È poco nota al grande pubblico l’esistenza di radici celtiche nella popolazione e nella storia culturale di una parte della Spagna. E sarebbe del tutto ignota se non fosse per alcuni brani musicali tipicamente celtici portati al successo negli ultimi anni da artisti come Carlos Núñez o Hevia, entrambi suonatori di gaita. È la tradizionale cornamusa della Galizia e delle Asturie, due regioni autonome dell’estremo nord iberico, un tempo unite nel “regno delle Asturie”, divenuto nel X secolo “regno di Leon” e infine confluito insieme ai regni di Castiglia e di Aragona nell’attuale regno di Spagna al tempo della reconquista di Ferdinando il cattolico, che alla fine del ‘400 portò all’unità territoriale spagnola.

Gaiteros.

Le due Galizie

Parlando della Galizia e dei galiziani, dobbiamo subito sgombrare il campo da un equivoco di fondo: il termine stesso di Galizia. In realtà nel territorio europeo esistono due aree che condividono questo nome: oltre a quella iberica, esso indica anche la regione della storica Rutenia o Transcarpazia, un territorio così chiamato per via di un importante insediamento medievale, quello di Halyč, posto tra la parte occidentale dell’Ucraina (in particolare gli oblast di Leopoli, Ternopil e di Ivano-Frankivs’k ), la provincia slovacca di Presov, la Polonia sud-orientale (e in particolare il voivodato di Lublino e la parte orientale della Piccola Polonia, con Jarosław, Przemyśl e Sanok), l’area di confine orientale dell’Ungheria e l’estremo nord della Romania.
Pura coincidenza, quindi, anche se persino quell’altro territorio sembra fosse stato conteso a lungo tra tribù celtiche, germaniche e slave prima dell’attuale definitiva spartizione tra i vari Stati, avvenuta comunque dopo la caduta dell’impero asburgico.

Vicende storiche e substrato culturale

Ritornando quindi alla Galizia iberica, essa è storicamente l’erede della Gallaecia dei romani, un territorio più esteso dell’attuale che comprendeva, oltre ad altre aree della Spagna nord-occidentale, anche al Portogallo settentrionale.
Ben prima dei romani, a partire dal IX secolo a.C. da queste parti approdarono i primi popoli indoeuropei, tra cui alcune tribù di origine celtica come i callaeci (il “popolo delle pietre”), che ci hanno lasciato alcuni monumenti religiosi a forma di dolmen, come quello vicino Tordoia, una ventina di chilometri a nord di Santiago de Compostela; o quelli nell’area di Muíños, al confine col Portogallo, proprio come in tutte le altre terre occupate da tribù celtiche tra Irlanda, Scozia, Galles, Inghilterra e Francia. 1)
Si deve a queste popolazioni lo sviluppo della cultura dei “castros”, insediamenti di popolazione dedita all’agricoltura che erano tuttavia anche nuclei fortificati e facilmente difendibili da incursioni esterne, conservatisi tali sotto il successivo dominio romano. Uno dei maggiori esempi, sicuramente il più spettacolare anche se non il più noto, è quello una cinquantina di chilometri a sud-ovest di Santiago de Compostela, vicino a Porto do Son, denominato Castro de Barona, in cui si possono ancora ammirare gli antichi basamenti delle grandi capanne costruite dai callaeci in riva all’oceano.

Dolmen di As Maus de Salas.

Plinio il Vecchio e Strabone ci hanno tramandato le prime notizie su questo popolo e sulla società matriarcale e democratica che sembra lo caratterizzasse. Ogni clan eleggeva un proprio rappresentante, e tutti gli eletti a loro volta eleggevano nel corso di un’assemblea generale che si riuniva ogni anno il capo dell’intera tribù. In ogni clan esisteva poi una sorta di aristocrazia militare che governava il castro insieme a un sacerdote con funzioni druidiche, quindi in veste di aruspice, di guaritore e di mago.
Plinio, in relazione a questo antico popolo, parla anche della presenza di donne guerriere, come tra i lusitani e i vetoni; e Antonio Diogene racconta come tra gli artabri, una delle tribù galiziane, le donne combattessero in guerra mentre gli uomini custodivano la casa e si occupavano anche dei lavori femminili mentre erano impegnate a difendere la tribù. Dello stesso tenore il racconto di Appiano sulla tribù dei brácari, le cui donne – afferma – combattevano al fianco degli uomini senza voltarsi indietro, senza mai mostrare le spalle né lanciare un grido. Il loro armamento consisteva principalmente in una “caetra”, cioè in uno scudo allungato di legno rivestito di cuoio, una lancia, una lunga spada e un pugnale. Alcuni guerrieri indossavano collari come protezione magica, come testimoniano quelli rinvenuti in molti forti della Galizia.
Fanno riflettere le informazioni di fonte romana quando ci parlano dell’abbigliamento maschile, con notizie che risultano comunque avvalorate anche da alcune statue di guerrieri galiziani rinvenute in quest’area e nel nord del Portogallo. L’abbigliamento maschile era caratterizzato da una lunga camicia, allacciata con una cintura in vita, che terminava quasi alle ginocchia, dove linee di diversi colori formavano uno o più quadri o rombi per differenziare ogni clan dagli altri. In alcuni clan poi anche gli uomini indossavano gonne, uso che si mantenne in alcune zone interne della Galizia fino all’800. Proprio questi elementi ci riconducono a una caratteristica tradizione comune a tutti i popoli celtici, che continua ancora oggi in particolare nei clan scozzesi.

Sito archeologico di Castro de Baron, presso Porto do Son.

Che vi siano stati connessioni e scambi continui tra il nord della penisola iberica e le isole britanniche è stato inoltre confermato da una serie di studi genetici condotti in tempi recenti dall’Università di Oxford, studi in cui sono stati riscontrati fenotipi specifici identici anche tra gli abitanti attuali delle due aree territoriali, in particolare nel Galles e in Irlanda, zone nelle quali i britanni si rifugiarono durante l’invasione anglosassone, contro la quale combatté il mitico Artù.
Secondo lo studio, i primi abitanti delle isole britanniche sarebbero stati pescatori provenienti dalla costa cantabrica arrivati ​​tra il VII e il VI millennio a.C.
Un’altra di queste migrazioni, ma nella direzione opposta, sarebbe stata quella dei britanni che fuggirono dalla loro terra quando i sassoni e altri popoli germanici invasero l’Inghilterra nel V secolo d.C.: molti si rifugiarono nella Francia settentrionale (da cui il nome Bretagna), altri nell’area iberica nord-occidentale, quindi proprio in Galizia e in una parte delle Asturie, formando diverse comunità locali e contribuendo a evangelizzare queste terre.
Furono i romani a considerare la Galizia iberica il finis terrae occidentale dei loro possedimenti, dato che proprio dopo la città di Santiago si trova Cabo Finisterre (Fisterra in gallego), che essi ritenevano l’estremo lembo a ovest del continente europeo, dove la terra si fondeva nell’Atlantico (mentre oggi le più accurate misurazioni terrestri indicano che il punto più occidentale dell’Europa sia ormai fissato in Cabo de Roca, posto più a sud, sulla costa portoghese).
Proprio a Cabo Finisterre esisteva una vasta necropoli che avrebbe dato il nome a Compostela (dal latino composita tella, terra felice, un eufemismo per denominare un antico cimitero, cioè l’antica necropoli precristiana, come confermerebbe anche il nome dell’area costiera, “Costa da Morte”), mentre l’interpretazione ufficiale farebbe derivare Compostela da campus stellae, il campo illuminato dalla stella dove per la tradizione cristiana sarebbero state trovate le spoglie dell’apostolo Giacomo, da cui avrebbe avuto origine il pellegrinaggio dei secoli successivi, dichiarato “patrimonio dell’umanità” dall’unesco.
E proprio lungo il sacro itinerario si possono rinvenire alcuni legami della Galizia con la cultura gaelica, grazie alla presenza di croci celtiche poste in luoghi sacri probabilmente anche precristiani dove furono edificate cappellette e altri edifici cristiani lungo il Camino, per spingere all’evangelizzazione una popolazione spesso riottosa ad abbandonare i culti pagani. Anche nella stessa Santiago de Compostela ve n’è una che si innalza alla sommità della facciata della chiesa di Santa Susanna, emblema del legame che unisce la Galizia alle altre terre celtiche d’Europa.

Il territorio

Dal 1981 la Galizia è una “comunità autonoma” del Regno di Spagna, il cui capoluogo è Santiago de Compostela, punto di arrivo del famoso sacro Camino verso la tomba dell’apostolo Giacomo, noto anche come Ruta Jacobea. La regione è poi divisa in quattro province: A Coruña, Pontevedra, Ourense e Lugo. La popolazione, composta da poco più di due milioni e settecentomila persone, si addensa nelle due province costiere (A Coruña e soprattutto Pontevedra), mentre si rarefà nelle due province interne (Lugo e Ourense).
Complessivamente stiamo parlando di un territorio che si allarga su trentamila chilometri quadrati di superficie tra rilievi ondulati e ampie vallate, e che ospita milleduecento chilometri di costa spettacolare tra l’Atlantico a ovest e il mare Cantabrico a nord, tra rias – gli estuari che si spingono verso l’entroterra – selvagge scogliere e spiagge candide, di cui una quarantina l’anno vengono insignite della distintiva “bandiera blu” per la purezza delle acque. L’interno è un insieme di verdi colline popolate da case in pietra, da pittoreschi esempi di hόrreo, i tipici granai dalla struttura in pietra o legno a forma di capanna poggiati su pilastri in pietra per evitare l’umidità e l’ingresso di animali, da chiesette romaniche, e poi da casolari e vigneti che ricamano il paesaggio circostante.

Chiesa di Santa Susana a Santiago de Compostela: la croce celtica.

La questione della lingua

Parlavamo all’inizio del legame che unì per alcuni secoli la Galizia alle Asturie; tuttavia, nonostante tale legame e ovviamente la vicinanza territoriale che permane anche nell’attuale assetto politico-amministrativo della Spagna, a distinguere la Galizia dalle confinanti Asturie è proprio l’insieme delle tradizioni storico-culturali. La piccola regione-principato delle Asturie vanta origini romanze, testimoniate anche dalla lingua locale del tutto affine al castigliano (la lingua ufficiale della Spagna), mentre per la Galizia sono certamente comprovate le sue radici celtiche, testimoniate ancor oggi dalle reminiscenze di una cultura per tanti versi comune con quella bretone e quelle delle isole britanniche d’oltre Manica, oltre che dalla conservazione di una lingua parallela al castigliano, il gallego. Esso si è formato nel XII secolo come risultato dell’assimilazione della parlata celtica originaria (il celtiberico) con il latino portato nel II secolo dai conquistatori romani, e infine con il volgare medievale in cui nel frattempo l’idioma si era evoluto.
Con l’unificazione e la successiva centralizzazione del potere in Spagna, il galiziano iniziò a perdere terreno a favore del castigliano, tant’è che già tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 era ormai relegato all’uso domestico e rurale, mentre il castigliano era divenuto la lingua dell’amministrazione, della giustizia e dell’istruzione.
Oggi il gallego è una delle lingue sopravvissute dell’Europa, parlato soprattutto dalla popolazione più anziana e lontana dalle grandi città, rimanendo contraddistinto da un mix di radici lessicali romanze e in minoranza celtiche, anche se il castigliano sta fagocitando sempre più di generazione in generazione le sue diversità.
La sua mancata estinzione si deve a un risveglio nazionalistico che ebbe luogo nell’800, detto “rexurdimento”, perseguito da alcuni intellettuali locali, tra i quali spiccano i nomi di Eduardo Pondal e Manuel Murguía i quali, studiando autori del passato, provarono a riportare alla luce leggende e tradizioni collegandole a quelle ben più vive presenti in Irlanda, Scozia, Galles e Bretagna. A un altro di questi eruditi della seconda metà dell’800, Juan Antonio Saco y Arce, si deve la realizzazione della prima Gramatica gallega, tuttora fondamentale, e di un’antologia della Literatura popular de Galicia. Antonio de la Iglesia curò nel 1863 la pubblicazione del Diccionario gallego-castellano di Francisco Juan Rodríguez, oltre a redigere i tre volumi dell’opera El idioma gallego: su antigüedad y su vida.
Tra i maggiori letterati galiziani non si può non menzionare Rosalía de Castro, nativa di Santiago de Compostela, una delle più grandi poetesse della letteratura locale grazie in particolare alla sua raccolta Cantares Gallegos, pubblicata nel 1863, con componimenti nei quali esprimeva l’amore per la sua terra natale, le sue tradizioni e la sua lingua.

Una scritta indipendentista su un muro.

Fu proprio grazie al contributo degli autori citati che si giunse alla fine dell’800 a rivitalizzare il galiziano e a promuoverne l’uso letterario, tanto che nel 1906 fu istituita la Real Academia Galega (rag), responsabile della promozione e della regolamentazione della lingua galiziana, e nel 1916 Os Pinos, una poesia di Eduardo Pondal, fu scelta come testo del nuovo inno regionale.
Purtroppo tutta la storia della lingua galiziana è all’insegna della resilienza, dato che fino al ‘900 ne fu represso l’uso anche orale dal regime franchista, contribuendo non poco alla sua quasi estinzione. Soltanto negli ultimi decenni è ripreso quel percorso volto a ritrovare e valorizzare il passato celtico di questa terra, divenuto parte integrante dell’auto-percepita “identità galiziana”; ne sono esempio le associazioni culturali e persino le società sportive nate con nomi esplicitamente legati ai celti, come “Celta de Vigo”, “Céltiga F.C.” o “Fillos de Breogán”.

La musica come veicolo

Maggiore fortuna ha avuto la sopravvivenza di una musica popolare, con precise connotazioni celtiche sia nelle melodie sia nella strumentazione, tanto che gli ultimi decenni del ‘900 hanno assistito alla nascita di manifestazioni e festival culturali e musicali di stampo celtico, tra cui il più notevole è il Festival Internacional do Mundo Celta de Ortigueira. Musicisti e gruppi galiziani sono contemporaneamente diventati abituali presenze ai festival celtici che si svolgono in Bretagna o in Irlanda e Scozia, come nel famoso Festival Interceltico che ogni anno richiama a Lorient, in Francia, tutti i più grandi interpreti europei di questo genere.

Parlavamo già all’inizio della gaita, lo strumento musicale tradizionale galiziano, appartenente alla famiglia delle cornamuse, che sono a loro volta al centro delle tradizioni musicali scozzese, irlandese e bretone. Se la gaita è lo strumento immancabile di ogni musica galiziana, i bodhrán lo sono per fornire il ritmo: si tratta di sottili tamburi di pelle di capra da percuotere con una piccola bacchetta di legno. Altri strumenti come flauti, violini e violoncelli accompagnano le esibizioni di solisti e gruppi, come Hevia, i Luar na Lubre, Carlos Núñez.
Vi sono anche gruppi che, sfruttando la moda del revival celtico degli ultimi due o tre decenni a livello internazionale, hanno tentato vari connubi tra la tradizione musicale celtica della Galizia e il rock moderno di estrazione anglo-americana, come i Suaves, i Deluxe, i Ferrol, i Siniestro Total e gli Os Resentidos. Anche questo è stato un canale per esportare e fare conoscere la cultura galiziana in tutt’Europa.

Il dolmen di Tordoia.

N O T E

1) Cfr. il mio articolo La corrida e i simbolismi dimenticati della tauromachia.