La morte e i rituali a essa correlati (funerale, sepoltura, eccetera) possono essere considerati l’ultimo “rito di passaggio” nella vita di una persona, tema di cui spesso si è occupata l’antropologia. Ma in questo articolo, più che della morte in sé e dei cerimoniali connessi, vogliamo parlare dell’aldilà, cioè della sorte che tocca alla persona, in base alle sue convinzioni religiose e culturali, dopo la sua morte.
Chiariamo subito che l’aldilà è un mondo o una condizione (sempre che esista un mondo o una condizione) che nessuno da vivo può o potrà mai conoscere, proprio perché è vivo, e quindi qualunque idea, architettura simbolica, allocazione nello spazio o conoscenza del mondo ultraterreno è, di per sé, solo un atto di fede. Forse proprio l’ultimo e più significativo atto di fede che ogni religione che ne parli o che ne contempli l’esistenza ha imposto ai propri credenti. Insomma, un mondo a cui si deve necessariamente credere, per chi ci crede, per fede e convinzione religiosa e non per razionalità, quindi un mondo tutto da scoprire da un punto di vista speculativo e, di fatto, irrazionale; se si escludono i tentativi di sciamani o medium di farsi portavoce di quel mondo con i vivi, istituendo un ponte che solo loro sono in grado di percorrere.
Va altresì chiarito che anche un’eminente voce del cattolicesimo, l’ormai anziano cardinale Camillo Ruini, ha ribadito pochi anni addietro in un suo libro l’impossibilità di fornire una risposta certa sull’aldilà anche a chi crede fermamente nella resurrezione dei morti e nel paradiso come un uomo di Chiesa par suo. Insomma non esiste nemmeno per Ruini una reale “certezza”, cioè una qualche prova tangibile, che questo aldilà esista davvero nemmeno per un religioso che affida la sua risposta alla fede.
“La verità è che non lo sappiamo”, egli confessa. Anche se varie testimonianze di chi è stato sul limite ultimo della vita ma è poi “tornato indietro” sembrano concordare sul fatto che, come scrive Ruini, “l’ammalato può udire il medico che lo dichiara morto, poi ha la sensazione di entrare in un tunnel lungo e oscuro; quindi improvvisamente si ritrova fuori dal proprio corpo, che ora può vedere dall’esterno e dall’alto […]. Scopre così di possedere un altro corpo, molto diverso da quello fisico che ha abbandonato, e dotato di facoltà nuove. Gli si fanno incontro altri defunti, in particolare parenti e amici che lo aiutano, e soprattutto gli appare un essere di luce, uno spirito d’amore che gli fa rivivere gli avvenimenti più importanti della sua esistenza. A un tratto si trova vicino a un confine che sembra essere quello tra la vita terrena e l’altra vita. Sente di dover tornare sulla terra perché non è ancora arrivato per lui il momento della morte, tenta di opporsi perché è ormai affascinato dall’altra vita, ma si riunisce in qualche modo al proprio corpo fisico e torna in questo mondo”. 1)
Può apparire strano, ma anche un importante uomo di scienza come il fisico Federico Faggin sembrerebbe giungere razionalmente ad analoghe conclusioni, fondando la sua convinzione di una vita “invisibile” oltre la morte proprio con riferimento alle esperienze di premorte sperimentate da tante persone, anche di fede diversa, che egli cita in un altro libro di recentissima pubblicazione, anche se il suo testo evidenzia un approccio non fideistico ma scientifico. 2)
Quindi, al di là delle esperienze che sembrano essere state vissute da molti, di un destino cosciente di “vita post-mortem” non vi è certezza, né ce ne può essere da un punto di vista razionale: qui l’uomo di fede e l’uomo di scienza concordano.
E che dire della possibilità di comunicare con i defunti per avere da loro stessi una risposta? Possiamo aggiungere, al riguardo, che per secoli all’interno di molte religioni (tra cui il cristianesimo) chi provava a comunicare con i defunti veniva punito o condannato a morte. Tutto cambiò nel corso dell’800, quando allo sciamanesimo delle religioni considerate a quel tempo “primitive”, si aggiunse anche in occidente l’idea di poter raggiungere in qualche modo il mondo dell’aldilà anche da parte dei vivi, attraverso persone dotate di specifiche facoltà, i “medium”.
Lo spiritismo esplose così dapprima negli Stati Uniti e poi in Europa. Le sedute spiritiche a cui partecipavano anche nobili, ricchi borghesi e persone di cultura, seduti attorno a un tavolo rotondo guidati da una persona che fungeva da intermediario con il mondo dell’aldilà, spesso una donna, furono in realtà una moda che, così come esplose, pian piano si smorzò. Ma a modo loro furono anche un tentativo di allineare una comunicazione – fino ad allora considerata “magica” o peggio “diabolica” tra i due mondi – ai princìpi della scienza, in particolare all’elettricità che aveva consentito la diffusione del telegrafo e che portò poi alla nascita del telefono.
Fu quindi anche un modo per distinguere la “medianicità” da altre forme considerate del tutto superstiziose o frutto di credenze mistiche appartenenti comunque al passato.
Un tempo in cui la morte non c’era?
Luigi Moraldi, teologo, biblista ed esperto di lingue e scienze orientali alla Pontificia Università Gregoriana è stato uno dei massimi studiosi della storia dell’aldilà e delle concezioni che le varie culture hanno avuto dell’oltremondo dopo la morte, tanto da dedicare a questo specifico argomento un libro che a nostro giudizio rappresenta una pietra miliare negli studi religiosi. 3) “Ci fu mai un tempo nel quale la morte non c’era?”, si chiede a un certo punto di questo suo famoso libro Moraldi. La sua risposta è apparentemente banale: “Il tempo nel quale la morte non esisteva è soltanto nel pensiero dei filosofi e dei teologi”.
In realtà a cambiare è stata soprattutto la maniera in cui la morte è stata… vissuta dall’umanità, perdendo pian piano quella ciclicità dell’eterno divenire che soprattutto le società agricole del passato le avevano attribuito, inserendola nel contesto di nascita, crescita, filiazione e morte (e quindi rinascita) che la natura ha sempre scandito nel suo universo cosmico, nel mondo umano come in quello degli altri esseri viventi, del cielo e della terra.
Semmai è stata la civiltà industriale e poi la costruzione di realtà alternative nel pensiero soprattutto occidentale (non dimentichiamoci che è stata proprio la tecnologia ad averci condotti di recente anche all’intelligenza artificiale e al metaverso) ad allontanare l’uomo da questa realtà e, nel contempo, a dissociare questa stessa realtà ineludibile dal suo originario ciclo vitale e quindi allontanarne il pensiero, facendo dimenticare quanto in essa vi sia proprio di naturale e quindi anche di umano, come accade per un fiore, un albero, un animale, eccetera.
La ricerca di un oltremondo in qualche modo noto e “sicuro” a cui affidarsi dopo la morte corporale, cioè di un aldilà con le sue regole e le sue prerogative, i suoi luoghi e la sua fisicità, esiste fin dall’antichità, lo sappiamo: ne parlano i più antichi testi pervenutici di vari popoli e le scoperte archeologiche a proposito di sumeri e assiri, di egizi e persiani, di greci e romani. E l’aldilà, con tutte le sue descrizioni e le sue regole, esiste come punto nodale in tutte le più importanti religioni professate anche ai giorni nostri. Così come, parimenti, c’è stato in ogni tempo il rifiuto della morte, o meglio il rifiuto nel considerare che la morte portasse via tutto ciò che l’uomo era stato da vivo.
Ma l’avanzare delle tecnologie e delle scoperte scientifiche, oltre che l’innalzarsi dell’età media degli individui e la continua guerra per sconfiggere malattie un tempo incurabili, se da un lato hanno permesso di allontanare il tempo della vita in cui considerarsi anziani e iniziare a pensare all’imminenza della morte, dall’altro ci hanno regalato come contraltare una incertezza metafisica che, se non poteva sconfiggere la morte (anche se qualche miliardario già adesso ci sta provando mediante la criogenesi, facendosi ibernare prima della fine sperando di risvegliarsi in un mondo futuro nel quale sopravvivere in qualche modo a sé stesso), quanto meno tentava di nasconderla il più possibile, cancellandola dai nostri orizzonti esistenziali e addirittura semantici.
Si è anche fatto di tutto per sbarazzarsi persino del mondo dei “cari estinti”, mettendo tuttavia in crisi secoli di valori e scegliendo di vivere la vita come se la morte non dovesse mai giungere, negandone la prossimità e il necessario avvicinarsi giorno dopo giorno, evidenziando così un narcisismo sciocco e illudendosi in tal modo di poter chiudere gli occhi di fronte all’universo che ci circonda. Si sono persino allontanati gli anziani, relegandoli in quei “pre-cimiteri” che spesso sono le residenze per anziani dove essi possono vivere gli ultimi anni delle loro vite, essendo ormai divenuti inutili alla società dei consumi, così da non doverli incontrare per strada e chiedersi: ma noi faremo la loro stessa fine?
È come se molte culture avessero provato a “privatizzare” la morte per negarla agli occhi della comunità, per distogliere la gente dalla possibile conclusione del ciclo dei consumi innescato dalle regole del capitalismo e dall’individualismo radicatosi soprattutto nelle culture anglosassoni, ma di fatto esteso ormai a tutte le società più ricche del pianeta (anche la Cina, con il suo partito unico del popolo, è diventata una società in cui vige la cultura dei consumi).
E il tentativo di privatizzare l’ultima parte della vita, per non rendere pubblici gli effetti della decadenza dei corpi, e quindi a maggior ragione anche la morte, ha portato spesso a una perdita sostanziale della sua sacralità oltre che della sua dignità. Persino del significato intrinseco di quell’ultimo atto della vita che invece tutte le religioni ci hanno tramandato come momento di passaggio per una vita “ulteriore” e ben più importante di quella terrena, spesso considerata solo un passaggio rispetto a un futuro che ci attende e di cui tuttavia non conosciamo i contorni se non attraverso quelle sacre scritture che ogni cultura ha fatto proprie. Testi che, nel novero delle proprie dottrine, affermano l’esistenza di un aldilà dai confini pure incerti e variegati, ma rientrante nel quadro delle rispettive fedi come certo e “sostanziale”: sicuro, effettivo, fondamentale nel sostanziare a sua volta il corpus ideologico, cosmogonico, teologico e normativo della stessa religione.
Ma per quanto siano tante le religioni che fin dall’antichità parlano di vita ultraterrena, non ci sono mai stati testimoni di quel mondo: noi possiamo conoscere, se ci riusciamo, il passato vivendo il presente, ma per quanti sforzi abbia fatto la scienza moderna e la fisica quantistica per elaborare formule che accreditino teorie sullo spazio-tempo e sulla coesistenza di futuri diversi e di tempi non sovrapponibili, nessun passo avanti si è compiuto rispetto alle conoscenze reali che gli antichi assiri o gli antichi egizi avevano del futuro, e a maggior ragione del futuro che ci attende dopo la morte dei nostri corpi.
Nessuno è riuscito nemmeno con le più ardite formule ed equazioni di fisica teorica a raggiungere e superare quelle “colonne d’Ercole” della conoscenza dell’oltremondano che Cristoforo Colombo o prima di lui probabilmente i navigatori vichinghi avevano invece fisicamente varcato per andare alla scoperta di nuovi mondi. Semplicemente perché non stiamo parlando di un mondo fisico in cui approdare dopo un viaggio per mare o per terre lontane (per quanto alcune sacre scritture ne descrivano in tali termini il tragitto occorrente all’anima del defunto per giungervi), ma di un’entità inesplorabile e irraggiungibile dai vivi.
Eppure qualcosa è cambiato nei secoli in questa nostra presunzione di conoscere l’inconoscibile e nel fornire un contorno di fisicità a ciò che, di per sé, non può essere conosciuto. Gli antichi popoli del vicino oriente, come i sumeri, gli assiri o i babilonesi, avevano la consuetudine di lasciare nelle sepolture dei loro defunti i manufatti che in vita erano stati i loro oggetti abituali; ma per re e grandi dignitari agli oggetti si aggiungevano anche gli animali che avevano trainato i loro carri, i servi che li avevano servito e in alcuni casi persino le mogli e le concubine con le quali avevano avuto rapporti sessuali.
Lo testimoniano le pitture presenti nei corridoi di accesso alle grandi tombe di Ur, scoperte in una serie di scavi avvenuti tra il 1922 e il 1934, non suffragate tuttavia da altre prove documentali, assai scarse in verità. Ma il dubbio che non si tratti solo di pitture che ritraggono simbolicamente il corteo funerario ma di scene “dal vero” di un corteo che accompagnava la salma del defunto anche nell’aldilà, sacrificandosi per lui e quindi condividendone la sorte, è avvalorato dai resti umani e animali e dai materiali rinvenuti dagli archeologici in queste grandi tombe.
Non sappiamo e non sapremo mai con certezza la verità, ma possiamo supporre che non si trattasse soltanto di una “messa in scena” bensì di una cerimonia nella quale era previsto che il defunto portasse con sé nell’aldilà tutto quanto (persone, animali, oggetti) gli era stato utile o necessario da vivo, per continuare nell’oltremondo la sua vita con le stesse “agevolazioni” garantitegli nel nostro mondo dal suo rango. Quindi i suoi animali, i suoi servi e le sue donne dovevano sacrificarsi al momento della sua morte per essere poi sepolti insieme.
Tuttavia quell’oltremondo (il kur) della cui fisica consistenza nessuno all’epoca dubitava e a cui anche il nobile defunto era destinato come tutti i vivi, secondo testi di alcuni secoli più recenti era invece un paese senza luce e senza speranza, un “regno di ombre” un “luogo senza ritorno”, con polvere e sudiciume ovunque, abitato da divinità che erano state punite dal consiglio degli dèi per la loro cattiva condotta. Quindi la vita nell’aldilà dei sumeri non era affatto una vita migliore di quella terrena, nemmeno per i giusti, nel senso che non esistevano aldilà diversi per “buoni” e “cattivi”. Pur non ritenendo che con la morte terrena tutto finisse, credevano che la discesa nel kur, cioè agli inferi, fosse comunque qualcosa di più simile a una “non vita”, un’esistenza umbratile.
Una concezione, questa, che accomunò anche assiri e babilonesi, per i quali la vita umana non finiva con la morte, ma la sua continuazione nell’aldilà non era di certo un granché, nemmeno per le divinità che vi erano state cacciate per le loro malafatte perdendo quindi ogni precedente potere divino.
Il kur era nelle tradizioni culturali di questi popoli mesopotamici una sorta di città sotterranea in cui la luce del sole filtrava da una fessura solo al momento del suo tramonto. Il defunto vi giungeva dopo un lungo tragitto per deserti e per mari (per questo venivano depositate accanto alla sua salma i viveri e l’acqua necessari al difficile viaggio) e veniva smistato nel posto a lui assegnato da un guardiano degli inferi, Pétû, il quale aveva il compito di aprire la grande porta degli inferi agli spiriti dei morti quando alla fine di quel lungo viaggio si presentavano al suo cospetto e di custodirne la chiusura affinché nessuno di loro potesse uscirne una volta entrato.
Secondo i libri sacri di questi popoli Gilgamesh, per conto del dio del sole Shamash, presiedeva il tribunale che assegnava il posto ai vari spiriti, anche se non vi era in tale assegnazione un giudizio morale sulle azioni compiute nel corso della vita né una prova da superare per ottenere un posto migliore di un altro.
Ma il dio Shamash aveva anche il compito di non sottrarre alcuno spirito di defunti alla propria sorte, e perciò sorvegliava che nessuno di questi spiriti si perdesse nel suo viaggio verso l’aldilà o restasse insepolto, e quindi a metà tra il mondo dei vivi e quello dei morti, condannato a vagare come un’ombra sulla terra (etemmu). In tal caso l’apparizione di spiriti di defunti ai vivi era considerata di cattivo augurio, o addirittura una vendetta del defunto o degli dèi che così punivano qualche suo parente per una colpa evidentemente assai grave, come quella di non aver provveduto alla sua sepoltura o di non averlo onorato da vivo.
E laddove l’incontro con l’etemmu avveniva, alcune tavolette d’argilla con testi antichissimi ci testimoniano i riti esorcistici da espletare per liberare dal male chi lo aveva incontrato. Riti che prevedevano sia la recita di preghiere e di scongiuri, sia la realizzazione di statuette-feticcio da presentare al dio Shamash affinché provvedesse a prendere lo spirito del defunto per condurlo nel regno dei morti e liberasse i vivi dal maleficio indirizzandolo tutto quanto sulla statuina.
In ogni caso, per tenere buoni gli spiriti dei defunti, i parenti erano soliti organizzare in loro omaggio ogni mese un pranzo solenne in cui si ricordavano le gesta da vivo del proprio caro, e alla fine del pranzo si offrivano doni per placare la sua ira nelle tenebre del kur, evitando che esplodesse la sua invidia per chi gli era sopravvissuto.
Il giudizio di Osiride
In confronto al concetto di un aldilà così strutturato come quello sumero-babilonese, la cultura egizia non ha conservato un’unica visione dell’oltremondo altrettanto chiara e univoca; e questo nonostante la presenza di testi antichissimi come l’Am Duat, il Libro dei Morti, i Testi dei Sarcofagi e i Testi delle Piramidi. Essi tuttavia sono annoverabili più tra gli scritti magici che tra quelli di carattere eminentemente sacro e religioso, non tanto perché se ne ignorano gli autori e anche l’epoca in cui furono scritti (probabilmente non tutti erano coevi), ma soprattutto perché se fossero libri sacri la loro validità sarebbe stata omogenea nel tempo e assicurata da una devozione sacerdotale che non risulta trasmessa tra una dinastia e l’altra di faraoni. 4)
Dalla lettura dei testi “mistici” è possibile comunque trarre idee sulle credenze religiose del mondo egizio, secondo le quali le anime dei defunti non si spostavano in un luogo a loro riservato, ma continuavano in un certo senso a restare accanto ai vivi o nei pressi della sepoltura in cui si conservava il loro corpo. Proprio questa credenza, anche secondo Luigi Moraldi, 5) ha ispirato la maggior parte delle disposizioni riguardanti il culto dei morti, spingendo ad adottare e a perfezionare la mummificazione dei defunti. Ed è sempre questa credenza ad avere ispirato le fosse comuni che fungevano da tombe per le persone “normali”, con una sorta di cappella funeraria inserita al centro di giardini che avrebbero rasserenato queste anime vaganti: si trattava di giardini ai quali le anime avevano libero accesso, godendo anche delle offerte che i vivi portavano loro.
Insomma, per gli egizi la vita dei singoli non finiva con la morte del proprio corpo, che infatti veniva conservato con la mummificazione affinché l’anima non lo confondesse con altri nel tempo e lo ritrovasse sempre con certezza.
Ovviamente le piramidi erano tutt’altra cosa: dapprima costruite a gradoni, come a Saqqara, poi nella forma che ben conosciamo nei secoli successivi, non erano soltanto la tomba dei faraoni, ma un autentico santuario religioso, essendo il faraone una figura divina. Ed era lo stesso regnante a consentire ai più alti dignitari di corte di costruire una propria residenza per quando sarebbero deceduti in quella che, ospitando solo i templi di questi fortunati defunti, era di fatto una città dei morti separata da quella dei vivi, sulla riva opposta del Nilo, quella dove il sole tramonta.
Al suo interno la vita dei defunti doveva continuare a scorrere. E se all’inizio giungevano offerte di doni e cibo da parte dei vivi per la sopravvivenza del defunto, con l’andare del tempo tali offerte finirono con l’essere presenti soltanto nelle raffigurazioni parietali che adornavano all’interno le camere sepolcrali e che costituivano un tutt’uno con gli oggetti per la vita quotidiana lasciati al defunto, proprio come se la sua vita oltremondana dovesse continuare come era stata sulla terra.
La tomba aveva anche un’altra funzione di tipo esoterico: era una porta che poteva dare accesso a quel luogo – per i vivi comunque inaccessibile – che era considerato come l’aldilà, un aldilà nel quale il defunto migrava per vivere la sua altra vita, nutrendosi, camminando nonostante fosse mummificato e avvolto in uno stretto telo di lino con unguenti che ne profumavano i resti corporei, circolando negli spazi a lui consentiti anche dal suo rango. Ma tutto ciò era possibile soltanto se erano i vivi ad alimentare i morti, altrimenti questi, non potendolo fare da soli, sarebbero tornati sulla terra come spiriti a molestare i parenti che si erano dimenticati di loro, cercando di evitare – digiuni e privi di offerte – di morire una seconda volta, in questo caso definitivamente.
Secondo altre credenze ai defunti era possibile lasciare momentaneamente il regno dei morti per tornare sulla terra, prendendo però l’aspetto di un falco. Ce ne parlano sempre i testi magico-religiosi dell’antico Egitto e in particolare i Testi dei Sarcofagi.
Eppure a un certo punto, quasi sicuramente a partire dalla V dinastia (a metà del terzo millennio a.C.), la venerazione del sole influì anche sull’escatologia della cultura religiosa degli egizi, tanto da influire sulla concezione della vita dei morti prevedendo una sorta di “salvezza” ultraterrena. Tale concezione, però, si fece strada non per tutti i defunti ma, almeno all’inizio e per un certo periodo, solo per i faraoni e gli alti dignitari di corte, i quali conquistavano il diritto a una seconda vita lontano dalle tenebre in cui continuavano a sopravvivere i defunti “normali” solo come privilegio dovuto al loro rango.
L’estensione graduale a tutti di questa prospettiva escatologica divenne legata al giudizio di Osiride che avrebbe valutato la moralità delle azioni terrene dei defunti. Fu quindi la “osirizzazione” dei morti a portare a un certo punto in primo piano il “giudizio” sulle azioni compiute dai vivi nel corso della loro stessa vita con la “pesatura dell’anima”, raffigurata frequentemente in alcune pitture sepolcrali. In queste rappresentazioni Osiride siede sotto un baldacchino regale assistito da Iside e da Neftis, circondato da quarantadue giudici; all’estremità opposta della sala il dio Anubi, con la testa di sciacallo, introduce il defunto per il giudizio ponendo il suo cuore su un piatto di una grande bilancia, mentre sull’altro piatto si trova un’immagine simbolica della dea Mâet (la verità): una piuma o una penna. Sarà Anubi a controllare da che parte scivola la bilancia, facendo sì che il defunto sia dato in pasto a un mostro con la testa di ippopotamo se non supera la prova, o al contrario avviato verso Osiride e il sole (Ra) se invece è da annoverare tra i giusti e quindi degno della vita nella luce dello stesso Ra (cioè della vita eterna).
Può essere una coincidenza, ma in questa visione dell’aldilà vi sono già in nuce secondo alcuni storici delle religioni i primi elementi che porteranno alla concezione di una sorta di paradiso opposto a un luogo penoso, a sua volta simile a un inferno, nel senso che poi ne daranno altre religioni successive come lo stesso cristianesimo.
Viaggio nell’Ade
La visione dell’aldilà nella cultura dell’antica Grecia è legata a un’evoluzione storica della dottrina escatologica iniziata ai tempi dell’espansione micenea e mai interrotta nemmeno in epoca classica, allorquando trovò spazio anche nella visione filosofico-morale della vita di filosofi come Platone e Aristotele.
Fu in pratica una concezione che mutò con il passare del tempo dato che all’inizio, in età omerica, l’oltretomba si concretizzava con il solo Ade, che prendeva il nome dal dio che governava questo aldilà ben poco “appetibile”. Ce lo testimonia lo stesso Omero quando narra nell’Odissea l’incontro di Ulisse, a cui viene concesso di scendere da vivo nell’Ade, con l’ombra dell’eroe Achille che si lamenta della sua condizione affermando: “Vorrei da bracciante servire un altro uomo […] piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti”. 6)
Tuttavia, come dicevamo, l’aldilà ellenico ebbe un certo sviluppo ideologico, in particolare a partire dal VI secolo a.C.; fu da quel momento, coincidente con una maturazione della cultura filosofica dei greci, che si iniziò a pensare all’oltremondo sulla base di una prospettiva etica, con una divisione (un po’ come nell’Egitto eliopolitano) dei defunti tra spiriti dei giusti e spiriti degli ingiusti, ai quali sarebbero quindi spettati, sulla base delle azioni e dei comportamenti tenuti in vita, premi o castighi nel loro aldilà.
Secondo la nuova concezione, l’Ade si trasformava in un duplice luogo: da un lato quello gioioso e gradevole dei giusti, corrispondente alle isole dei beati o campi Elisi, dall’altro l’antico Ade come fino a quel momento era stato inteso, cioè un luogo oscuro e duro da vivere anche per le anime dei morti.
La credenza in questo oltretomba si concretizzava nella localizzazione degli accessi che numerose tradizioni collocavano in punti geografici concreti, come le paludi che precedevano la foce del fiume Acheronte in Epiro o come il lago d’Averno, nei Campi Flegrei, cioè in siti melmosi e maleodoranti che provocavano persino la morte degli uccelli se cercavano di nidificare nelle vicinanze.
Ma in realtà molti altri erano gli accessi al vasto oltretomba, presente di fatto come mondo sotterraneo parallelo anche nelle dimensioni a quello terrestre che gli stava “di sopra”, illuminato dalla luce e guardato dall’alto dei cieli dagli dèi olimpici. Gli accessi potevano essere crepe nel suolo, come quella che si apriva sotto il Ploutonion a Hierapolis (nell’attuale Turchia), o una fenditura in Sicilia, nell’antica Enna, attraverso la quale nella tradizione mitologica era uscito il dio Ade per rapire Persefone.
Anche alcune grotte e caverne erano considerate porte di questo immenso Ade, talvolta coincidenti con le stesse grotte delle sibille, come quella di Cuma, nei pressi del lago d’Averno, da dove sarebbe sceso Enea per accedere al mondo dei morti nell’Eneide di Virgilio. O come quella di Efira, dove un’altra tradizione affermava che fosse sceso Ulisse per accedere a sua volta nell’Ade, inviato dalla maga Circe per consultare lo spirito dell’indovino Tiresia. Già, perché ai greci e poi ai romani – i quali oltre alla struttura fondamentale del loro pantheon presero dai greci anche questa concezione dell’aldilà – era a volte concesso anche da vivi di scendere nel mondo sotterraneo dei morti per una missione particolare. In realtà la discesa agli inferi (o katábasis) era appannaggio nella mitologia e nella letteratura greco-romana solo di eroi, sebbene a volte fu concesso anche a figure di filosofi che scendevano nel regno dell’Ade per ottenere conoscenze religiose o, semplicemente, per provare l’esperienza mistica di morire prima della morte fisica e per entrare così in possesso di un sapere privilegiato.
D’altronde, secondo Platone che all’argomento dell’aldilà dedicò molti brani delle sue opere, la morte è per l’anima un “trasferimento”, una trasmigrazione verso un altro luogo dove essa pone la sua dimora. La morte, sostanzialmente, è come un viaggio verso un aldilà dove vi sono tutti quelli che sono nel tempo morti. Nell’Ade le anime subiscono il giudizio sulle azioni morali e immorali compiute dalle persone nel corso della loro vita terrena, così da pagare il prezzo di ogni colpa o al contrario vivere una felicità senza sciagure nell’isola dei beati.
Tenace sostenitore dell’idea di giustizia, sempre legato a una concezione del vivere etico che affiora un po’ dappertutto nelle sue opere, il grande filosofo greco sottolinea inoltre come l’anima si presenti al giudizio sulla sua vita oltremondana “nuda”, così da evidenziare in modo chiaro su di sé i segni delle azioni buone o le cicatrici delle azioni cattive compiute dalla persona a cui è appartenuta nella vita terrena; ma nuda anche delle cose materiali appartenute al corpo del defunto, senza più quelle ricchezze esteriori, quella nobiltà di rango e quei privilegi derivanti anche da amicizie e parentele con familiari e amici potenti che avevano magari garantito ad alcuni individui, non solo una vita migliore e più felice rispetto agli altri, ma anche la possibilità di sfuggire alle punizioni di eventuali colpe e delitti commessi.
Tuttavia, con Platone affiora nella cultura greca anche l’idea di una sorta di terra di mezzo tra il Tartaro, cioè la parte dell’Ade dove sono puniti i malvagi, e l’isola dei beati, che è invece la parte dell’aldilà riservata ai giusti. I rei di “colpe suscettibili di rimedio” hanno per Platone modo di purificarsi facendo ammenda di tali colpe e trascorrendo un periodo di espiazione vicino all’Acheronte, dopo il quale avranno finalmente la possibilità di raggiungere anch’essi l’isola dei beati.
Questa tripartizione dell’aldilà trova quindi una sua fisicità in tre luoghi distinti dello stesso Ade; ma ben più importante della costruzione fisica dell’aldilà è la rappresentazione simbolica dei tre stati dell’anima dei defunti, di cui egli parla in particolare nel Fedone. Purtuttavia egli torna spesso sull’argomento anche in altre opere (Fedro, Gorgia, Repubblica, eccetera), dilungandosi in visioni e descrizioni non solo di carattere mitologico ma anche esoterico. Nel Gorgia arriva ad affermare: “E se avesse ragione Euripide: chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece il vivere?”.
Citazione simile farà quattro secoli dopo Cicerone nel De Republica allorquando, descrivendo il sogno di Scipione l’emiliano che dialoga con il più famoso avo (il defunto Scipione l’africano già negli inferi), a una domanda sui vivi e sui morti, il famoso avo risponde che sono loro, quelli dell’Ade, i veri vivi, coloro che hanno preso il volo sfuggendo alle catene della vita corporale: “Quella che voi dite vita è morte”.
Celebre, in quest’accezione di fatto chiaramente iniziatica, anche un passo del poeta greco Pindaro, di un secolo più anziano di Platone e di quattro secoli più anziano di Cicerone: “Il corpo di tutti obbedisce alla morte possente e poi rimane ancora vivente un’immagine della vita, poiché solo questa viene dagli dèi”. 7)
L’aldilà dei buoni e dei cattivi
Incredibilmente simile fu, nella visione dell’aldilà, l’evoluzione della cultura ebraica durata vari secoli, inizialmente sviluppatasi in modo indipendente rispetto alle altre culture del vicino oriente, ma soggetta dopo il III secolo a.C. a subire profonde influenze da parte della cultura ellenistica a tal punto che alcuni autori riproposero anche nella dottrina dell’ebraismo un’elaborazione delle idee platoniche in vari scritti extra-biblici e in quella produzione che va sotto il nome di letteratura apocrifa vetero-testamentaria. Ma andiamo per ordine.
Nell’originaria interpretazione biblica, o meglio di quella parte del Vecchio Testamento che la cultura ebraica ha sempre considerato alla base della propria dottrina religiosa, non vi era nemmeno una distinzione tra anima e corpo: secondo la Tanakh, finché riesce a sopravvivere una parte del corpo del defunto, anche qualcos’altro sopravvivrà della sua essenza, seppur in uno stato umbratile, vagando in quel mondo sotterraneo tanto simile all’Ade greco che gli ebrei chiamavano Sheol. Per questo la cultura ebraica esige sempre la tutela assoluta dei corpi dei defunti – anche se l’imbalsamazione non è stata da loro mai praticata – oltre che la sepoltura in tombe che non possano essere sconquassate da intemperie o da animali.
Nello Sheol, il regno della morte degli ebrei, vi sono solamente ombre. E per secoli la cultura ebraica non si è posta il problema di un giudizio tra buoni e cattivi: tutti i morti vagavano in questo oltremondo oscuro e senza luce in cui le loro ombre venivano “inghiottite” nel trapasso dei corpi tra vita e morte. Né vi è da parte di scrittori ebrei dell’antichità alcuna specifica descrizione di questo aldilà, né scritto alcuno che, a differenza di greci e romani, parli di una discesa agli inferi di una persona viva, seppur momentaneamente e per qualche specifico compito (come in Omero o in Virgilio), anche perché la sacralità dei testi religiosi ebraici è sempre stata assoluta impedendo interpretazioni o letture allegoriche o figurali.
Ma, nel momento stesso in cui la cultura ebraica entrò pian piano in contatto con altre culture vicine, in particolare quella egizia e poi soprattutto quella ellenistica, le cose iniziarono a mutare, a partire proprio dalla concezione dell’aldilà. Lo Sheol da luogo in cui era destinata l’intera umanità dopo la morte, a prescindere da una valutazione morale delle azioni dei vivi, si avviò a essere solo una parte dell’oltremondo, articolandosi il destino dei defunti in un duplice sistema secondo il quale, proprio come era avvenuto nella concezione dell’Ade greco, ai buoni spettava un posto diverso da quello dei cattivi. In pratica lo Sheol rimase il luogo dove per l’eternità sarebbero rimasti gli indegni, diventando semmai un’area di “transito” per coloro che invece meritavano una sorte diversa, destinati al Geenna, il luogo dei misericordiosi.
È verosimile che questo cambiamento, avvenuto lentamente e non senza aspri contenziosi tra correnti ideologiche diverse dell’ebraismo, sia stato accompagnato anche da una concezione parallela di “resurrezione” riservata per l’appunto ai buoni, come indica chiaramente un testo della letteratura apocrifa vetero-testamentaria quale il libro dei Salmi di Salomone, databile attorno alla metà del I secolo a.C., nel quale l’ignoto autore a proposito della sorte dei cattivi scriveva: “La loro eredità è lo Sheol, le tenebre e la perdizione, e non si troveranno nel giorno della misericordia, riservato ai giusti. I santi del Signore erediteranno la vita e la gioia”. 8)
È altrettanto plausibile che si sia giunti a questa metamorfosi del pensiero ebraico sull’aldilà a seguito delle persecuzioni religiose iniziate contro gli ebrei dal faraone Antioco IV a partire dal 167 a.C., con la reazione anche religiosa del cosiddetto movimento dei Maccabei che provò a dare un senso alle persecuzioni e a fornire una via d’uscita oltremondana a quanti sacrificavano la loro vita per un ideale religioso pur di non abiurare la fede dei padri. Un’ulteriore conferma di tale possibile origine della metamorfosi del concetto di aldilà ci perviene dal Libro della Sapienza, coevo delle persecuzioni, nel quale viene per la prima volta indicato chiaramente il destino oltremondano dei defunti separando gli empi, la cui vita si conclude nelle tenebre dell’Ade o Sheol (evidentemente la compresenza del nome Ade è di chiara derivazione culturale ellenistica), dai giusti che, sottoposti a dure prove nel corso della vita da Dio, alla fine vengono premiati con la “liberazione” dalla loro esistenza terrena vivendo come ricompensa per sempre in un regno splendido con la potenza divina che li protegge e fa loro da scudo contro ogni male.
A una lettura più attenta, in realtà, ci si rende conto come anche l’ignoto autore del Libro della Sapienza non parli mai di una resurrezione dei corpi, come poi accadrà nella teologia cristiana, né in realtà nemmeno di un’immortalità dei giusti alla stregua della concezione di Platone o anche di Cicerone; questa seconda vita appare semmai una condizione particolare che l’uomo giusto riceve da Dio come “dono” insieme a un’incorruttibilità ai fini della sua partecipazione all’eternità divina. Quindi, in accordo col pensiero religioso tradizionale dell’ebraismo, non muta la condizione di mortalità di ogni essere umano, poiché l’uomo è stato creato da Dio mortale come ogni altro essere vivente, ma muta la sua condizione post-mortem nel caso in cui egli sia ritenuto da Dio stesso un “giusto” e per ciò meritevole del dono di un’immortalità che si manifesterà comunque quando Dio pronuncerà il suo giudizio finale.
Appare evidente l’apporto di questo testo ebraico nella successiva elaborazione del pensiero cristiano e dell’esegesi evangelica presente nel Nuovo Testamento, testi sacri nei quali il vero destino dell’uomo travalica definitivamente la sua esistenza terrena, e la corruzione dei corpi dei defunti finisce con l’essere anch’essa superata nel giorno del giudizio allorquando le anime dei giusti si potranno riunire nella vita eterna ai corpi, per vivere in sempiterno contatto con la somma luce di Dio.
Non a caso uno dei profeti biblici maggiormente citato nel Nuovo Testamento è Daniele il quale, parlando di un “tempo intermedio”, o forse della fine dei tempi, scrive: “Molti di coloro che dormono nel paese della polvere si desteranno, gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna e il ludibrio eterno”. 9)
Tuttavia, se guardiamo solamente ai testi del Nuovo Testamento, e in particolare ai fatti cristologici descritti nei quattro Vangeli codificati dalla Chiesa, ci accorgiamo ben presto che dalla predicazione di Cristo così come appare narrata dai quattro evangelisti non emergono vere e proprie descrizioni sull’aldilà dell’uomo, e quei pochi e vaghi cenni all’oltremondo che vi si riscontrano sono anche difficili da comprendere. È come se i Vangeli fossero stati scritti per insegnare all’umanità “come regolare la propria vita per approdare all’aldilà, senza che questo tuttavia sia mai effettivamente raffigurato e descritto”. 10)
Ciò che troviamo scritto è più una dottrina sull’aldilà e sulla strada da percorrere per la salvezza ultraterrena riferita al presente dell’umanità, piuttosto che un insieme di elementi che facciano comprendere in concreto in cosa consista questo aldilà se non un ritorno a Dio e al suo regno, un regno dei cieli comunque impalpabile e appena accennato, senza alcuna descrizione concreta, 11) da conquistare nella resurrezione dei giusti come ricompensa alla croce che ciascuno porta su di sé in questa vita. 12)
E se Luca, citando le parole di Gesù, scrive “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”, l’apostolo Matteo va ancora oltre, riferendo sempre le parole di Gesù: “Chi non prende la sua croce e mi segue non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà, chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà”. 13) Quindi, nella predicazione di Gesù riferita nei Vangeli, è la vita terrena a emergere come transitoria per l’umanità, dato che la vera vita è quella del regno dei cieli, riservata ai giusti, così come “la resurrezione di Cristo è primizia di quanti sono morti” 14) e che quindi “rinasceranno in Dio”, 15) al contrario di quanti invece riceveranno il castigo dei malvagi, che consisterà in pianto e stridore di denti, tenebre, fornace ardente, fuoco e supplizio eterno. 16)
Un luogo nuovo, il purgatorio
Il cristianesimo delle origini, quindi, pur parlando di giudizio divino a cui tutti saranno sottoposti e di conseguente ricongiungimento dell’anima al corpo per l’eternità nella “vita vera”, non solo non elabora una coerente visione del regno dei cieli e del regno dei malvagi, ma inizialmente (e in realtà per vari secoli) non fa cenno nemmeno a quel “mondo di mezzo” tra il regno dei cieli e l’inferno delle fiamme e dei dolori eterni che pian piano sarà costruito dalla Chiesa – ossia il purgatorio – diventando una delle disquisizioni dottrinali che divideranno nel ‘500 la Chiesa di Roma dalle Chiese che seguiranno la riforma luterana e calvinista.
Entrando più nello specifico, il termine purgatorio compare la prima volta in un’opera scritta da Gregorio Magno, eletto Papa nel 590: è nel quarto libro dei suoi Dialoghi che compare per la prima volta questo termine, anche se fu assai lungo il periodo di tempo in cui si andò formando e strutturando una concezione teologica concreta di cosa fosse (e a cosa servisse) questo terzo regno oltremondano dei cristiani, assente nella tradizione ebraica, considerato luogo di passaggio e purificazione prima dell’ingresso nel regno dei cieli di quanti avevano avuto in vita colpe di cui tuttavia si erano pentiti.
Solamente attorno al XII secolo si giunse a una sua definitiva “costruzione” teologica 17) che venne infine formalizzata dal secondo Concilio di Lione del 1274, modificata da quello di Firenze del 1438 e – soprattutto dopo le critiche di Lutero alla scandalosa pratica delle indulgenze (cioè del condono delle pene che il credente avrebbe dovuto scontare nel purgatorio da parte del Papa a chi compiva particolari penitenze come pellegrinaggi ed elargizioni in favore della Chiesa) – ribadita nel Concilio di Trento del 1563. Con il concilio si cercò di fornire una cornice unitaria ad alcuni eterogenei scritti teologici dei secoli precedenti, redatti da diversi padri della Chiesa, tra cui san Paolo, e alcuni apologeti, tra cui Tertulliano, che affermavano la necessità delle preghiere di intercessione per i morti trattenuti a espiare le loro colpe terrene nel fuoco “purgatoriale”. 18)
In ogni caso un’architettura definitiva dell’aldilà cristiano non potrebbe essere più chiara e strutturata di quella costruita da Dante Alighieri nella sua Commedia, che non a caso Boccaccio definì “divina”, di fatto ridenominandola per i posteri. Del Dante poeta si sono scritti centinaia o forse migliaia di libri, ma qui a noi interessa provare a tracciare un quadro sintetico del suo rapporto con la cultura e la teologia del suo tempo, di cui egli si fece interprete travalicando le logiche della sola poesia letteraria e provando in un certo senso a giocare persino il ruolo di teologo (che di certo non gli competeva) in una società che cercava di uscire dai secoli travagliati del medioevo per entrare in un mondo rinnovato di cui lo stesso Dante riuscì a essere autentico ponte.
Nelle tre cantiche della Commedia, ognuna dedicata a uno dei luoghi dell’aldilà cristiano, convergono infatti, oltre alle forme letterarie esplicitate nel testo e nelle sue forme, anche una struttura dottrinale e un insieme di simboli iniziatici che si concretizzano nell’ossequio a logiche numerologiche e cabalistiche comunque presenti anche tra altri intellettuali a lui contemporanei dell’Europa cristiana. E ciò senza dimenticare l’apporto della filosofia e della mitologia greco-romana, a partire dalla figura di Virgilio, che aveva fatto scendere Enea negli inferi nella sua “Eneide” e adesso guiderà lo stesso Dante in gran parte del suo viaggio oltremondano, compiuto in prima persona attraverso il dolore dell’inferno verso l’espiazione del fuoco penitenziale del purgatorio, fino al traguardo della luce celeste del paradiso. Qui sarà invece Beatrice a guidare il poeta dato che Virgilio, non essendo battezzato, non può varcarne le porte giungendo in tal caso al cospetto della luce divina.
La visione oltremondana di Dante è rigorosa intellettualmente e teologicamente, e non solo appassionata liricamente e linguisticamente, pur avendo egli scelto la lingua della nascente borghesia, il volgare toscano, e non quella degli intellettuali urbani e degli uomini di Chiesa, il latino. A sua volta il viaggio che egli compie nell’aldilà non è il diario di un sogno ma la fine architettura di un percorso iniziatico che prevede il superamento di prove del tutto simili a riti di passaggio. Nel contempo il suo non è il viaggio mitologico di un eroe come l’Ulisse omerico o l’Enea virgiliano, anch’essi scesi negli inferi come “personaggi” dei rispettivi autori letterari, bensì un tentativo di mettere egli stesso ordine nel caos del tempo, del suo tempo e del tempo dell’eternità, parlando ai morti che incontra della sorte dei vivi e indicando ai vivi le direttive necessarie alla loro salvezza. Distanziandosi così da Enea e Ulisse, i quali avevano incontrato l’uno il padre Anchise e l’altro l’indovino Tiresia, ovviamente defunti, per chiedergli solo una profezia sul rispettivo personale destino.
Dante invece non chiede per sé ma per l’umanità, e i personaggi incontrati non sono ombre come quelle degli antichi poemi greci e latini, ma figure storiche che rappresentano e attestano la loro stessa identità terrena (di cristiani e non cristiani); e insieme figure di una trascendenza che è portatrice di significati profondi e a volte devastanti, come Papa Celestino V che Dante incontra tra gli ignavi dell’antinferno, indegni pure di entrare nello stesso inferno, indicandolo come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”. 19) O come Maometto, che egli colloca tra i seminatori di discordie, 20) la cui pena consiste nell’essere fatto continuamente a pezzi da un diavolo armato di spada per punirlo di aver in vita diviso l’umanità con il suo “scisma” (così Dante interpreta la predicazione del profeta rispetto al cristianesimo).
Ma nel suo inferno, posto fisicamente nell’oscurità del sottosuolo, vi sono anche quanti vengono puniti dai vari diavoli con altre pene del “contrappasso”, che prevedono sempre e comunque che i dannati scontino in eterno una pena atta a controbilanciare le azioni compiute in vita. Ed ecco quindi i golosi distesi a terra, immersi nel fango maleodorante di cui sono costretti a cibarsi; ecco i violenti immersi nel Flegetonte, cioè in un fiume di sangue per l’eternità; ecco i lussuriosi trascinati senza pausa da una bufera, cosi come in vita si sono lasciati trasportare senza freno dalle passioni e dai sentimenti; e così via.
Se i sette gironi di cui si compone l’inferno si trovano sotto terra, com’è tradizione storica mutuata anche da altre religioni, il purgatorio (della cui struttura e funzione precisa, come già detto, si discuteva ancora all’interno della Chiesa del suo tempo) è rappresentato da Dante come un’immensa e altissima montagna che si erge su un’isola al centro dell’emisfero australe, totalmente circondata dalle acque, agli antipodi di Gerusalemme.
Secondo la spiegazione fornitagli nel XXXIV canto dell’Inferno dalla sua guida, Virgilio, quando Lucifero, che era un angelo, fu cacciato via dal paradiso da Dio in seguito alla sua ribellione, dal cielo cadde al centro della Terra, ma dalla parte dell’emisfero australe, e tutte le terre emerse si ritirarono in quello boreale per non entrare in contatto col maligno da lui rappresentato. Si creò così la voragine infernale e la terra che ne sortì andò a formare la montagna del purgatorio, che sorge così in posizione opposta all’inferno. L’isola del purgatorio è comunque collegata al centro della terra, dove si trova l’inferno, da una “natural burella”, un cunicolo sotterraneo esteso per tutto l’emisfero meridionale.
Anche qui nel purgatorio si trovano sette gironi, o meglio sette cornici, nell’àmbito delle quali si espiano i sette peccati capitali (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria), precedute da un “antipurgatorio” riservato a contumaci, pigri a pentirsi, morti per forza e principi negligenti; ma, pur essendo un regno di dolore, si tratta di un luogo che è anche della speranza, giacché le anime dei defunti si trovano qui per purgarsi nel fuoco penitenziale, ben diverso da quello infernale, finché esse diventeranno degne di salire al cielo a godere della luce di Dio.
Quando l’anima di un penitente ha finito di scontare tutta la sua pena, la montagna è scossa da un tremendo terremoto e tutte le anime intonano il Gloria: a quel punto l’anima accede al paradiso, posto in cima alla montagna. Qui viene fatta immergere nelle acque dei due fiumi che scorrono nell’Eden: il Lete, che cancella il ricordo dei peccati commessi in vita, e l’Eunoè, che rafforza il ricordo del bene compiuto. Ora l’anima, diventata pura grazie al bagno rituale simbolo di un secondo battesimo, è pronta a salire in cielo.
Anche del paradiso Dante dà una precisa collocazione spaziale come per l’inferno e per il purgatorio, anche se la sua descrizione nella terza cantica della Commedia si fa ben più astratta e lo diventa ancor più a mano a mano che egli procede verso l’alto, accompagnato adesso da Beatrice. Dante immagina la terra sferica e immobile al centro dell’universo, circondata da dieci cieli che costituiscono la struttura fisica del paradiso, con una sfera del fuoco a separare il mondo terreno da quello celeste. Nove di questi cieli sono sfere concentriche che ruotano attorno alla terra, ciascuno governato da un’intelligenza angelica (dove risiedono l’uno dopo l’altro gli spiriti difettivi, quelli operanti per la gloria terrena, gli spiriti amanti, i sapienti, i combattenti per la fede, gli spiriti giusti e gli spiriti contemplanti), mentre il decimo, quello più in alto, l’Empireo, è immobile e infinito, essendo il luogo da dove promana la luce di Dio e dove Dio si trova insieme agli angeli, ai santi e ai beati.
Appare chiaro che Dante abbandona in questa terza parte della Commedia la fisicità precisa e dettagliata delle prime due cantiche, ma rinuncia anche all’iconografia tradizionale che al suo tempo veniva associata al paradiso, con la descrizione degli angeli e dei santi che circondano Dio assiso su un trono. Si affida invece a una visione alquanto immateriale, rarefatta, dove a essere descritti sono soprattutto effetti di luce e di musica, figure geometriche e immagini addirittura matematiche che ricordano tanto da vicino, come già accennavamo, la cabalistica e la numerologia tanto care ad alcuni filosofi e intellettuali medievali.
Rimane però nella Commedia di Dante chiara e perfettamente esemplificata l’architettura fisica di tutto l’aldilà cristiano: certamente sull’onda delle conoscenze del suo tempo e della letteratura teologica post-testamentaria (compresa quell’Apocalisse di Paolo 21) che non è mai entrata nel novero dei testi sacri approvati dalla Chiesa ma che probabilmente, come alcuni vangeli apocrifi, circolava tra gli intellettuali dell’epoca), ma anche in base a una logica descrittiva che non troverà pari nemmeno nei secoli successivi, in grado di unire dottrina, teologia, scienza e morale, usando un linguaggio che Charles Singleton definì “allegoria dei teologi”, cioè “allegoria di azione, di evento, di un evento dato per mezzo di parole, il quale a sua volta riflette (in facto) un altro evento (il viaggio verso Dio)”. 22)
Paradiso per maschi
Anche se un po’ meno strutturata di quella cristiana, la visione dell’aldilà della dottrina islamica comprende a sua volta una netta divisione tra buoni e cattivi. In realtà nel Corano si riscontra una netta visione teocentrica di tutta la vita (e della morte) dei fedeli, in quanto ogni azione umana è posta totalmente sotto l’autorità di Allah, che dà la vita e dà la morte. 23) Possiamo anzi affermare che l’islam non è solo una religione: è piuttosto una guida pratica per la vita quotidiana. Pertanto, anche il momento della morte non appartiene all’uomo il quale non ha il potere di provocarla o di respingerla, visto che “nessuno può morire senza il permesso di Dio”. 24) La teologia dell’islam dà quindi alla dicotomia vita-morte un significato ancora più profondo del cristianesimo, visto che perfino la modalità con cui ogni persona immagina e sperimenta la sua morte dipende dalla sua fede: in quanti non credono in Allah suscita paura, mentre i veri credenti non la temono, poiché sanno che la vita e la morte sono sotto il potere divino: 25) è Allah a chiamare a sé chi lo merita e, sebbene la morte sia una calamità, la sua onnipotenza libererà gli uomini da essa attraverso la resurrezione.
Il Corano chiarisce al riguardo che ogni anima riceverà la propria ricompensa, perciò il rifiuto di credere nella resurrezione (che per i musulmani è una seconda creazione) e nella “retribuzione” individuale di Allah costituisce il peccato inespiabile di incredulità (kufr). 26)
Il paradiso musulmano è fisicamente descritto come un immenso giardino con alberi che danno frutti perenni, alla cui ombra scorrono fiumi di acqua purissima, di latte e di purissimo miele; ma il dono più grande che l’anima del pio otterrà in questo paradiso apparentemente così tanto “materiale” sarà il compiacimento della visione di Allah (ridwān). In realtà la predicazione e la letteratura islamica offrono numerose e variegate descrizioni delle bellezze e delle gioie che attendono coloro che saranno giudicati degni del paradiso, in antitesi con le descrizioni dell’inferno con i suoi tormenti riservati agli empi.
Lo stesso Maometto afferma che il paradiso è “ciò che gli occhi non hanno mai visto, e neanche le orecchie hanno mai udito, e neppure mai mente umana ha immaginato”. 27)
I giardini del paradiso sono comunque rappresentati in un luogo ultraterreno, sopraelevato come i cieli, dove i beati dimoreranno al sicuro in edifici ricchissimi, dai tetti altissimi; e, diversamente dalla vita terrena in cui gli ornamenti sono definiti vani, in paradiso avranno abiti e ornamenti meravigliosi, bracciali d’oro e d’argento, 28) oltre a spose purissime dagli sguardi casti e dagli occhi bellissimi come perle nascoste: giovani donne, vergini e inviolate, simili a ninfe, che nessun uomo ha mai sfiorato prima. 29)
Ovviamente questo è uno dei punti più controversi della concezione escatologica del Corano per chi non è islamico, in quanto assegna anche nel paradiso di Allah un ruolo del tutto subalterno alla donna e, prim’ancora, sembra quasi escludere un accesso al paradiso a chi, pur meritandolo come ricompensa per le proprie azioni in vita, non sia di sesso maschile. Il Corano, in realtà, non nega alle donne l’accesso al paradiso, ma si tratta comunque di una minoranza che farà quindi parte dell’harem celeste dell’ultimo marito. In ogni caso per le donne musulmane il paradiso non è, come per gli uomini, anche un paradiso “sessuale”, semplicemente perché non esiste l’equivalente maschile delle giovani vergini destinate agli uomini. E se pure si fa cenno nel Corano all’esistenza nel paradiso di Allah di giovani efebi, anche questi saranno al servizio degli uomini, ai quali di fatto l’islam riserva quindi tutte le gioie del paradiso, a discapito delle donne, considerate inferiori nell’aldilà proprio come in vita, come già evidenziato in precedenza.
Se Allah promette ai credenti l’illimitata felicità dei giardini del paradiso, di contro riserva ai miscredenti o agli impuri il castigo doloroso dell’inferno (nār, che letteralmente significa fuoco). 30) Le descrizioni coraniche dell’inferno sono molto vicine a quelle presenti nella letteratura escatologica ebraica che, secondo alcuni studiosi, sarebbe alla base della concezione dell’inferno cristiano e anche dell’inferno coranico. Ma nell’islam gli spazi dell’inferno – che ha sette porte, ciascuna destinata a una categoria di peccatori – e quelli del paradiso non sono lontani tra loro, ma attigui: lo spazio infernale infatti viene descritto separato dal paradiso solo da una muraglia: “Tra loro verrà innalzato un muro con una porta, all’interno la misericordia e fuori e di fronte il castigo”. 31)
I beati e i dannati potranno addirittura vedersi e comunicare tra loro, rendendo ancora più insopportabili i tormenti di chi si trova nell’inferno: “Quelli del fuoco si rivolgeranno a quelli del giardino: Versate su di noi dell’acqua o un’altra grazia che Dio vi ha donato lassù. E quegli altri risponderanno: Dio ha proibito l’una e l’altra cosa ai miscredenti i quali si fecero gioco e beffa della religione, sedotti dalla vita del mondo”. 32)
Anche l’inferno islamico prevede delle pene, prima di tutto il fuoco che si nutre di uomini e sassi e brucia eternamente la pelle dei dannati, sostituita continuamente da un’altra nuova: “Appena la loro pelle sarà cotta dalla fiamma gliela cambieremo in un’altra pelle affinché assaporino meglio il tormento”. 33) Il fuoco sarà anche il vestito degli ingiusti, li brucerà sia dall’esterno sia dall’interno, e allo stesso tempo dell’acqua bollente sarà versata sulle loro teste, e saranno colpiti duramente. Per i miscredenti saranno tagliate vesti di fuoco, sarà versata loro sulla testa acqua bollente che corrode le viscere e la pelle, verranno colpiti con fruste di ferro. Le fiamme costituiranno anche il loro cibo, e quindi “non avranno che fuoco da divorare nel loro ventre”; 34) avranno da bere acqua bollente e un liquido di metallo fuso sarà versato sul volto.
Questa visione apocalittica dell’inferno trova un’altra conferma in un testo islamico assai controverso, il Libro della Scala, di ignoto autore arabo e di incerta datazione, ma che una tradizione sicuramente posteriore vorrebbe scritta dallo stesso Maometto. Esso ebbe grande fortuna anche in Europa a metà del ‘200 tanto da essere tradotto in latino, in castigliano, nella lingua d’oil e nel volgare italico (e pertanto, secondo alcuni, noto anche allo stesso Dante). 35)
Nel libro, l’arcangelo Gabriele va a trovare Maometto alla Mecca per avvisarlo che Allah sta per concedergli la possibilità di essere testimone dei suoi segreti e delle sue meraviglie. Ad attenderlo vi è una strana creatura con la faccia umana e il corpo di un asino, gli occhi splendenti e le unghie di un cammello, che poggia su un tappeto di smeraldo con accanto una schiera di altri angeli. Salito in sella, Maometto si accorge che lo strano animale sembra volare mentre alcune voci provano a fermarlo lungo il cammino; Maometto invece resiste al loro richiamo fermandosi solamente alla terza voce che appare soave e suadente. Gabriele ne loda il comportamento poiché la prima voce a cui non ha dato ascolto era quella della legge giudaica, la seconda quella del cristianesimo, e solo la terza è quella del vero dio, cioè Allah.
Avendo quindi superato questa prima prova, Maometto si trova a Gerusalemme ed entra nella moschea al-Aqsa (il sacro tempio) per essere osannato da tutti i profeti che l’hanno preceduto; poi lo stesso Gabriele, conducendolo fuori, gli mostra una scala che sale verso il cielo invitandolo a salirne gli scalini insieme a lui e agli altri angeli.
Il primo incontro di Maometto è con l’angelo della morte che ha avuto il compito da Allah di estrarre l’anima degli uomini che sono sul punto di morire: se si tratta di un peccatore egli subirà le conseguenze delle sue colpe nel tormento dell’inferno, mentre se è stato un uomo pio per lui si apriranno le porte dei cieli.
Salendo su per i vari scalini Maometto incontra tra gli altri anche l’angelo della tristezza – così chiamato per la sua afflizione nel conoscere la disobbedienza di tanti uomini verso Allah – che gli spiega com’è nato l’inferno: fu Dio a crearlo con un fuoco straordinario ed eterno che dà vita anche agli angeli che in esso si trovano, muti, crudeli, spietati verso i peccatori che è loro compito punire con la stessa durezza con cui essi sono stati puniti da Allah per la loro disobbedienza verso di lui. Tutto qui è fuoco: di fuoco sono gli alberi, l’acqua, l’aria; questo è il destino di idolatri, di empi, di coloro che abbandonarono la legge divina, di accalappiatori di ricchezze, di bestemmiatori, di coloro che non hanno creduto nei profeti e nei messaggeri di Dio, di coloro che non hanno aiutato gli infelici o che non hanno innalzato le preghiere ad Allah.
Mentre il profeta assiste allo “spettacolo” dell’inferno dall’alto, senza entrarvi, la scala che Maometto e l’arcangelo Gabriele continuano a salire, scalino dopo scalino, li conduce pian piano alle porte dei cieli, dove ad accogliere il profeta ci sono angeli bellissimi che parlano tutte le lingue, che salutano Maometto come “il sigillo di tutti i profeti, il signore di tutti gli annunziatori”. A partire da quel momento, salendo sempre più su Maometto ha accesso al paradiso di Allah e qui ha incontri emblematici e simbolici con vari personaggi, a partire dal primo cielo in cui incontra san Giovanni Battista e Gesù, quindi nel secondo cielo Giuseppe figlio di Giacobbe, nel terzo Enoch ed Elia.
A mano a mano che continua la salita, la luce e gli stessi angeli si fanno sempre più luminosi, e sempre più emblematici i personaggi che incontra: nel quinto cielo Mosè, nel sesto Abramo che saluta Maometto affermando: “Sappi che Dio ti ama, ti ha posto tra i profeti e, per amor tuo, ama il tuo popolo”. Quindi nel settimo cielo egli incontra il sommo muezzin che lo invita alla preghiera, alla fine della quale Maometto scorge Adamo, definito “il nostro padre, il primo degli uomini”.
Da questo cielo si ha l’accesso al paradiso vero e proprio, sulla cui porta egli trova scritto: “Non c’è Dio all’infuori di Allah, e Maometto è il suo profeta”. Una volta dentro, Maometto scopre che il paradiso è immenso, pieno di fiumi, montagne, alberi di ogni specie, ma anche di castelli e giardini; sulle rive dei fiumi si trovano le “donne del paradiso”, piene di amore per gli uomini ai quali sono destinate.
Anche qui si conferma la sudditanza femminile all’universo maschile che appare chiara e incontrovertibile. Ma anche l’insistenza sulle forme materiali di questo paradiso, composto da fonti, fiumi, alberi e frutti in ogni dove, ci porta a considerare la premialità islamica degli eletti, ben prima che nella visione della luce divina (come si legge nella teologia cristiana che risente chiaramente di un misticismo sconosciuto alla teologia islamica), nella fruibilità in eterno di quelle condizioni e forme di vita che l’arabo medio (il fedele al tempo di Maometto prima che l’islam si espandesse al di là del vicino oriente e del Sahel) sognava come massima aspirazione almeno nell’oltremondo, abituato com’era alla grama vita del deserto, sfruttato e impoverito fisicamente dalla mancanza o penuria di cibo e di acqua.
Queste e tante altre sono infatti le delizie che Maometto osserva nel paradiso, talmente tante, come egli stesso afferma nel testo, da soddisfare qualsiasi desiderio dei beati che sono “chiamati” da Allah. Alla fine di questa visione, sostanzialmente materialistica, lo ripetiamo, come il periodo medievale pare imponesse (al di là della diversità delle culture di cui pure si evidenziano le differenze), lo stesso Allah consegna a Maometto il libro del Corano e “infonde nella sua mente ogni sapere”, prescrivendo altresì le cinque preghiere quotidiane e il digiuno sacrificale del ramadan di trenta giorni per i suoi fedeli.
Alla fine di questo viaggio nell’aldilà l’arcangelo Gabriele riaccompagna Maometto giù per la scala fino a Gerusalemme, da dove era iniziata la salita, e lo saluta così: “Va’ e narra tutto al tuo popolo affinché sappia che cosa lo attende e si mantenga sulla retta via; e procuri così di andare in paradiso e si guardi dall’inferno”. Maometto fa quindi ritorno alla Mecca ricongiungendosi alle due mogli e alla figlia Fatima e detta loro i ricordi del suo viaggio, chiosandone la conclusione: “Questo libro fu scritto l’anno VIII da quando Maometto ricevette lo Spirito Santo e iniziò a profetare”. E con queste parole si chiude il Libro della Scala, un testo tanto noto tra gli intellettuali medievali anche al di là della cultura islamica del quale la Commedia di Dante sembra quindi essere stata in qualche modo la “risposta” fornita dalle più elevate correnti intellettuali della cultura cristiana dell’epoca.
Le altre concezioni del post mortem
Tuttavia vi sono state (e vi sono) religioni che hanno concezioni ben diverse dell’aldilà, o meglio della vita dopo la morte. Per le varie tribù dei nativi del nord America, per esempio, il concetto della morte non è legato alla fine di qualcosa, ma rappresenta solo una tappa del “cerchio sacro”, il simbolo che rappresenta la manifestazione di Wakan-Tanka (il grande mistero) che per tutti i nativi d’America è la massima divinità. Il passaggio della vita alla morte, quindi, è un viaggio nel quale chi rimane sulla terra non si sente mai abbandonato grazie alla presenza di spiriti guida i quali, rinascendo sotto altre vesti, si palesano poi a chi è sulla terra sotto forma di animali o forze soprannaturali e assumono nomi diversi in relazione alla popolazione che li venera.
Di particolare interesse è la concezione dei nativi lakota (più noti come sioux), uno dei popoli più numerosi tra quelli che popolavano il continente nord-americano prima dell’arrivo dell’uomo bianco, dato che occupavano vasti territori corrispondenti agli attuali Nord e Sud Dakota, a una parte del Montana, del Wyoming, del Nebraska e del Colorado. Ebbene, per questo popolo ogni uomo nasce con quattro aspetti dell’anima: il sicun, la forza immortale che permette al corpo di formarsi e che alla morte ritorna “al nord” ad attendere un nuovo concepimento; il tun, il potere di trasformare l’energia da visibile in invisibile e viceversa; il ni (respiro), che abbandona il corpo con la morte; il nagi, cioè l’ombra che alla morte percorre la “via degli spettri” per unirsi agli antenati e riprendere la “vita tradizionale”, rappresentato da un cerchio che non ha inizio e che non ha quindi fine.
Per loro, come per gli altri popoli nativi del nord America, non esiste quindi un vero aldilà, ma un mondo trascendente dove si muove la vita che poi prende corpo sulla terra attraverso le varie incarnazioni delle anime, che sono di fatto le vere unità del tutto cosmico destinate a esistere per sempre.
Un po’ diversa è la visione dell’aldilà per gli aborigeni australiani i quali, con le loro diverse etnie, prima della devastazione della loro cultura per opera della colonizzazione europea, avevano un insieme variegato di miti e tradizioni rimaste integre fino a quel momento anche a causa dell’isolamento geografico del loro continente.
L’elemento che ha sempre accumunato tutte le tribù è stato proprio quello relativo alla visione dell’universo e della relazione degli individui con esso. Secondo il pensiero aborigeno ogni persona appartenente a una tribù fa parte di una grande famiglia a cui appartengono, oltre ai membri stessi della comunità, anche gli animali, le piante e qualsiasi altro elemento naturale gli stia accanto in un legame imprescindibile di vita che è scandito dai ritmi della natura, dal susseguirsi delle stagioni e soprattutto dal passaggio del tempo dal giorno alla notte. Gli aborigeni australiani, infatti, si definiscono creature del mondo dei sogni, poiché secondo il pensiero comune il mondo in cui vivono non è altro che la rappresentazione di un grande sogno, scaturito dal dio primigenio, alle origini del tempo.
Il “tempo del sogno” mantiene un confine molto labile con il mondo reale, accessibile ai soli aborigeni attraverso per l’appunto il sogno, strumento fondamentale per comunicare con gli spiriti e per comprendere le dinamiche che regolano la vita e la natura.
Determinante punto di contatto tra la dimensione del sogno e quella reale è la figura dello sciamano, quasi scomparsa ormai, cioè colui il quale riusciva a entrare in relazione con il mondo dei sogni attraverso il “sogno lucido”: era questo lo strumento col quale poteva contattare le anime degli avi sfruttando lo stato di trance. L’aldilà, quindi, nella cultura aborigena fa parte dello spazio del sogno, perché attraverso questo le anime possono lasciare il corpo e percorrere viaggi spirituali proprio come avviene dopo la morte. Ma ancora oggi, poiché la pratica del sogno rientra nella sfera della magia, solo gli sciamani (i pochi rimasti) sono autorizzati a esercitarlo nell’àmbito della ritualità sacra.
Dopo la morte, l’anima del defunto per rientrare nel ciclo eterno della vita deve quindi essere accompagnata dallo sciamano; esiste così una forte connessione tra la vita e la morte e da qui si evidenzia la logica secondo la quale il decesso di una persona non rappresenta altro che il momento di passaggio da uno stadio all’altro: non la fine inevitabile della vita, ma l’inizio della vita nel regno degli avi che avviene attraverso un nuovo stadio di esistenza. Un vecchio proverbio aborigeno recita al riguardo: “Siamo tutti visitatori di questo tempo, di questo luogo. Lo stiamo solo attraversando. Il nostro scopo è osservare, imparare, crescere, amare, per poi tornare a casa”.
Il buddismo è un’altra religione con una visione particolare della vita oltremondana, che non è affatto un aldilà secondo la logica occidentale, ma un mondo di vita addirittura superiore. La morte sulla terra rappresenta infatti un momento fondamentale nella vita, più importante della nascita: da un lato è positivo poiché permette di avere la possibilità della “liberazione” da questa vita, dall’altro è segno che non si è ancora raggiunta la vita vera. La morte è quindi attesa con serenità proprio in quanto presuppone l’inizio di una esistenza successiva, che viene condizionata dal momento del trapasso: la serenità negli ultimi istanti predispone a una rinascita positiva, e il morente, consapevole di un karma stabilito dal suo comportamento, si prepara alla morte con serenità proprio per favorire una buona rinascita e permettere a colui o a colei che seguiranno di poter nascere in condizioni ancor più favorevoli delle sue alla definitiva “liberazione”.
Ma per i buddisti non è che un’anima “personale” trasmigri di corpo in corpo – come qualcuno pensa erroneamente non conoscendo né la cultura né la religione dei buddisti – portandosi appresso ricordi e coscienza. L’ultima coscienza di un uomo perde infatti ogni individualità e lascia un’eredità indifferenziata che dà lo slancio a un’altra forma di vita, la quale non è la stessa ma non è neppure del tutto differente dalla precedente; ne è semplicemente l’erede ed è per questo che ogni vita deve lasciare in eredità alla successiva, alla fine del suo corso, qualcosa di positivo per chi verrà dopo.
Anche secondo la fede shintoista, legata alla tradizionale cultura nipponica, lo spirito umano è eterno; e, come nella maggior parte delle religioni praticate in oriente, l’aldilà è concepito come una sorta di livello esistenziale superiore a quello della vita terrena. Quando si muore si cambia semplicemente forma di esistenza dato che tutto ciò che esiste è pervaso da un’energia primordiale, chiamata misubi, equivalente a sua volta al tao del taoismo.
Questo principio cosmico si esprime in una dualità di forze opposte: il principio negativo in e il principio positivo yo (equivalenti a yin e yang cinesi). Dall’avvicendarsi di queste due forze primordiali e opposte scaturisce tutta l’esistenza, sia essa fisica e materiale, sia essa spirituale.
Poiché lo shintoismo è coesistito pacificamente con il buddhismo per oltre un millennio, quanto meno in Giappone, è peraltro assai difficile separare le credenze buddiste da quelle shintoiste. Semmai si può dire che, mentre il buddismo enfatizza la vita al di là della morte, lo shintoismo enfatizza questa vita e la ricerca della felicità in essa.
Va detto anche che la visione buddista (e orientale in genere) della reincarnazione continua e di forme superiori di esistenza mutua, seppur solo in parte, anche alcuni concetti che nell’àmbito della filosofia occidentale erano emersi ben prima di Platone. Era stato infatti Pitagora e la sua scuola, già nel VI secolo a.C., a sostenere una dottrina simile, che prevedeva la reincarnazione (o metempsicosi) delle anime degli uomini, ma con riferimento a culti orfici a loro volta forse preesistenti o comunque diffusisi anche in Grecia, ma provenienti proprio dall’oriente e rimasti legati a una ristretta cerchia di fedeli, partecipanti al culto, tenuti in modo ferreo al vincolo della segretezza.
L’uomo, secondo questa visione così antica, sarebbe precipitato sulla terra a causa di una colpa originaria (in linea con il peccato originario alla base della Bibbia), per via della quale sarebbe quindi costretto a trasmigrare da un corpo a un altro (non solo di umani ma anche di piante e animali) per migliorare e salire gradino per gradino nella scala della purezza. Proprio per liberarsi definitivamente da questa “catena” di morti e rinascite e far sì che l’anima ritornasse allo stadio originario di purezza, sarebbe stato necessario dedicarsi solo alla contemplazione disinteressata della verità praticando rituali esoterici di iniziazione e di catarsi, noti per l’appunto solo agli adepti, i soli in grado di attuare un’ascesi etica, cioè una liberazione dal male considerato impurità originaria.
Va altresì sottolineato che anche alcune sètte cristiane seguirono, già dai primi secoli del cristianesimo, l’idea di una reincarnazione delle anime prendendo probabilmente a prestito, in termini sincretici, la dottrina neo-pitagorica della metempsicosi in voga anche in età ellenistico-romana e provando ad applicarla alla dottrina cristiana partendo proprio dalla logica del peccato originale. Basta citare l’esempio di san Gregorio Nisseno che, in opposizione alla dottrina di Tertulliano, affermava: “È una necessità di natura per l’anima immortale essere guarita e purificata, e quando questa guarigione non avviene in questa vita, si opera nelle vite future e susseguenti”. 36)
Anche in questo caso la disputa dottrinaria all’interno della Chiesa fu per tanto tempo aperta, dividendo soprattutto in oriente favorevoli e contrari, fin quando non giunse nel 553 la definitiva condanna della reincarnazione nel corso del sinodo di Costantinopoli voluto dall’imperatore Giustiniano. Tuttavia, la dottrina della reincarnazione riprese in parte vigore in alcune frange pauperistiche del cristianesimo medievale, in particolare nell’àmbito dell’eresia catara che fu violentemente combattuta dalla Chiesa di Roma con la famosa “crociata contro gli Albigesi”, bandita da papa Innocenzo III ed ebbe luogo soprattutto nel sud della Francia tra il 1209 e il 1229.
È utile aggiungere che oggi anche alcuni moderni movimenti del neopaganesimo e della new-age spesso accettano la credenza nella reincarnazione. Anche se non è ritenuta da tutti gli studiosi una vera e propria religione, alcune ideologie della new-age tendono ad avere una visione di umanizzazione totale, olistica, con le pratiche tecniche di espansione della coscienza e con l’uso di medicine “alternative”: aromaterapia, cristalloterapia, bioenergetica, reflessologia e channeling (comunicazione con le entità del mondo invisibile).
David Spangler, figura di punta del movimento, parlava della fondamentale importanza della pratica della meditazione per raggiungere uno status di sollevamento dell’anima dalla materialità terrena e di collegamento con le altre entità del cosmo, in una visione religiosa neo-animista che è stata combattuta da tutte le religioni strutturate, ma che soprattutto negli anni ‘60-’70 del secolo scorso ha prodotto seguaci che inseguivano anche le logiche portate avanti dai primi movimenti pacifisti e dal movimento hippy, soprattutto negli Stati Uniti.
Fin dai suoi primi anni, Spangler sostenne di essere, se non un profeta (l’ennesimo), quanto meno un chiaroveggente consapevole delle entità non fisiche. Mentre da piccolo si trovava in Marocco, disse di aver avuto un’esperienza mistica di fusione con una presenza senza tempo di unità all’interno del cosmo e di ricordare poi la sua esistenza prima della sua attuale vita, nonché il processo attraverso il quale aveva scelto di diventare il David Spangler che era, “entrando” così nella sua attuale incarnazione. In seguito a quell’esperienza, affermò che la sua consapevolezza e il suo contatto con i vari mondi interiori dello spirito si erano intensificati.
Tutto cambiò quando si trasferì a Phoenix, in Arizona, dove incontrò altri individui che erano chiaroveggenti o che fungevano da “canali” per entità non fisiche; a quel punto si rese conto che le sue esperienze interiori non erano comuni a tutti. Nella tarda adolescenza i membri di gruppi di studio metafisici gli chiesero di tenere discorsi sui suoi contatti interiori, fino al 1964, quando tenne il discorso principale a una conferenza spirituale nazionale su “Gioventù e new-age”. Ciò lo portò a ricevere numerosi inviti da tutti gli Stati Uniti per tenere conferenze in sedi di varie organizzazioni spirituali e metafisiche. All’epoca rifiutò questi inviti per concentrarsi sui suoi studi scientifici, ma successivamente si sentì chiamato dal suo spirito interiore a condividere le sue particolari intuizioni e percezioni. Si trasferì quindi in Scozia dove fondò negli anni ‘70 la “Comunità intenzionale di Findhorn”, e qui pubblicò il suo libro più famoso, tradotto ben presto in molte lingue. 37)
La new-age di cui Spangler è stato probabilmente il massimo portavoce, non parla mai di “creazione di Dio” ma di “Dio come anima del mondo”, quindi è come se non riconoscesse un’opposizione di sorta tra la “creatura” e il “creatore”. Dal suo misticismo consegue il “panenteismo”, nel senso che “Dio è nel mondo e il mondo è in Dio” 38) e questo a sua volta giustifica e rende possibile il processo continuo e inarrestabile della creazione, con il conseguente sviluppo della “spiritualità dell’incarnazione”.
Anche a causa di queste posizioni religiose, l’opposizione delle religioni “tradizionali” nei suoi confronti e nei confronti delle sue idee – che sono poi trasmigrate in numerose “varianti” e successive elaborazioni della cultura new-age – è sempre stata netta, legandosi anche al fatto che secondo le sue teorie e quelle dei suoi seguaci non ci sono e non ci possono essere “chiese” istituzionali, né tanto meno gerarchie sacerdotali a cui rispondere, in quanto il collegamento di ogni essere attraverso la meditazione è diretto e immediato con il divino e con l’eterno divenire del mondo, che “accade” anche attraverso la reincarnazione di ogni tipo di essere in ogni altro alla sua morte.
Nel contempo non si può negare che le teorie di Spangler, della Comunità intenzionale di Findhorn e dei loro epigoni abbiano a loro volta contribuito a fornire le basi ideologiche per le istanze dei più moderni movimenti ecologisti che, dediti non più a teorie oltremondane ma alla conservazione della terra per le future generazioni in una logica di pura realtà materiale, hanno interessato la cultura occidentale soprattutto in questo inizio del nuovo millennio. Essi hanno inoltre trasformato l’attenzione alla sostenibilità ambientale in una sorta di nuova religione laica, mescolandovi a volte istanze un tempo collegate alla sacralità della terra e persino a certe correnti dell’animismo religioso.
Ovviamente, al di fuori della teologia cristiana o, meglio, al di fuori della cornice teologica di una qualche religione, si può pure ricordare quanto scriveva su questi temi così complessi il grande scrittore Italo Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. 39)
N O T E
1) C’è un dopo? La morte e la speranza, Milano 2016. Come nota Antonio Polito che ha intervistato Camillo Ruini dopo l’uscita del suo libro per il “Corriere della Sera”, il punto interrogativo è un po’ la summa dell’approccio razionale di questo sacerdote, per sedici anni a capo dei vescovi italiani: tanto fermo nella sua fede, quanto aperto al dubbio altrui. Lo stesso Ruini riconosce che quelli da lui stesso evidenziati sono racconti che hanno somiglianze con quelli di grandi mistiche come Caterina da Siena e anche con quello di Er, l’uomo che Platone diceva fosse risuscitato e avesse narrato ciò che la sua anima aveva visto. Ma ogni descrizione non può essere che una fantasia, nel senso che non è sostenibile dal punto di vista della ragione. Non si possono fare reportage sul “dopo”. D’altronde, riconosce sempre lo stesso anziano cardinale, anche un celebre filosofo come Ludwig Wittgenstein ha scritto che “la morte non è un evento della vita, la morte non si vive”.
2) Oltre l’invisibile. Dove scienza e spiritualità si uniscono, Milano 2024.
3) L’aldilà dell’uomo, Milano 1985.
4) Cfr. sull’argomento Sergio Donadoni (a cura di), Testi religiosi egizi, Torino 1970.
5) Op. cit.
6) Odissea, libro XIV, vv. 489-491.
7) Frammento 131b in La sapienza greca, vol.1, Milano 2005. Secondo il suo traduttore Colli, il concetto di un’immagine, di una parvenza della vita che nell’uomo costituisce l’unica parte divina, non solo suona immediatamente come orfico, ma si esprime in una forma che si adatta assai bene a caratterizzare la ψυχή in quanto sepolta nel corpo.
8) Libro XIV dei Salmi di Salomone, vers. 6.
9) Libro di Daniele, XII, 2.
10) Luigi Moraldi, op. cit.
11) Cfr. Vangelo di san Matteo, VI, 19-20.
12) Cfr. Vangelo di san Luca, XIV, 12-14 e 23-27.
13) Vangelo di san Matteo, X, 38-39.
14) San Paolo, Prima lettera ai Corinzi.
15) Sempre san Paolo, nella sua lettera ai romani, scrive al riguardo: Se lo spirito di colui che resuscitò Gesù da morte abita in voi, colui che risuscitò Cristo Gesù da morte vivificherà anche i vostri corpi mortali a causa del suo spirito che abita in voi”.
16) Cfr. Vangelo di san Matteo, XXIV, 50-51.
17) Cfr. Jacques Le Goff, La nascita del purgatorio, Torino 1982.
18) Tertulliano, nel suo Apologeticum, afferma che l’anima è come “rinchiusa nel carcere del corpo”. Ma la sua importanza nella letteratura del cristianesimo delle origini è legata in particolare al fatto che fu proprio Tertulliano, che si era convertito alla fine del II secolo, il primo a utilizzare la parola latina trinitas (trinità) con riferimento al Dio della Bibbia e a definire Dio “unam substantiam in tribus cohaerentibus” (nell’Adversus Praxean), chiamate anche personae, mutuando quindi i termini di “persona” e di “sostanza” dallo stoicismo a lui ben noto come tutta quanta la filosofia del mondo greco ed ellenistico. Fu quindi proprio Tertulliano, anticipando di quasi un secolo i tempi delle dispute dottrinarie del Concilio di Nicea, a distinguere l’unicità della “sostanza divina” rispetto alla “pluralità delle tre persone”, tra loro co-eterne e consustanziali (in un piano paritetico), fornendo al cristianesimo la base dottrinale, distinguente, della Trinità.
19) Inferno, III canto, verso 60.
20) Nel XXVIII canto dell’Inferno Dante così scrive del suo incontro con Maometto: “Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla. Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ‘l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia. Mentre che tutto in lui veder m’attacco, guardommi e con le man s’aperse il petto, dicendo: Or vedi com’io mi dilacco! vedi come storpiato è Maometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto”.
21) La Visio Pauli, meglio conosciuta come Apocalisse di Paolo, è un testo apocrifo di genere visionario e apocalittico in cui viene descritto, in una prospettiva escatologica, il presunto viaggio di san Paolo di Tarso nei regni oltremondani. Il testo originario, in lingua greca, è databile tra il II e il III secolo d.C., e sembra sia stato redatto ad Alessandria d’Egitto; questo testo originario, oggi del tutto perduto, fu oggetto di numerose traduzioni in varie lingue (latino, copto, siriaco, volgare italico, provenzale, eccetera) e probabilmente anche di alcune rielaborazioni successive, ed esercitò nel corso dei secoli, grazie anche alla sua eccezionale popolarità e diffusione (nonostante l’avversione esplicita di sant’Agostino), una grande influenza su tutte le visioni medievali successive, delle quali può giustamente ritenersi il prototipo, tra cui probabilmente la stessa Commedia di Dante, anche se non si ha certezza che il testo sia stato conosciuto dal “divino poeta”.
22) Studi su Dante, Napoli 1961. Ma cfr. sull’argomento anche Erich Auerbach, Studi su Dante, Milano 1966.
23) Corano, II, 258.
24) Corano, III, 145.
25) “La mia vita e la mia morte appartengono a Dio”, Corano, VI, 162.
26) Corano, III, 185. Al momento del trapasso, per l’islam ogni credente ottiene perfino la rivelazione del proprio destino nell’aldilà, di cui anche i familiari possono venire a conoscenza osservando i sintomi fisici del moribondo: l’annerimento del volto o la contrazione delle labbra testimoniano la dannazione dell’anima del defunto, mentre al contrario la serenità del suo volto o addirittura il sorriso evidenziano che la sua anima sta per essere accolta tra gli eletti.
27) Cfr. Alfonso Maria Di Nola, Maometto e la saggezza dell’islam. Vita, insegnamenti e detti memorabili del profeta, Roma 1997.
28) Corano, LXXVI, 21.
29) Corano, XXXVIII, 55-56.
30) Corano, IX, 72-73.
31) Corano, LVII, 13.
32) Corano, VII, 50-51.
33) Corano, IV, 56.
34) Corano, II, 174.
35) Cfr. sull’argomento Miguel Asìn Palacio, La Scala Musulmana en la Divina Commedia, Madrid 1919-1943; Enrico Cerulli, Il “Libro della Scala”: la questione delle fonti arabo-spagnole della “Divina Commedia”, in “Studi e testi” n. 271, Città del Vaticano 1972; e Maria Corti, La Commedia di Dante e l’oltretomba islamico, in Dante Alighieri. Atti delle Rencontres de l’Archet, Morgex, 14-19 settembre 2015, Torino 2017.
36) Grande discorso catechetico, tomo III.
37) David Spangler, Il pellegrino. Un viaggio nel mondo della New Age, Saturnia 1997.
38) Ibidem.
39) Le città invisibili, Torino 1972.
Il testo dell’articolo è ricavato da un capitolo di Antropologia del sacro e delle religioni, dello stesso autore (Edizioni Fotograf).