania non crescerebbero); il pesce non è caro, freschissimo perché arriva quotidianamente da Livorno; il riso si trova, ma ahiloro (soprattutto i vercellesi) non certo in quantità pari alla pasta.
Sul pane – note dolentissime per il nordico – gli autori compiono un vero capolavoro di diplomazia, assicurando che la mancanza di sale non si nota… tacendo che il problema del pane toscano, per popolazioni che hanno il culto della panificazione, non è certo il titolo in cloruro di sodio.
Probabilmente tutti d’accordo, da Cuneo a Novara, che a Firenze si trovino ottime pasticcerie; e i “buoni piemontesi trasferiti” hanno l’opportunità di riunirsi dal liquorista Giacosa, torinese purosangue, dove possono anche “parlare liberamente la madre lingua di Gianduia”. Frase scappata ai controlli ministeriali?
Vino I vini toscani sono piuttosto secchi e di color granato, salati, squisiti, ottimi insomma per pasteggiare. E non sono cari. Al minuto si pagano – quelli da tavola, s’intende – da cent. 60, a L. 1 il litro. All’ingrosso da L. 20 a L. 30 la soma, misura antica che equivale ad 80 litri.
Per coloro i quali non possono permettersi il lusso di una cantina, aggiungeremo che si trovano negozi di vino in ogni parte della città e frequentissimi. Nei negozi di vino al minuto si vendono anche gli olii d’ogni qualità.
A proposito di cantina dobbiamo farvi una rivelazione importante. Le botti e i barili a Firenze sono per regola un privilegio delle famiglie agiate. La massima parte dei Fiorentini, o per dire più esattamente, dei Toscani – come degli Umbri e dei Romagnoli – tiene il vino in fiaschi impagliati. In fiaschi si mette sulla mensa; in fiaschi si compra dal mercante, col medesimo sistema col quale si acquista da noi alle birrerie la birra, la gazosa o l’acqua di Seltz. I fiaschi vuoti si rendono per averne dei nuovi pieni.
Gli è solo da un paio d’anni che nelle trattorie di primo ordine si serve il vino in bottiglie. Solo al tempo dell’Esposizione, nel 1861, si serviva ancora nei fiaschi e a consumo; non si pagava che quel tanto che si beveva. Quest’uso è ancora vigente nelle osterie e negli altri luoghi ove si vende vino da bere sul luogo.
Questa di far pagare il vino a consumo usa tutt’oggi in qualche osteria toscana. Ricordo che in una trattoria di Lucca, Giulio in Pelleria, almeno fino a qualche anno fa, ti mettevano sul tavolo un fiascone pieno di vino della casa. Quando andavi alla cassa a pagare, dovevi dichiararne il consumo con la formula: “Tot dita sopra (o sotto) la veste”, intesa quest’ultima come il bordo superiore del rivestimento di paglia.
Mentre finora abbiamo visto i tentennanti figli della supergastronomia piemontese alle prese con la più parca e rustica cucina toscana, non possiamo non notare una sdrucciolata… sull’olio, da parte dei commentatori. Poco abituati a questo prodotto (in Padania si è sempre usato il burro come condimento, con l’eccezione dell’olio di ravizzone, e in Liguria anche il locale olio d’oliva), essi sembrano non riconoscere l’eccellenza della Toscana in questo campo (Lucca a parte). Quindi il funzionario in trasferta rischia di dover fare a meno del limpido olio di Nizza (leggi “ligure”) per quello opaco e “grasso” del posto.
Ma vediamo nei particolari:
La Toscana è il paese dell’olio, quanto lo possano essere le due riviere della Liguria. L’olivo è albero che s’incontra ovunque e nei giardini, e sui colli. Con ciò non diciamo che l’olio toscano sia il migliore degli olii possibili.
Facciamo, tuttavia, onorevole eccezione per l’olio di Lucca il quale vuolsi dagli esperti gastronomi sia il migliore fra tutti, in Italia e in Europa.
A chi è abituato all’olio di Nizza, cosi limpido, a tutta prima quello di Lucca fa un poco arricciare il naso, per ciò che è alquanto verdognolo e opaco alla vista, e grasso al palato. Ma una volta che vi si è abituati, se ne gustano tutti i pregi. Abbiamo su ciò irrefragabile testimonianza d’una famiglia torinese, la quale avendo soggiornato due anni in Toscana per ragioni d’ufficio del suo Capo, nei primi tempi provò qualche ripugnanza per l’olio di Lucca, poi finì per non poterne far a meno; e trasferita di nuovo in Piemonte, prese le sue precauzioni perchè quel benedetto olio non le venisse più a mancare.
In Toscana non pochi usano l’olio in luogo dei burro non solo per friggere, ma sibbene per fare la frittata, e le uova al tegame. E i toscani – giova ripeterlo – se sono parchi, non son meno industriosi gastronomi.
Tant’abbondanza d’olio fa sì che il prezzo ne sia favolosamente mite. Se ne può avere perfino a centesimi 50 il kilogramma.
Parlando di prezzi, l’olio a 50 centesimi equivale a 2,35 euro: davvero a buon mercato, considerando in più che un chilo di extravergine corrisponde a 1,2 litri. Anche la legna – abbondantissima, ieri come oggi, sull’Appennino tosco-emiliano – costa poco, circa 12 euro al quintale. È meno di quanto si paghi oggi, ma neanche troppo lontano dai prezzi attuali in zone particolarmente boscose della Toscana, come il Casentino o la Valtiberina.
Il petrolio – inteso unicamente come combustibile per illuminazione, detto anche “lucillina” – è assai più diffuso a Firenze che a Milano o Torino, dove si usa di preferenza l’olio da ardere: per questo costa soltanto 3,50-3,75 euro al litro contro i 4,70-5,60 del nord. “Soltanto” si fa per dire: i prezzi sono in linea con quelli attuali del petrolio bianco, cioè da lampada. D’altra parte, quantomeno in America, il costo del greggio era assai elevato negli anni ‘60 del XIX secolo, paragonabile ai picchi degli anni ‘70 del XX.
Tra gli altri prezzi al minuto elencati dai nostri autori, il pane (da 1,30 a 1,60 euro al chilo il pane comune, da 1,60 a 2,10 la prima qualità), la pasta (2,80 al chilo), il riso (2,30-2,80). Il vino da tavola, come abbiamo letto più sopra, va dai 2,80 ai 4,70 al litro, mentre all’ingrosso si paga dai 95 ai 140 euro la soma… che per i piemontesi è una fetta di pane soffregata d’aglio, per i fiorentini un’antica misura equivalente a 80 litri.
Mercati Abbiamo già detto come negozi di commestibili si trovino naturalmente in ogni parte della città. Ma ciò non impedisce che sianvi anche due grandi mercati, cioè il Mercato Vecchio, nel centro della città, nelle vicinanze della Piazza della Signoria e del Duomo (V. la Pianta N. 20) e il Mercato San Pietro, detto anche il Mercatino, poco discosto da Santa Croce, dal Teatro Pagliano e dalla Via Pinti (V. N. 21).
In entrambi questi mercati, ma in maggior copia nel primo, si trovano raccolte tutte le derrate imaginabili, tanto comuni che prelibate, tanto nostrali che forestiere, ortaggi, pollame, salumi, carni, selvaggina ecc., ecc.
Così fossero puliti, come son ben provvisti. Ma ahimè! La madre di famiglia, buona massaia, la quale amasse fare da sé le proprie provvigioni, bisognerà che si rassegni a camminare nella pozzanghera e nella melma fino al maleolo – per lo meno.
D’altra parte, poi, se torna assai comodo l’avere questi due mercati nel centro della città, non torna certamente decoroso ad una metropoli. Dicesi che il Municipio pensi a trasferire in altro quartiere e meno angusto e più vicino alla periferia il Mercato Vecchio; ma è un progetto, e di progetti ne concepiscono tanti e di sì belli i Municipi, e con sì meravigliosa facilità !…
Persone di servizio Qui siamo a guai! A Firenze – sempre per quella benedetta smania di parere più che non si sia realmente – la categoria persone di servizio grava sul bilancio più che non gravi altrove. E perchè? Perchè anco le famiglie più borghesi e meno agiate usano tenere due persone di servizio, un uomo e una donna; il primo più spesso in qualità di cuoco, la seconda in qualità di cameriera. E chi non s’adatta a questo stato di cose conviene s’adatti a passare per un miserabile.
Ma – direte voi – trasferendoci colà, non abbiamo già l’obbligo indeclinabile di copiare pedantescamente tutte le abitudini fiorentine; e trattandosi di uso meramente domestico, in casa nostra possiam ben fare e non fare ciò che meglio ci talenta.
E sta bene. – Il vostro ragionamento fa onore al vostro spirito d’indipendenza, ma peccato che nel caso concreto sia di dubbia efficacia. Noi ve lo possiamo tener per buono solo ove siate decisi di condurre con voi la vostra cuoca di qui. Allora siete a cavallo.
Ma se avete calcolato di trovarvene una a Firenze, la quale oltre al beneficio dell’essere pratica del luogo, vi offra pur quello di servirvi da vocabolario del bel linguaggio, in allora vi diciamo che avreste fatto il conto senza l’oste; perchè a Firenze troverete difficilmente una buona serva la quale voglia e sappia farvi da cuoca e da cameriera ad un tempo. Dicendo che ciò non è facile, non vogliamo dire che sia assolutamente impossibile, ma!….
Per chi, poi, può permettersi il lusso di due persone di servizio aggiungeremo due parole sul rispettivo loro salario. Una domestica si paga ordinariamente da Lir. 6 a Lir. 10 al mese, oltre vitto e alloggio. Un domestico da L. 10 a L. 20 oltre il vitto e alloggio; ma se – come si pratica da moltissime famiglie – non vi piacesse di tenervelo in casa, fisso, non vi sarà difficile trovarne uno il quale venga o a farvi la cucina od a prestarvi i servigi più duri e grossolani, o l’uno e l’altro insieme, in certe determinate ore del giorno. In questo caso il salario si misura in proporzione dell’opera prestata.
Ma se volete accettare un nostro consiglio, vi diremo che ove foste tanto benedetto dal Cielo di possedere già una buona persona di servizio – o uomo o donna – fareste uno sproposito imperdonabile, quando a costo di qualche maggiore sagrifizio nelle spese di viaggio non l’induceste a seguirvi nella nuova capitale. Scommettiamo cento contro uno che avreste a pentirvi di non averlo fatto. Uomo avvisato – dice il proverbio – è mezzo salvato.
Dopo aver appurato che l’olio d’oliva costava 50 centesimi dell’epoca, sembra di avere le traveggole leggendo che con l’equivalente di 12 bottiglie si poteva stipendiare una cameriera… Ma è proprio così: 28-47 euro una domestica, 47-94 un domestico. Al mese. Ovvio che l’unico “sagrifizio” di portarseli appresso sarebbero state le spese di viaggio!
N O T E
1) Le conversioni tra la lira dell’epoca e l’euro sono state calcolate utilizzando le tabelle contenute in Il valore della moneta in Italia dal 1861 al 2008, ISTAT, 2009.