I moti popolari in Italia contro i
francesi dal 1796 al 1814 sono caratterizzati da due grandi
“insorgenze”: la prima è quella che ha visto le masse contadine
ribellarsi alle repubbliche giacobine instaurate al seguito dell’armata
francese, estesa a quasi tutto il territorio della Penisola; la seconda
ebbe luogo nel biennio 1809-1810 e interessò alcuni dipartimenti del
Regno d’Italia
Napoleonico. 1)
II Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla (cosi come il finitimo Ducato
di Modena, dove i ceti più umili – che negli altri Stati furono
l’epicentro, la forza motrice della ribellione – rimasero passivi o
parteggiarono per le nuove idee, anche se poi questa propensione ebbe
modo di venire alquanto ridimensionata, specialmente per le ruberie e i
saccheggi delle truppe di occupazione e per le gravi imposizioni che
avevano vessato un po’ tutti) fu una delle poche regioni non interessate
alla prima insorgenza: infatti durante quel triennio (pur essendo il
secondo Stato della Penisola a essere occupato nel 1796 dai francesi) il
Ducato formalmente continuò a esistere e non fu sostituito da una
repubblica giacobina, anche se “i francesi dominavano da padroni,
lasciando al duca la sovranità soltanto di nome”; 2)
le popolazioni, comunque, dovettero subire il passaggio di innumerevoli
eserciti, l’uno più noncurante dell’altro dei diritti dei cittadini.
Dopo la vittoria della Trebbia, i francesi furono sostituiti dai russi
di Suvarov che non si comportarono meglio: a Piacenza, dove l’esercito
zarista saccheggiava e violentava senza posa, si scatenò una violenta
sommossa che provocò una sanguinosa carica della cavalleria cosacca, con
numerosi morti e feriti. 3)
Tornati i francesi dopo la vittoria del Bonaparte a Marengo e morto, nel
1802, l’esitante Ferdinando di Borbone, il Ducato passò definitivamente
sotto il dominio francese. La ribellione dei montanari degli Stati
parmensi si situa tra la prima e la seconda insorgenza, nell’inverno
1805-1806, senza alcun rapporto con le coalizioni europee
antinapoleoniche; mentre, infatti, sia la prima sia la seconda
ribellione scoppiavano in tempi che vedevano puntualmente di fronte
eserciti francesi e austriaci, e sicuramente l’Austria aveva avuto parte
attiva nelle insurrezioni, nel 1805 la potenza di Napoleone era al
culmine: il 26 maggio nella cattedrale di Milano riceveva la “corona
ferrea”; poco dopo annetteva la Repubblica Ligure e, appunto, il Ducato
di Parma; obbligava la Baviera a vincolare alla Francia la Germania
meridionale e il 20 ottobre batteva gli Austriaci a Ulm; il 13 novembre
entrava trionfalmente nel castello imperiale di Schoenbrunn a Vienna; il
2 dicembre, anniversario della sua incoronazione a imperatore,
travolgeva definitivamente gli austro-russi ad Austerlitz. Il 16
dicembre la pace di Strasburgo consacrava la sua ormai incontrastata
egemonia in Europa.
Ebbene, proprio in quel dicembre del 1805, quando l’ultimo Imperatore
del Sacro Romano Impero e re e principi si piegano all’invincibile, i
montanari dell’Appennino di Parma e Piacenza osano invece sfidarlo,
opponendogli la loro disperazione, insorgendo con caparbietà selvaggia.
La scintilla si accende a Castel San Giovanni, dove sono stati riuniti i
giovani e i padri di famiglia “rastrellati” nelle valli piacentine, per
formare “un corpo militare regionale” di 12.000 uomini tutti del
Ducato, il 6 dicembre. La sommossa risale le valli del Trebbia e del
Colla, del Tidone e del Nure, per passare poi in quelle del Ceno e del
Taro: cosicché da Bobbio a Pontremoli tutta la montagna è insorta.
I ribelli si chiamano a raccolta soffiando nelle grandi conchiglie
marine usate a mo’ di corno; le campane di tutte le pievi suonano a
martello. Alla vigilia di Natale i ribelli sono padroni di Salso e di
Scipione, dove li guida Giuseppe Bussandri, Mossètta, proclamato generäl
dagli insorti. A Capodanno del 1806 è liberata Pellegrino, e, due
giorni dopo, Bobbio; contemporaneamente, quel 3 gennaio insorgono i
montanari della Valle di Lecca, di Boccolo e di Noveglia; capeggiati da
ufficiali dell’ex esercito ducale, salgono a Bardi per occupare il
castello dove si è asserragliato il presidio: gli insorti mettono allora
l’assedio che dura sino al 7 gennaio, quando da Varese giunge la truppa
francese comandata dal generale Vivian e dal suo luogotenente Vernail. I
ribelli, guidati dal capitano Gaspare Lamberti di Rocca di Varsi, sono
armati di falci, tridenti, marasse (accette) e altri arnesi del
quotidiano lavoro di campagna; alcuni dispongono di vecchie armi da
fuoco, quasi inservibili: lo stesso generale Vivian scrive
all’amministratore generale degli Stati di Parma e Piacenza, J. V.
Moreau de Saint-Méry, che i fucili dei ribelli sono cattivi arnesi (“mauvaises patraques qui dépuis un siècle au moins n’avaient pas nui à la population”).
Alcuni insorgenti cadono in combattimento, 22 vengono fatti
prigionieri, tra i quali il comandante Lamberti. Il 1° battaglione del
3° fanteria leggera e la gendarmeria, padroni ormai della piazza,
puntano su Borgotaro dove, colà pure, i 1800 insorti che assediano il
forte sono travolti, inseguiti, perdendo parecchi dei loro, uccisi,
annegati nel Taro o prigionieri. Le truppe francesi ritornano quindi a
Bardi per entrare nella valle di Tolla movendo su Lugagnano; a Sallini e
a Pedina, due borgate in prossimità delle sorgenti dell’Arda (Val di
Tolla), i ribelli sostengono il primo urto perdendo un solo uomo; ma i
francesi bruciano Sallini. A Lugagnano il Vivian si congiunge con le
truppe di Linea, la gendarmeria e la cavalleria inviata dal principe
Eugenio Beauharnais, viceré d’Italia, che già avevano cacciato gli
insorti dal centro abitato.
Da Padova l’11 gennaio il principe Eugenio, rivolgendosi ai “popoli degli Stati di Parma” dice:
Come! Nel momento in cui tutti i popoli del continente si
riposano dalle lunghe loro agitazioni in seno a quella pace gloriosa
restituita al mondo intero dall’Imperatore dei Francesi e Re d’Italia,
voi soli frammischiate le grida delle sollevazioni ai commoventi accenti
di gioia e di riconoscenza in tutte le nazioni? (…) Riflettete bene! I
soldati francesi, generosi con i nemici del loro paese, non fanno mai
grazia ai ribelli. Se due ore dopo il presente proclama, non vi sarete
separati, ve lo dichiariamo con dolore, le vostre famiglie dovranno per
molto tempo spargere delle lacrime sul vostro traviamento e sul vostro
delitto.
Ormai la ribellione sembra domata dall’enorme spiegamento di forze
occupanti e il 15 gennaio le autorità assicurano che tutto si è calmato.
Ma non è così. La repressione sta colpendo i sacerdoti schieratisi con
gli insorgenti: il 20 gennaio il vescovo di Piacenza deve notificare al
governo francese di aver avuto in consegna come prigionieri tre
sacerdoti che avevano partecipato alla sollevazione: don Francesco
Franchi, arciprete di Pecorara (Val Tidoncello), don Lorenzo Cuneo,
cappellano di Marzonago, e don Battista Pedrazzo, rettore di Leverello.
In quello stesso giorno, i francesi arrestano don Pietro Mazzocchi,
economo della chiesa di Mezzano Scotti in Val Trebbia. Subito, anche nei
comuni limitrofi squillano le campane a stormo. Il 21 e il 22 si torna a
sparare anche a Piancasale e a Scabiazza (frazioni del Comune di Coli
in Val Trebbia), e a Caminata (Val Tidone). A Cattaragna (Val d’Aveto), i
francesi fustigano il “console” del Comune e arrestano il parroco e un
altro sacerdote; a Caminata rimangono uccisi una donna e un bambino, ma i
francesi devono ritirarsi su Bobbio.
Riassumendo, le valli particolarmente interessate all’insurrezione
dell’inverno 1805-1806 furono (tra parentesi i punti nevralgici, dove si
ebbero focolai di ribellione):
- Versa (Donelasco, Rovescala)
- Tidone e Tidoncello (Caminata, Pecorara e Ziano; nei pressi di Pianello, la Rocca di Olgisio era un celebre rifugio di insorti)
- Trebbia (Mezzano Scotti, Piancasale, Pradovera, Scabiazza e in generale il Comune di Coli)
- Aveto (Camaragna)
- Nure (Gropallo, e in genere l’area a monte di Carpaneto Piacentino
nel triangolo compreso tra Ponte Alberone – ora Ponte dell’Olio – a sud,
San Giorgio a nord, Carpaneto Piacentino a est, tra il Nure e il
Riglio) - Arda (Lugagnano, nei cui pressi, sul monte Moria, c’era un grande rifugio di insorti)
Stirone (Salsomaggiore, Scipione, Vigoleno) - Ceno (Varsi, Bardi; insorsero particolarmente gli abitanti della
valle di Lecca, di Boccolo e qualche porzione della valle di Noveglia) - Taro (Tarsogno, Carniglia).
Napoleone non poteva certo tollerare che pochi ribelli montanari
osassero opporsi o insorgere contro la sua potenza. Il 18 gennaio
ordinava il richiamo del Moreau, e il giorno successivo, da Stoccarda
dove si trovava, nominava il generale J. A. Junot nuovo amministratore
generale degli Stati di Parma e Piacenza, e gli notificava che “non è
certo con delle frasi che si ottiene la tranquillità in Italia. Fate
come ho fatto io a Binasco (Milano): bruciate un grosso paese; fate
fucilare una dozzina di insorti e formate delle colonne mobili per
prendere ovunque i briganti e dare un esempio al popolo di questi
paesi”.
Prima di ricevere risposta, il 4 febbraio allo stesso Junot: “Fate
bruciare cinque o sei paesi; fate fucilare una sessantina di persone:
procedete con degli esempi estremamente severi perché le conseguenze di
quanto accade a Parma da un mese sono incalcolabili per il resto
d’Italia”.
Quando ebbe i primi rapporti del Junot, il 7 febbraio, rispondeva
invitando ancora a usare la massima severità nel “vendicare l’offesa che
era stata fatta alla sua sacra Maestà Imperiale
col resistere ai suoi funzionari” e ordinava che il villaggio che aveva
ripreso l’insurrezione fosse bruciato, e fucilato il sacerdote che si
era consegnato al vescovo di Piacenza. (Quale dei tre sopra citati? A
loro si era aggiunto forse don Mazzocchi, economo della chiesa di
Mezzano.) Napoleone non si fidava del vescovo e infatti, più tardi,
avrebbe ordinato al Junot di far tradurre i sacerdoti innanzi alla
Commissione Militare, dichiarando che non aveva bisogno del vescovo di
Piacenza per punire chi disubbidiva alle sue leggi.
Ordinò infine che tre o quattrocento ribelli arrestati fossero mandati
alle galere: “Sono necessari dei fiotti di sangue per assicurare la
tranquillila in Italia”. Le punizioni dovranno essere dunque numerose e
severe; nessuno deve esser risparmiato. E ribadisce ancora: “Credetemi,
bruciate uno o due grossi paesi: che non resti alcuna traccia. Quando si
posseggono grandi Stati, li si deve mantenere con atti della massima
severità. Aiutate la gendarmeria e purgate il paese da questi banditi”.
Poiché la ribellione è stata resa nota, egli vuole che se ne conosca la
repressione vittoriosa e la punizione esemplare. Junot. anche poco
convinto della bontà di queste misure, reprime secondo gli ordini
ricevuti, e il 27 gennaio 1806 lancia il seguente proclama:
Abitanti della montagna! Ritiratevi ai vostri focolari;
siate obbedienti alle leggi e al Governo francese, deponete le vostre
armi; ma se continuate a essere ribelli, se vi lasciate sedurre più
lungamente da qualche facinoroso interessato che continui il disordine
per profittarne, voi sarete le vittime!
Con altri decreti dispose che qualunque villaggio occupato dai
ribelli, ove fosse necessaria la forza per entrarvi, sarebbe stato dato
alle fiamme. e ogni ribelle preso con le armi in mano sarebbe stato
punito con la morte e così i capi riconosciuti della sollevazione; pene
gravissime a chi teneva armi in casa, e a chi facesse discorsi
sovversivi o desse ospitalità ai ribelli; i condannati ai ferri
avrebbero dovuto essere messi alla berlina, legati al palo con il
cartello davanti e dietro “rebellato”.
Il 15 febbraio il comandante GranSaigne rade al suolo il paese di
Mezzano; anche il campanile e la casa del parroco sono bruciati; le
campane, fatte a pezzi “a vista di quegli infelici che con ammirazione
dei sovrastanti, quali Scevola, dicesi, osservassero intrepidi
l’incendio dei loro abituri” (relazione di Antonio Valla). L’11 febbraio
erano già cominciate le fucilazioni, che seguiranno sino al 2 maggio,
quando toccò al generäl Mossètta, condannato a morte il giorno
precedente. Mentre i sacerdoti “prigionieri del vescovo” si salvano
(come giustamente supponeva Napoleone!), il 1° Aprile – venerdì santo –
vengono fucilati anche due sacerdoti della Val Taro: don Giovanni
Cardinali (di Tarsogno, prete a Pradovera) e don Matteo Sbarbari (di
Carniglia, prete a Macerato). Molto patetica è anche la storia di un
montanaro di Ziano (Val Tidone), Agostino de Torri, che era stato tenuto
a battesimo dalla duchessa Maria Amalia di Borbone durante una sua
occasionale gita in Val Tidone e che, rimasto fedele alla memoria della
madrina, divenne capo degli insorti della sua valle e, catturato, fu
fucilato a Piacenza il 18 febbraio alla schiena “come vile traditore”.
Il comandante degli insorti di Bardi, capitano G. Lamberti, morirà
prigioniero nella fortezza di Fenestrelle (Val Chisone, Torino); un
altro bardigiano, Marco Pontrini, fu invece assolto. Napoleone, a mano a
mano che gli pervenivano le notizie di condanna, non mancava di
manifestare la propria soddisfazione. Cosi scriveva al fratello
Giuseppe: “Piacenza era insorta al mio ritorno dal grande esercito: vi
mandai Junot, il quale pretendeva che il paese non era insorto e mi
regalava dello spirito alla francese. Gli ho mandato l’ordine di far
bruciare due villaggi e di far fucilare i capi della rivolta tra i quali
vi erano sei preti; ciò fu fatto e il paese fu sottomesso e lo sarà per
molto tempo”.
Ma ancora sulla fine di aprile, 23 coscritti vennero arrestati a
Piacenza e condotti nelle prigioni di Borgo San Donnino, l’attuale
Fidenza. Dieci di essi la notte del 31 maggio riuscirono a fuggire, e
continuarono cosi a circolare voci di nuove ribellioni.
La repressione non ebbe comunque le dimensioni auspicate da
Napoleone. I giudicati regolarmente per aver partecipato all’insorgenza
furono 88, dei quali 44 assolti, 21 condannati alla fucilazione, 19 ai
ferri e 4 morirono in prigione prima del giudizio. Nel corso dei
combattimenti tra insorti e francesi c’erano state alcune decine di
morti e un centinaio di feriti. In questa occasione esplose violento il
disprezzo che, accoppiato a lodi più o meno sincere, Napoleone aveva per
gli “italiani”, che definì di “carattere doppio e falso”.
N O T E
1) La storiografia della prima insorgenza vanta un
unico studio di insieme e una considerevole mole di trattazioni
settoriali; infatti, l’opera di G. Lumbroso, I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII,
è la più considerevole se non l’unica trattazione organica della
ribellione antifrancese. La rivolta nei Ducati (1805-1806) è stata
studiata in pratica soltanto da V. Paltrinieri (I moti contro Napoleone negli Stati di Parma e Piacenza,
Zanichelli, 1927); la rivolta che interessò nel 1809-1810 alcuni
Dipartimenti del Regno d’Italia è stata trattata sino a oggi da storici
non numerosi, e sempre a livello di ricerca regionale; vasta è comunque
la letteratura austriaca su Andreas Hofer, mentre per l’insorgenza
bolognese i due studi fondamentali sono quelli di G. Natali: L’insorgenza del 1809 nel Dipartimento del Reno,
in “Atti e memorie della deputazione di storia patria per l’Emilia e la
Romagna”, anno XV, vol. II, Bologna, 1936-37; e la tesi inedita di F.
degli Esposti, L’insorgenza antifrancese degli anni 1809-1810 nella montagna bolognese (relatore prof. U. Marcelli), Università di Bologna, anno accademico 1975-76.
2) L. Montagna, Il dominio francese in Parma (1796-1814), Piacenza, 1906, p. 22.
3) E. Gachot, Souvarov en Italie, Paris, 1903, p. 290.
Una testimonianza sui martiri dimenticati
Ecco la lettera di Eliseo Bussandri alla “Gazzetta di Parma” (18 marzo 1975) per rivendicare il sacrificio del suo avo, il generäl Mosètta.
Eliseo Bussandri ha combattuto nella Brigata Garibaldina durante la
Resistenza 1943-45, con il soprannome “Mosetta” dato alla sua famiglia.
Ma egli, a quel tempo, non era a conoscenza delle imprese di Giuseppe
Bussandri, ignorato dalla storia e dalle amministrazioni locali.
Signor direttore,
Giuseppe Bussandri, detto “Mozzetta”, chiamato anche generale degli
insorti contadini, montanari e valligiani del Parmense e del Piacentino,
dal 1805 al 1806, era nativo di Scipione di Salsomaggiore.
Era nato nell’anno 1764, fu fucilato il primo maggio del 1806, aveva
poco più di quarant’anni, dopo essere stato spogliato di tutti i suoi
beni, secondo gli usi di allora. Il processo fu celebrato a Parma, il
tribunale era composto da ufficiali francesi dell’esercito d’invasione
in Italia.
Guidò gli insorti in parecchie imprese di guerra contro l’esercito
napoleonico, spronando ed incitando la popolazione insorta alla libertà
per sottrarre la loro terra all’oppressione straniera. Il nomignolo di
“Mozzetta” gli fu dato perché faceva mozzare le due dita della mano
destra ai prigionieri francesi, rendendoli inabili alla guerra e poi li
mandava liberi. È capostipite dei
partigiani d’Italia. I documenti del processo si trovano in parte alla biblioteca Palatina, in parte
negli archivi di Parma e di Genova, dove si trovava il comando generale delle forze d’invasione francese.
Giuseppe Bussandri conta molti discendenti, la maggior parte dei quali
vive qui nel comune di Salsomaggiore e si ritengono giustamente fieri di
quanto operò il loro antenato per difendere i diritti della nostra
terra e dei suoi abitanti. Per questo i discendenti di Giuseppe
Bussandri lo considerano martire dell’indipendenza e precursore dei
“volontari della libertà”. Infatti essi si contraddistinguevano col
tricolore bianco, rosso e verde sul cappello e per questo motivo erano
chiamati i soldati della “Coccarda”.
E per questo chiedono alla Gazzetta un po’ di posto, per questa semplice rievocazione.Eliseo Bussandri
Salsomaggiore, 15 marzo 1875
L’articolo originale è stato pubblicato sul numero 16 – 1989 di “Etnie”