Beato il popolo che non ha bisogno di eroi, scriveva Bertold Brecht nella Vita di Galileo. È ancora vero oggi, nel terzo millennio? E poi, eroi si nasce o si diventa? E cosa hanno in comune gli antichi eroi della mitologia classica con quelli che oggi (persone reali, idoli, personaggi letterari o protagonisti di film e serie tivù) definiamo “eroi”?
In effetti, è facile constatare che si tratta di uno dei termini più abusati del nostro linguaggio quotidiano: eroi sono i vigili del fuoco che spengono un incendio salvando vite umane; eroe è il Commissario Montalbano, creato dalla penna di Andrea Camilleri e reso famoso dalla interpretazione di Luca Zingaretti nella fiction televisiva della RAI; o Hercule Poirot, personaggio della scrittrice Agatha Christie e protagonista di una lunga serie di racconti e romanzi gialli, anch’egli oggetto di varie famose trasposizioni televisive. Eroi sono Capitan America, Spider Man e gli altri famosi personaggi Marvel, ed eroi sono stati gli astronauti che sono allunati con le missioni Apollo della Nasa; ma eroi sono i giudici Falcone e Borsellino che hanno sacrificato la loro vita nella lotta alla mafia, ed eroe fu anche Garibaldi che strappò la Sicilia ai Borboni (anzi “eroe dei due mondi”, con riferimento alle sue campagne di lotta per i popoli di Brasile e Uruguay). Tuttavia eroe è, parimenti, il prode Orlando della chanson de geste e dei vari poemi cavallereschi del ‘500; ed eroe fu anche Enea che secondo Virgilio e gli antichi romani permise di fatto la nascita dell’antica Roma, così come Ulisse lo fu per i greci, dato che solo grazie alla sua astuzia essi riuscirono a conquistare Troia dilagando poi sulle coste del Mediterraneo orientale.
Potremmo continuare a citare nomi, pescando tra le varie epoche e anche andando più indietro nel tempo, ma questo non risolverebbe il problema di una definizione univoca del concetto di eroe. Oggi, nell’accezione quotidiana, definiamo tali un insieme forse informe di persone reali, storicamente esistite, e un altro insieme di personaggi letterari o dei miti antichi, quindi gente in carne e ossa; ma anche figure avvolte nella più pura leggenda o frutto dell’immaginazione di letterati di ogni epoca.
Dunque, com’è possibile che il termine che definisce tutte queste figure sia, in modo univoco, quello di “eroe”?
Proveremo qui di seguito a capirlo, seguendo le tracce lasciate nella storia sociale e nelle culture occidentali da coloro che al loro tempo (o successivamente alla morte) sono stati riconosciuti tali.

Il concetto negli antichi miti euromediterranei

Partiamo dunque dall’inizio. Il termine eroe deriva dal greco ἣρως, collegabile successivamente al verbo latino servare, traducibile con l’odierno “preservare”, il che spingerebbe a pensare che gli eroi nell’antichità fossero, quanto meno principalmente, figure legate alla necessità di “preservare” l’umanità, cioé di proteggerla dal male. All’originario significato di “protettore”, in ogni caso si andò aggiungendo e sovrapponendo quello di “prode combattente”, “capo”, 1) quindi “nobile” per antonomasia; 2) a un certo punto si giunse anche all’identificazione del termine ἣρως con ἡμίθεος, cioè con un essere di origine in qualche modo divina o con un uomo divinizzato post mortem. 3)
Questa “titubanza” di atteggiamento nei riguardi della figura dell’eroe permase un po’ per tutta l’antichità, non solo per l’evoluzione culturale e religiosa dei popoli mediterranei che credevano nell’esistenza di figure spesso variegate di eroi e che spesso li veneravano, come i greci e i romani, ma anche perché forse è sbagliato presupporre oggi l’esistenza di un quadro d’insieme univoco e certo nelle culture del tempo.

Achille.

D’altronde, anche gli studiosi moderni hanno formulato sull’origine dell’eroe nell’antichità tesi tra loro completamente diverse, talvolta non condividendo nemmeno le opinioni degli antichi, anche perché, come nota Angelo Brelich, “nell’orizzonte culturale moderno c’è ancora posto per un’idea di ‘dio’, ma difficilmente per esseri ‘semidivini’, che non siano, cioè, né dèi né uomini. 4)
Si deve a Farnell 5) l’intuizione che non necessariamente gli eroi antichi dovevano essere della stessa tipologia e che conseguentemente la loro origine non doveva essere uniforme e quindi uguale. Farnell giunse addirittura a distinguere ben sette categorie di eroi, da quello di origine divina al combattente glorificato, dal sacerdote-vate a quelli inventati dai poeti e dagli eruditi, o ancora gli antenati illustri di singole famiglie o di città in cerca di un passato glorioso. La sua posizione fu in pratica successivamente accettata da tutti.
Ma questo portò a spostare il problema dell’eroe a valle: assodato che l’eroe poteva essere stato un dio decaduto, un grande e valoroso combattente, un antenato mitico o un protettore (come quelli che oggi nell’àmbito del cristianesimo sono considerati santi patroni di una città o di una categoria di lavoratori), come si era potuto affermare nell’antichità un concetto unico di eroe applicabile poi a figure così diverse tra loro?
In realtà, quando parliamo di antichità, spesso è uso comune intendere, seppur con una breve “introduzione” su egizi, ittiti, assiri, fenici, ebrei, etruschi, eccetera, solamente il periodo greco-romano: in un certo senso è come se la storia dei primi popoli del Mediterraneo fosse servita a quelle greca e romana per poter nascere e quindi svilupparsi. È ovviamente un atteggiamento non solo discutibile sul piano propedeutico ma anche sbagliato da quello storico, in quanto in tal modo, nel fare inconsciamente riferimento a una pretesa evoluzione “da … a”, non può tenersi nel dovuto conto il contributo che le culture “altre” (per esempio quelle egizia, fenicia, etrusca o ancora quella aramaica o ebraica) hanno dato proprio a greci e romani e, attraverso di loro, a noi moderni.
Inoltre è abbastanza semplice comprendere come l’uomo greco o anche quello romano, vissuti in contesti socio-economici e in secoli diversi, non siano gli stessi per caratteristiche sociali e culturali: perfino il romano dell’età di Silla non è affatto il romano dell’età di Augusto né tanto meno quello dell’età di Marco Aurelio, e a maggior ragione non è affatto la stessa persona dell’Atene o della Siracusa dei secoli d’oro.
Inoltre, a prescindere dall’epoca in cui egli è vissuto, dobbiamo sempre essere capaci di differenziare la sua condizione sociale, se cioé sia nato schiavo o patrizio o soldato o ancora se sia stato un contadino dell’agro pontino piuttosto che della pianura pannonica.
In ogni caso, se il quadro di riferimento dell’eroe, almeno per l’antichità, è indissolubilmente legato a quello mitologico, è legittimo quindi chiedersi come l’uomo greco o romano (per non parlare dell’ebreo o del fenicio) vivevano al loro tempo e nella loro condizione socio-economica la dimensione mitologica, sia essa propriamente religiosa o invece artistico-letteraria. E perché, comunque, sia esistita per tutti i popoli dell’antichità (e non solo per loro) quel particolare progetto di appropriazione della realtà naturale che va sotto il nome di mitologia.
Non si tratta di un problema semplice, né è proponibile accettare la mitologia come una fase delle età dell’uomo che faccia riferimento a una visione meccanicistica dell’evoluzione della Civiltà (quella con la C maiuscola) da un’ideale infanzia irrazionale, fantastica e prelogica, nella quale appunto nasce e si sviluppa una concezione fantastica e mitica della realtà, fino a un’età adulta e razionale, nella quale dominano l’intelligenza, la ragione, la storia e il diritto.
Il mito è una realtà culturale molto complessa. Può infatti avere per protagonisti esseri a vario titolo soprannaturali, ma può anche narrare di creature naturali o di antenati o semplicemente cercare di spiegare aspetti naturali; eppure il suo quadro di riferimento ha comunque l’effetto di operare quasi una vera e propria irruzione nel sacro, oppure di aprire una finestra che consenta un contatto tra la realtà dei fenomeni naturali e la realtà considerata in qualunque modo sacra. 6)
Questa dimensione sacra cui facciamo riferimento si lega in tutte le culture dell’antichità alla narrazione del mito, che costituisce esso stesso parte integrante della realtà, 7) dato che finisce nelle culture dell’occidente antico col rappresentare direttamente questa realtà diventandone la medesima cosa.
Le ragioni di quello che agli occhi di un uomo moderno e integrato nelle culture dell’occidente può apparire un capovolgimento della realtà stessa sono molteplici, ma riportano comunque a una serie di problematiche tra loro intrinsecamente interconnesse:

  • il mito confronta e perpetua valori, introducendo una scala di valori che tende a essere immutabile;
  • nel togliere interesse alla storia, può nascondere l’insorgere di eventuali conflitti sociali e generazionali o può semplicemente coprire il senso di vuoto che una natura ostile o un tasso di mortalità molto alto possono generare;
  • nel consacrare la supremazia di una realtà sacrale su una naturale, aiuta a gestire la conservazione della cultura di un gruppo sociale o di un popolo in assenza di strumenti di conservazione validi oggettivamente (caso tipico delle culture orali).

Ma torniamo al nostro eroe. Nell’antichità la vita dell’eroe, quali che siano le sue specifiche caratteristiche, come ci evidenziano i testi letterari che ne parlano (da Omero a Pindaro a Virgilio), nella stragrande maggioranza dei casi sfuggiva alle regole di base della vita dei mortali; 8) fin dalla sua nascita, che poteva essere divina o comunque prodigiosa, ma mai normale come quella delle persone in carne e ossa: per esempio Gilgamesh, l’eroe della grande epopea religiosa sumero-babilonese, ha per padre un incubo (“lilla”), per due terzi dio e per un terzo uomo; Eracle risulta figlio di una mortale (Alcmena) e di un dio (Zeus); Bellerofonte ha due padri, uno umano (Glauco) e uno divino (Poseidone); come Cristo, figlio di Dio e di una donna mortale, Maria, affidato poi alla paternità “putativa” di Giuseppe, marito di Maria, che comunque l’aveva concepito da vergine; Enea è figlio di Anchise, un mortale, e di Afrodite, una dea; Perseo nasce da Danae fecondata da una pioggia d’oro cadutale in grembo dal tetto della cella in cui il padre Acrisio l’aveva rinchiusa; lo stesso Alessandro Magno, personaggio storicissimo, per farsi considerare di stirpe divina e per alimentare anche da vivo il suo culto, ricorre all’espediente di proclamarsi in Egitto figlio di Zeus Ammone.
E se anche la nascita non offre particolarità spettacolari, qualcosa di straordinario si ravvisa nei primi giorni di vita dell’eroe: Edipo viene abbandonato agli elementi naturali poiché il padre Laio aveva avuto preannunziato dall’oracolo di Delfi che sarebbe stato ucciso dal proprio figlio; Mosè, dopo la nascita, viene abbandonato sulle rive del Nilo per sfuggire all’eccidio degli infanti di Israele voluto dal faraone; stessa sorte tocca a Romolo e Remo per sfuggire alla morte decretata da Amulio, dato che vengono allevati dalla famosa lupa capitolina. In tutti i casi l’eroe sfugge comunque alla morte e questo “abbandono alla natura appare un’ulteriore conferma della sua origine e del suo valore “universali”. 9)
L’eroe deve passare poi durante la prima infanzia o dinanzi alle soglie dell’età adulta attraverso una prova o una serie di prove che si configurano come forme di iniziazione “per essere riconosciuto per ciò che è”: 10) Eracle soffoca ancora in culla due serpenti mandati da Era per ucciderlo; Ulisse, ancora ragazzo, uccide un cinghiale come prova della sua valentia; Sansone squarcia invece un leone come fosse un capretto; Davide uccide il gigante Golia; Teseo a sedici anni sposta, come era stato istruito, quella roccia che celava i suoi segni di riconoscimento, una spada e dei sandali, e li porta ad Atene sgominando strada facendo una banda di briganti; Cristo bambino viene adorato dai Magi e, da giovinetto, predica nel tempio tra i saggi. L’eroe, attraverso queste prove, diviene conscio della sua natura e attraverso questi autentici “riti di passaggio” mostra a tutti il suo carattere di eroe, introducendosi nel successivo clima mitico delle sue imprese.
È interessante notare che talvolta l’eroe, consapevole della sua eroicità attraverso questa iniziazione, si ritira dalla vita attiva per trascorrere in solitudine un periodo di raccoglimento e di critica interiore, in certo senso per “auto-confrontarsi”: Achille giovinetto viene istruito dal centauro Chirone e Alessandro da Aristotele; mentre Mosè si ritira sul Sinai a meditare e Cristo nel deserto per pregare rimanendo lontano dale lusinghe di Satana. Questo chiudersi fuori dal mondo, questo ritirarsi in solitudine o negli studi è il segno di una fase necessaria alla vita dell’eroe affinché questi possa successivamente riemergere alla vita sociale come in una seconda nascita, portando con sé un alone fatale che rivestirà poi le sue successive imprese.
Questo periodo segna per l’eroe anche il rifiuto di un’esistenza normale o il rifiuto di beni o di una potenza materiale: Achille, posto di fronte alla scelta tra una vita lunga ma oscura e una breve ma gloriosa, rifiuta la prima ben conscio della morte vicina che sceglie; Cristo, nonostante le tentazioni di Satana che gli offriva “tutti i regni del mondo e le loro glorie” 11) solo se l’avesse adorato, lo scaccia via da sé conscio della sua vicina morte terrena perché il suo regno è nei cieli.
A questo punto l’eroe è pronto per le sue imprese, e le sue azioni saranno dettate da una sorta di vocazione: Teseo uccide il Minotauro; Giasone conquista il vello d’oro; Sansone libera Israele dai filistei; Achille rende possibile col duello vittorioso su Ettore la vittoria achea sui troiani; Mosè guida il suo popolo verso la terra promessa e gli dà le leggi divine ricevute da Dio; Enea congiunge il destino dei troiani scampati all’incendio di Ilio al suolo italico; Alessandro sottopone a sé il mondo e i popoli; Cristo sconfigge Satana e redime il mondo dal peccato originale.
In un modo o nell’altro l’eroe è artefice di un rinnovamento del mondo, ed è grazie alle sue imprese che il mondo vede aprirsi davanti a sé una “nuova tappa che talvolta è una nuova organizzazione dell’universo”, e in questo l’eroe conserva quello che in altre parole può essere definito “il retaggio demiurgico dell’essere superumano”. 12)
Tuttavia l’azione principale dell’eroe rimane anche “la vittoria sul mostro dell’oscurità; è il trionfo sperato e atteso della coscienza sull’inconscio”: 13) Eracle si spinge fino ai limiti dell’universo; Teseo insegue il Minotauro nelle profondità del labirinto; Gilgamesh supera l’impedimento di esseri metà uomini e metà scorpioni e, dopo un viaggio nell’oscurità e attraverso il mare della morte, raggiunge l’immortale Utnapistim; Ulisse, come Enea, scende nell’oltretomba per conoscere il suo destino, e così Eracle; mentre Cristo vi discende per preparare la sua vittoria finale ed eterna sulla morte con l’ascesa in cielo. E questa “catabasi”, questo discendere nell’aldilà, secondo Leeming può rappresentare un secondo ritiro dalla vita “in preparazione di una rinascita che sarà insieme reale e simbolica”. 14)
La morte dell’eroe, quindi, anche quando avviene è solo apparente; giacché, se molti eroi muoiono, e in genere di morte non naturale (Sansone suicida con tutti i filistei, Agamennone ucciso da Egisto, Ettore in duello da Achille e Achille stesso colpito al suo punto debole – il tallone – da Paride, Cristo in croce, eccetera), purtuttavia essi rimangono all’interno delle loro culture eterni e divini, meglio ancora se il loro destino ultimo è la “non-morte”: Ulisse riparte da Itaca ponendosi nuovamente sul mare verso universi sconosciuti; Menelao viene rapito sull’isola dei beati, come Romolo che viene rapito in cielo; Mosè scompare sul Sinai e nessuno ne conoscerà mai la tomba; Cristo ascende al cielo ricongiungendosi con Dio Padre.
In un modo o nell’altro l’idea della morte come annullamento viene sconfitta e il ritorno dell’eroe nell’antichità, se non avviene già nel mito, si acquista con l’apoteosi. A livello psicologico tutto ciò sta a rappresentare “il culmine di quel processo di autorealizzazione o di individuazione che produce l’uomo ‘totale’”. 15)
Ed è per questa ragione che l’eroe nelle culture antiche veniva, già in vita o dopo la morte, fatto oggetto di culto; soprattutto nella mitologia greca assistiamo a un particolare tipo di culto dedicato all’eroe, che si concentra in genere intorno alla sua tomba. Esistono eroi a cui si attribuivano nell’antichità più di una tomba, e ciò per giustificarne evidentemente il culto in diverse città; in questi casi “fin tanto che queste tombe erano centri di culto strettamente locali, non costituivano un problema; ma, divenute note al di fuori della città, davano origine a discussioni sull’autenticità dell’una o dell’altra (e quindi anche ad alterazioni, a fini polemici, delle singole varianti del mito della morte dell’eroe”; 16) mentre invece esistono eroi a cui si negava esplicitamente l’esistenza della tomba (Ippolito, quindi, come Mosè).
Tuttavia appare appunto la tomba il centro del rituale eroico, 17) con riti evidentemente interconnessi con quelli dei morti, e questo a differenza del culto riservato agli dèi, che invece non era localizzato su una loro specifica tomba. Fu da questo che Erwin Rohde trasse le sue conclusioni per la formulazione della teoria secondo la quale il culto degli eroi, come quello dei morti, sarebbe sorto da una “generalizzazione” di un culto originariamente dedicato solo a personalità eccezionali, come i re micenei dell’Iliade. 18)
Questo legame tra eroi greci e rituali religiosi non deve però dare adito a facili generalizzazioni. Non possiamo infatti ipotizzare che da essi sia poi sorta quella vasta congerie di miti che hanno per protagonisti gli eroi antichi, 19) giacché “è semplicemente falso che i miti siano sempre associati ai rituali, tanto meno curiosamente identici a essi”. 20) Questo ci riporta in un certo senso al problema di partenza, in quanto la presenza di narrazioni mitiche nelle quali siano protagonisti o comunque presenti figure eroiche non è solo una prerogativa della cultura greca, anche se la maggior parte delle testimonianze in tal senso, come abbiamo appurato, appartengono proprio a quell’area culturale. Il mito dell’età micenea è comunque in qualche modo collegato col mito mediterraneo o babilonese, come avverrà poi con quello romano, sia delle origini che dell’età di Augusto, e poi successivamente con il diffondersi del cristianesimo, con l’agiografia dei santi e i pellegrinaggi presso i santuari dove saranno custodite le loro tombe o le loro reliquie per la venerazione popolare.

L’evoluzione della figura dell’eroe nel medioevo

Con l’accenno all’agiografia dei santi cristiani siamo così giunti al periodo medievale, che appare ancora più complesso di quanto non si possa dire dell’antichità che lo precede, prima di tutto perché dobbiamo considerare come l’uomo medievale non sia un tipo ricostruibile in astratto, forse ancor più di quanto non lo sia quello delle civiltà antiche, sia in relazione ai fatti storici del tempo (l’evoluzione economica e politica, nonché culturale, nei secoli dal VI al XIII), sia in relazione allo spazio fisico (la sua nascita in Toscana piuttosto che nelle Fiandre o in Catalogna o nel Palatinato).
Il contesto di appartenenza diviene, in questi secoli, elemento di ancor maggiore differenziazione rispetto all’uomo dell’antichità, anche per due ordini di ragioni assai importanti: da un lato l’alto tasso di mortalità infantile e la conseguente breve durata della vita media degli individui; dall’altro l’enorme difficoltà degli spostamenti da un sito all’altro a causa della carenza delle reti viarie, spesso andate in rovina rispetto al passato o impraticabili a causa delle bande di ladroni, o a causa della stessa parcellizzazione amministrativa e politica dei territori un tempo imperiali, divenuti spesso un continuo susseguirsi di confini. 21) Eppure rimane in noi un qualche modello inconscio di rappresentazione dell’uomo medievale.
A legittimare tale evocazione sta il fatto che “il sistema ideologico e culturale in cui egli è inserito, l’elemento immaginario che porta in sé, impongono alla maggior parte degli uomini e delle donne, chierici o laici, ricchi o poveri, potenti o deboli, delle strutture mentali comuni, degli oggetti simili di credenza, di fantasticheria, di assillo”. 22) Gli dèi pagani, per altro snobbati in parecchi periodi della storia antica (nell’età ellenistica e nella tarda età imperiale) cedono il posto in tutta l’Europa, a mano a mano, a un cristianesimo che pesa sulle coscienze degli uomini e che ne opprime il senso di libertà, portando con sé la continua e immanente sensazione del peccato, che si impone anche in quei territori dove il paganesimo tenta di sopravvivere all’evangelizzazione dei predicatori, spesso resa coatta sulla popolazione dai signori e dai regnanti locali solo per motivi estranei a una reale loro conversion teologica.
Pian piano, dove il cristianesimo si impone, possiamo quindi ben dire che l’uomo del medioevo vive con l’incubo del peccato, dato che nel suo universo culturale trova solo segni premonitori e apparizioni continue: sono i vizi della sua possibile libertà che egli deve sempre scacciare da sé come tentazioni del diavolo; sono gli animali del suo mondo e quelli del suo immaginario, allegorie continue che rimandano a un sottoinsieme di strutture che egli deve conoscere e decodificare continuamente per non cadervi vittima; sono i segni della sua non-cultura, gli interventi soprannaturali che egli deve saper riconoscere, in quanto miracoli, distinguendoli da quelli che sono invece portenti di Satana; sono le figure di una nuova mitologia (unicorni, draghi, animali con il corpo metà di quadrupedi e metà di uccelli, serpenti giganteschi) rappresentate perfino nei capitelli dei chiostri delle chiese (tuttavia all’esterno di esse, in quanto figure diaboliche impossibilitate a fare il loro ingresso al loro interno); ma sono persino i numeri, sulla cui esotericità ci sarebbe da scrivere un libro monumentale…
Insomma, è come se quest’uomo non potesse accettare la dimensione naturale della realtà e, nel cercarne un’interpretazione alternativa, fosse sempre in bilico tra inganno ed errore: ignoranza e superstizione, creduloneria e rassegnazione sono i quattro angoli di un quadrilatero all’interno del quale sta il cristianesimo nella sua accezione di cultura immanente (ante rem, in re e post rem), dominio assoluto delle coscienze e archetipo collettivo di una visione del mondo che nei secoli medievali spesso legati al caos della storia non concede deroghe e non ammette illusioni alternative. E quindi si può facilmente affermare che in un mondo di analfabeti, nel quale gli unici a saper leggere e scrivere, fino agli anni della nuova urbanizzazione del ‘300, sono i chierici, la suddetta situazione è semplicemente ovvia: la parola è il portento, la parola è la verità, la parola è la realtà tutta. D’altronde, lo stesso Cristo non è “il Verbo incarnato”?
La Chiesa e i religiosi del medioevo sono ben coscienti del loro potere; a loro tocca la responsabilità di copiare, nel chiuso dei loro monasteri e delle loro abbazie, quanto della cultura antica appare in linea con gli insegnamenti cristiani, o quanto meno non in opposizione a questi, e così andrà perduto un patrimonio inestimabile di manoscritti antichi non in linea con la cultura e la religiosità del tempo.
La ragione è semplice: a loro tocca il compito di aiutare l’uomo comune a interpretare i segni della realtà, dato che a causa della sua ignoranza egli non sarebbe in grado di farlo autonomamente (e questo rafforza terribilmente la sua dipendenza dai chierici). Agli uomini di chiesa tocca quindi far uso della parola per ammaestrare e per convincere, per suscitare emozioni e repulsioni; essi sono i detentori del potere, perché anche gli imperatori (come Carlo Magno) per legittimare la loro autorità vi si devono sottomettere. Le loro cattedrali gotiche, dalle guglie altissime e dai pinnacoli mirabolanti, sono il segno di questa loro precipua missione: unire l’uomo a Dio, dandogli chiaramente la giusta sensazione della sua pochezza.
Tutta l’architettura del sapere è quindi, in un modo o nell’altro, nelle mani dei chierici ed essi sono gli unici intellettuali organici di tutto il medioevo. Senza di loro il medioevo non si può spiegare; senza di loro, anzi, il medioevo non esiste. E non esistono nemmeno l’ordine e la gerarchia che ne sono le pietre angolari e da cui promanano l’obbedienza nella vita sociale (principio cardine del feudalesimo e anche degli ordini religiosi) e la gerarchia sia nella vita sociale sia nella cultura, con la preminenza della teologia sulle altre discipline, arti e scienze.
Per queste ragioni non si può perdere mai di vista il peso che il cristianesimo ebbe nei secoli medievali sia prima sia dopo l’anno Mille, anche se il mutato atteggiamento mentale sull’uomo e sulla realtà dovette essere assecondato dagli uomini della Chiesa che, tuttavia, tentarono di non perdere mai la leadership della società; finché fu lo stesso sistema socio-culturale a crollare sbriciolando i dogmi e le allegorie surrettizie. Con questo arriviamo a Dante e con lui siamo alla fine del medioevo.
Ma appare comunque chiaro che la visione mitopoietica della realtà che aveva accompagnato tutta quanta l’antichità (particolarmente in Grecia e a Roma) non cessa, ipso facto, con la caduta dell’Impero Romano e con la demolizione dell’impalcatura su cui poggiava la religiosità pagana; semmai muta e si evolve, ma senza rinnegare alcune delle strutture più consolidate. D’altronde, fu proprio il cristianesimo, nei secoli in cui si impose sul paganesimo, a sfruttare alcune delle impalcature logiche degli antichi culti per vincere lo scetticismo delle popolazioni locali e conseguire la vittoria definitiva; e fu sempre il cristianesimo che riuscì a piegare i nuovi dominatori dell’occidente (vandali, goti, burgundi, franchi, celti, slavi) e a imporsi anche tra loro, ottenendo con ciò un prestigio unificatore della cultura (se non della politica) e, conseguentemente, dei modelli di vita di quella nuova Europa che stava proprio in quegli anni venendo alla luce.
In questo contesto, non possiamo tacere che l’uomo del medioevo vive “per un’altra vita”, e tale atteggiamento mentale spiega le sue scelte, le sue vedute, le sue rinunzie o piuttosto la sua supina acquiescenza alle scelte di altri, di quegli altri che Dio ha posto alla sommità della gerarchia. La visione mitopoietica della realtà nel medioevo nasce proprio da questo; non deriva, come nell’antichità, dal bisogno di spiegare la realtà e di convivere serenamente con quei fenomeni apparentemente inspiegabili che potrebbero causare paure e caos; qui il problema è la prefigurazione della realtà altra, trascendente quella quotidiana ed evidente, in una sorta di inseguimento dei segni che questa realtà ulteriore manda di continuo agli uomini e che essi devono essere in grado di cogliere per dirigersi correttamente lungo il cammino a loro assegnato.
Come afferma Georges Duby, “il mistero è presente in permanenza, visibile, tangibile”. 23)
Questo senso del mistero e del meraviglioso sgorga da oggetti e da persone; prima di tutto dalle persone “sacre”: da un lato il sovrano o l’imperatore, in quanto essi, nel giorno della consacrazione, sono stati impregnati della potenza divina; e dall’altro gli uomini di Dio, vescovi e monaci, dato che essi operano prodigi e miracoli nel nome di Dio per manifestare a tutti la sua potenza. Ecco allora la doppia sorgente dei miti medievali: da un lato le gesta del sovrano e dei suoi uomini fidati, i cavalieri, I quali nel nome di Dio evangelizzano i popoli e combattono gli infedeli; dall’altro i prodigi operati da quegli uomini di Dio che col tempo diverranno i santi, andandosi a collocare in quella nicchia di mezzo tra la divinità e l’uomo che nell’antichità era riservata agli eroi e che adesso spetta loro di diritto (con tanto di culto legato anche a una funzione protettiva su città o su attività umane).
Partiamo proprio da questi ultimi. L’origine dell’agiografia è legata alle “Passiones”, agli “Atti dei Martiri” dei primi secoli (tutte opere il più delle volte anonime), nonché ai “Libri di Miracoli”, composti spesso nei conventi e nelle basiliche, con lo scopo di diffondere il culto dei santi attraverso aneddoti sempre più strani, portentosi e quindi, sostanzialmente, “mitici”.
Tra i primi scrittori di questo genere possiamo citare Aimoino, autore nel IX secolo di una raccolta di “Miracoli” composta in onore di San Benedetto; e di Bernando di Chartres, autore dopo il Mille del Liber miraculorum sancte fidis, da lui offerto al vescovo Fulberto.
Le opere più significative rimangono comunque legate ai nomi di Simeone Metafraste, vissuto nel X secolo, e di Jacopo da Varazze, del XIII secolo. Il primo fu autore in lingua greca del Menologio, una raccolta di centoquarantotto biografie di santi della Chiesa, di cui alcune ricopiate semplicemente da autori precedenti, alcune rielaborate, altre ancora redatte per la prima volta. Il Menologio fu addirittura adottato dalla Chiesa bizantina come testo ufficiale sulla vita dei santi.
La Legenda Aurea di cui fu autore Jacopo da Varazze, vescovo di Genova, è invece il punto di arrivo dell’agiografia medievale in lingua latina; partendo da numerosi “Acta Sanctorum” ecclesiastici, il vescovo Jacopo ordinò le vite di trecentosessantacinque santi seguendo il calendario ufficiale della Chiesa, confezionando le trattazioni precedenti in suo possesso alla luce di una rielaborazione il più delle volte basata su una stupida ingenuità e su una mirabolante fantasia; la fortuna del libro fu tale che ben presto esso fu tradotto in quasi tutti i volgari europei.
Analogie con le figure degli eroi dell’antichità affiorano anche adesso con le vite dei santi elaborate in queste agiografie. È il caso, giusto per fare qualche esempio, di Gregorio Magno, personaggio storicissimo, papa e poi santo, di cui si impossessò ben presto la leggenda. La tradizione ricorda che egli era nato con un parto gemellare dopo un incesto e, poco dopo, era stato depositato sulle rive di un fiume in un cesto. Al motivo edipodeo dell’incesto si aggancia subito, come si vede, quello della nascita gemellare (Romolo e Remo) e ancora l’abbandono alla natura (sempre Romolo e Remo, nonché Mosè).
Analogo calco dal mito edipodeo è quello di San Giuliano il quale, avendo scoperto casualmente che un giorno avrebbe ucciso padre e madre, per sfuggire al suo destino, lascia la propria famiglia e scappa, anche se inutilmente, per terre lontane. Inutile continuare descrivendo prodigi e miracoli, o episodi legati a morti talora tragiche e traumatiche e conseguenti ascese al cielo come novelli Cristi.
Se l’agiografia, con quel misto di creduloneria popolare e di continua sovrapposizione e moltiplicazione di prodigi di ogni sorta, dovuta magari alla sua iniziale fase orale, costituisce una delle due basi della mitografia eroica medievale, quella dei santi, assai più complessa è invece l’altra parte, quella da cui prendono le mosse le gesta dei cavalieri, novelli eroi combattenti, paladini di Dio e braccio armato del loro re o dell’imperatore.
In questo caso, al di là del principio unificatore (il cristianesimo), il mito medievale che li vede protagonisti coglie un’altra serie di sintomi e di prospettive, in particolare riconducibili al problema delle nascenti nazionalità, alle quali si correlano princìpi etici non sempre omogenei. Tristano e Lancillotto, cavalieri di re Artù, così come l’Orlando paladino di Carlo Magno, o il Cid Campeador spagnolo, o lo slavo Igor, incarnano ciascuno la fisionomia del loro popolo, e vivono così le loro avventure sempre in relazione all’etica e alla cultura d’origine.
La Chanson de Roland, al pari delle altre chanson dell’epica europea e indipendentemente dal loro contenuto e dai loro personaggi, acquisisce un valore specifico, storico e religioso, proprio in corrispondenza con quel periodo nel quale la cavalleria si legava programmaticamente alla fede cristiana, impegnata nel grande duello tra la “vera fede” (quella di Dio) e la falsa religione (quella di Maometto) che provava a disgregare l’unità dell’Europa cristiana e a conquistarla dal sud del Mediterraneo. Le vicende narrate in poemi come quello di Orlando servivano a proiettare l’eroismo nazionale in una leggenda dal lontano passato, arbitrariamente assunta a simbolo religioso e nazionale di unità del popolo.
Il racconto mitologico, d’altronde, prosegue nel medioevo proprio attraverso i poemi epici che cantano le imprese degli eroi combattenti per la cristianità; è anche il caso del Cantar del mio Cid, poema incentrato sulla lotta di liberazione della penisola iberica dagli usurpatori musulmani che l’hanno conquistata, sul cui protagonista – Rodrigo Diaz de Bivar – corre veramente molta, troppa fantasia: sia nelle gesta, sia nella proiezione dei fatti storici reali, da un lato la reconquista, dall’altro le lotte per l’unità nazionale spagnola tra le nobiltà ancora divise di Aragona, Navarra, Castiglia, Asturia e Leon.
Ancor più fantastico è un altro ciclo che ebbe enorme diffusione nel medioevo, quello bretone o arturiano, i cui protagonisti furono re Artù e i cavalieri della tavola rotonda (Tristano, Lancillotto, Parsifal, eccetera), paladini solitari e avventurosi le cui gesta furono equamente divise tra amore, lotta ai miscredenti e ricerca del sacro Graal, cioè la coppa con la quale secondo la tradizione Gesù celebrò l’Ultima Cena e nella quale Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue sgorgato dal suo costato trafitto dalla lancia del centurione romano Longino durante la crocifissione.
Anche qui le analogie con la struttura della mitologia del passato appaiono evidenti, per esempio, spesso dopo la nascita, ecco la rivelazione dell’eroe (avevamo visto che l’eroe antico affermava spesso pubblicamente la propria eroicità con un atto singolare, quasi iniziatorio). Ebbene, qualcosa di analogo appare anche nel medioevo: re Artù giovinetto, per esempio, mostra a un certo punto la sua vera origine e la sua regale discendenza estraendo, e conficcando nuovamente nella pietra in cui prima si trovava, la spada che solo il futuro re d’Inghilterra avrebbe avuto, secondo una profezia, la forza di maneggiare. Chi non pensa, in relazione a questo episodio, al grande arco che solo Ulisse era stato in grado di tendere nell’Odissea?
Analogamente, all’opposto possiamo scoprire analogie con l’antica mitologia degli eroi greci e romani al momento della morte: Orlando mentre sta spirando prega Dio di prenderlo con sé, e Dio invia un cherubino dal cielo a raccoglierne l’anima insieme agli arcangeli Gabriele e Michele. Qualcosa di molto simile era accaduto ad Abramo e a Mosè!
Ma molte altre sono le similitudini formali che possono essere ancora ricordate. Si pensi a Tristano che uccide il terribile Moroldo, venuto a pretendere il tributo di giovani vite umane al re Marco di Cornovaglia, come Teseo che uccide il Minotauro per liberare Atene dallo stesso tributo. Si pensi a Sigfrido allattato da una daina, come Romolo e Remo da una lupa, e poi reso invulnerabile tranne che in un sol punto che gli sarà alla fine fatale, esattamente come Achille col suo tallone. Si pensi al bando cui sarà sottoposto il Cid e alle avventure che egli dovrà compiere per ritornare nella sua terra, in analogia alle fatiche che Ercole sarà costretto a sopportare, o al lungo e periglioso viaggio di Ulisse dopo la vittoria a Troia. Si pensi ancora alla ricerca del Graal da parte dei cavalieri arturiani, in relazione alla conquista del mitico vello d’oro da parte di Giasone e degli argonauti. Si pensi allo stesso Dante, autore ed egli stesso protagonista di una sorta di poema epico-religioso, il quale, quasi come un novello Cristo, discende negli inferi e attraverso il dolore e la penitenza giunge al terzo giorno in Paradiso tra i beati al cospetto di Dio. Sono solo alcuni emblematici esempi delle similitudini tra mitologia eroica dell’antichità e mitologia eroica medievale; e tanti altri ancora potrebbero farsene.
Questa nuova mitologia, per quanto diversa da quella classica (per esempio nell’àmbito della magia adesso presente, una magia staccata dai poteri divini, una magia degli incantesimi e delle pozioni magiche più che delle profezie e dei destini irrisolti, come nei miti antichi), ha peraltro con essa collegamenti non certo casuali: nasce in un periodo storico di grandi migrazioni e di guerre etniche (come accade anche in età micenea); si alimenta all’interno di specifiche condizioni spazio-temporali e sulla base di tradizioni soprattutto orali, che solo in un momento successivo diverranno scritte (ciò accade per le passioni e i martìri dei santi, per i canti epici e le chanson de geste così come era accaduto per i poemi degli aedi preomerici); trova terreno fecondo in quella cultura dell’immaginifico e del soprannaturale che, per i greci e per i romani, così come per le popolazioni latine e germaniche del medioevo, ha specifiche correlazioni con l’area della sacralità e della gerarchia; si esaurisce o perde il suo significato prettamente mitologico, infine, allorquando a una concezione della realtà come universo di fenomeni inspiegabili e strani si sostituisce una visione laica e scientifica della realtà stessa, in cui l’uomo ridiventa il centro e il cuore pulsante dell’universo.

L’Ercole di Piero della Francesca.

Non per nulla gli umanisti del ‘300 e del ‘400, che prepararono il rinascimento, si rifanno proprio alla classicità, recuperando da questa i modelli ideali, e primo tra tutti quello dell’uomo, in cui l’universo (e quindi anche Dio) si immagina rispecchiato e a cui l’universo (e quindi anche Dio) in un certo senso rimandano.

L’età moderna e le nuove figure di eroi

L’Europa del tardo ‘300 non è già più, in alcune aree d’Europa, quella medievale: i valori culturali su cui la società medievale si era basata, grazie soprattutto all’elemento coagulante del cristianesimo, cominciano infatti pian piano a venire sostituiti da nuovi atteggiamenti mentali e da nuove prospettive di studio e di interesse; e anche la tradizionale ripartizione sociale dei secoli precedenti (nobili, cavalieri, altri) finisce con lo scricchiolare sotto il peso di una rinnovata mentalità, più aperta e laica, alimentata dal nuovo urbanesimo imperante che porta con sé i fermenti della giovane classe borghese.
D’altra parte, le nuove prospettive economiche dovute alla ripresa dei traffici commerciali, alla circolazione di merci e di denaro e al sorgere di nuove professioni, che fanno a loro volta da volano economico alla produzione e al successivo utilizzo di quantità sempre maggiori di beni, oltre che insidiare l’ordine costituito (o presunto) della società medievale, producono a loro volta i germi che alimenteranno la crisi delle istituzioni passate: la Chiesa e l’Impero.
Dante forse è l’ultima grande figura di intellettuale che guarda ancora a queste due istituzioni come ad àncore di salvezza del mondo, speranzoso che ciascuna di esse torni a far risplendere la sua luce-guida sulla società, in quanto la sua concezione storico-politica rimane ancorata al passato. Ma le cose mutano già con gli intellettuali della generazione successiva, che non esiteranno in molti casi a lasciare da parte questioni “universali” come questa per interessarsi alla nuova concezione della storia, della società e della cultura che proprio tra il ‘300 e il ‘400 inizia a configurarsi, nella quale la rinnovata affermazione dell’uomo e dei valori umani nei vari campi si aggancerà alla riscoperta (o meglio alla “scoperta”) del mondo classico, esempio e simbolo di ogni ideale perfezione.
La nuova concezione del mondo e della vita, che si irradierà a mano a mano in tutta l’Europa, ha come centro propulsore originario soprattutto alcune città-stato dell’Italia centro-settentrionale nelle quali i vari intellettuali (artisti, letterati, giuristi) saranno chiamati a svolgere quella renovatio ideologica che i mercanti e gli artigiani attueranno, concretamente, nella vita economica e sociale e che le nuove figure di principi illuminati (i Medici a Firenze, gli Sforza e i Visconti a Milano, gli Este a Ferrara, i Gonzaga a Mantova, i Malatesta a Rimini, i Montefeltro a Urbino, eccetera) renderanno possibile dal punto di vista politico con la creazione delle loro corti, nate sull’esempio di quella di Federico II nella Palermo del ‘200, che tuttavia ebbe breve vita e che rimase a lungo inimitabile.
Il rinascimento è, in effetti, proprio questo: una svolta rispetto al vecchio sistema di equilibri e di idee e un tentativo di ricreare nella società, così come nella cultura, nell’arte come nella politica, un modello assoluto e ideale di equilibrio e di perfezione, per altro opportunamente mitizzato: quello classico.
Lo studio della classicità, dopo le esperienze dei cenacoli dei primi umanisti fiorentini come Francesco Petrarca, Coluccio Salutati e Lorenzo Valla, oltre a essere rivolto alla ricerca filologica dell’antichità, con la rinascita anche della lingua latina come lingua comune agli intellettuali europei, finì col proporre e definire dei modelli e dei canoni imitativi, con tanto di regole e di norme, dall’applicazione dei quali dipendeva la possibilità di raggiungere l’eccellenza propria degli antichi. Ma non è tutto. Pur partendo da una concezione estetica dettata dall’ammirazione per l’insuperabile perfezione del passato greco-romano, questa visione della classicità finì col produrre anche alcune conseguenze d’ordine più generale: anzitutto una concezione del mondo classico nel suo insieme, con le sue ideologie e tutti i suoi miti, come una sorta di “religione” sostanzialmente alternativa rispetto al cristianesimo, anche per via della sublimità spirituale della relativa concezione filosofica; in secondo luogo, una ancor maggiore dicotomia tra la normale concezione della vita sociale e quella aristocratica di corte, all’interno della quale, e soltanto lì, gli ideali di perfezione e di eleganza classici potevano avere un senso.
Tutto ciò può sembrare un controsenso, dato che la classe emergente di tale periodo è la borghesia; ma, ad analizzare bene le cose, ci si accorge che non lo è, e lo dimostra il tentativo, sempre più accentuato nel ‘500 e poi nel ‘600, di avvicinamento della parte più ricca della borghesia commerciale e mercantile agli ideali di vita degli aristocratici. Un avvicinamento reso possibile in alcuni casi da fattori economici, come per esempio i rapporti d’affari e i prestiti accordati ai principi e ai monarchi europei sempre più a corto di finanze proprie a cause delle continue guerre, in altri casi da alleanze economico-militari, come a Milano quella dei Visconti e degli Sforza, o da vincoli matrimoniali, che talvolta servivano anche a chiudere contenziosi finanziari nati da quelli che oggi chiameremmo crediti incagliati.
Questi ideali di renovatio classica dall’Italia si diffusero rapidamente in tutta Europa dando vita a svolgimenti particolari in ciascun Paese. Particolarmente importante fu il classicismo francese sviluppatosi tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘700 grazie anche alla stabilità della corona. Altrettanto importante fu quello spagnolo, anche per le conseguenze politiche che ebbe in mezza Europa (Italia compresa), anche se, a causa della grande frattura ideologica e religiosa dovuta alla riforma luterana e alla successiva controriforma cattolica, il ritorno all’antico da questo momento si definì per gli Stati rimasti fedeli all’ortodossia della Chiesa di Roma nei termini di una concezione estetica esasperata e vuota: quella del manierismo e del successivo misticismo barocco.
Un discorso a parte – anche in relazione alle dinamiche teologiche che alimenteranno le Chiese riformate del nord Europa e alle refluenze che queste avranno nella vita sociale delle relative popolazioni – meritano le vicende storiche che avranno come protagoniste le Fiandre e la Germania settentrionale con la Lega Anseatica, che espanderà la sua influenza e il potere commerciale della ricca borghesia commerciale nord-europea su tutte le coste del Baltico e del Mare del Nord, provocando uno sviluppo alternativo della cultura filosofica e scientifica dei Paesi interessati.
Il rinascimento italiano tuttavia avrà il grande merito di avere dato per primo, storicamente, una scossa decisiva all’intelaiatura gerarchica del sapere medievale dell’Europa; e la realizzazione di una concezione filosofica indipendente dalla teologia non solo farà da humus proprio alle controversie teologiche di Lutero, di Calvino e degli altri riformisti, ma rimarrà ad animare le menti dei maggiori intellettuali europei anche di area cattolica in pieno ‘600. Questo comporta da un lato una progressiva specializzazione del sapere rispetto all’enciclopedismo precedente, e dall’altro una certa autonomia dell’arte e delle lettere dalla storia e dal pensiero concreto. In questo contesto la teologia cesserà di essere alla base di tutte le altre discipline, nonostante i tentativi della Chiesa di Roma di bloccare ancora i tentativi di sdoganamento della scienza dall’obbedienza alle regole imposte dalla dottrina (il processo a Galileo è una delle maggiori testimonianze di tale tentativo, destinato comunque a naufragare ben presto).
Per quanto riguarda le lettere e le arti, sarà questa tendenza autonomistica della letteratura ad avere la responsabilità di tenere in vita, anche in un periodo nel quale inizia ad affermarsi – pur con tutte le difficoltà che abbiamo visto – il pensiero scientifico, una concezione mitologica ormai lontana dalla realtà, che altrimenti apparirebbe del tutto inutile. Il mito, infatti, perdendo ogni possibile aggancio alla sfera del sacro e abbandonando, d’altro canto, ogni caratteristica di visione mitopoietica della realtà, con il protagonismo dei suoi nuovi eroi a partire dal ‘400 finisce con l’assumere la funzione di gioco, di scherzo letterario, di convenzione di buone maniere e di regole ideali di comportamento, in un progressivo e costante allontanamento dalla realtà della storia non solo passata ma anche contemporanea.
Come dire che da questo momento, al di là dei trattati scritti dagli scienziati, la letteratura avrà per qualche secolo una vita indipendente da tutto il resto.
Come spiegare, se non perché legati a un pubblico colto di cortigiani effettivamente lontani dal mondo reale, la sfilza infinita di poemi epici cortesi nella letteratura italiana di questo periodo? Si pensi a Pulci (Il Morgante), a Boiardo (L’Orlando innamorato), ad Ariosto (L’Orlando Furioso), a Tasso (La Gerusalemme liberata), opere tutte legate a una novella mitologica eroica che tuttavia ben poco ha a che vedere con quella dell’età classica. Come spiegare altrimenti il ricorso a elementi vuoti e formali, come quelli anche ripresi dalla mitologia pagana, per adulare i principi? Si pensi a Le Stanze del Poliziano o all’Aminta del Tasso.
Questo significa solo una cosa: che aumenta la frattura tra una società attiva e borghese da un lato e dall’altro una casta sempre più chiusa nei suoi nobili svaghi, una casta di persone schiave d’un passato talvolta decaduto ma ancor più, forse per questo, attaccate al rispetto delle “maniere” e delle forme, spinta a non guardare il vero della realtà ma a sognare questa realtà attraverso il mito del bon ton e della fantasia.
Eppure il periodo che va dal ‘400 al ‘600 non è solo questo; è il periodo delle grandi scoperte geografiche, per opera di Colombo, di Vespucci, di Vasco de Gama. È il tempo che vede anche il sorgere di una cultura politica di carattere “scientifico”, grazie a Machiavelli e Guicciardini, oltre alla nascita di una scienza della natura separata non solo dal potere soffocante della teologia, ma anche da quello non meno velleitario della magia e dell’alchimia, grazie a personaggi del calibro di Galilei, Newton, Copernico o Bacone.
Anche se, parimenti, come abbiamo già detto, è anche quello del sorgere delle contestazioni teologiche e religiose di Lutero, di Calvino e, prima ancora, di Erasmo da Rotterdam; con la conseguente chiusura a riccio della Chiesa di Roma e del suo maggiore alleato, la corona di Spagna, in difesa di una civiltà morente ed esausta.
Anche sotto la coltre che a metà del ‘500 viene stesa su tutto quanto è nuovo e non in sintonia con le direttive cattoliche, sorgono nuovi fermenti e nuove idee: sono legate ai missionari che invadono il nuovo mondo in un’immane opera di evangelizzazione, sono legate al grande sforzo di coesione politica in Europa attorno alle più importanti casate reali, avvenimento basilare per capire la nascita e la successiva espansione delle grandi monarchie nazionali. Da qui nasce l’Europa moderna, un’Europa che sarà pure divisa tra cattolicesimo e riforma, ma comunque un’Europa più viva e senz’altro più attiva di quella passata, pronta a conquistare e a “civilizzare” i nuovi mondi che si schiudono attorno a essa: dall’Asia all’America e infine all’Australia.
Ma questa Europa così divisa (in blocchi tra potenze diverse, tra cattolici e riformati, tra una classe egemone al potere senza alcuna giustificazione pragmatica rispetto a una borghesia sempre più ricca ed emancipata) porta con sé anche il seme della rivoluzione, dell’esplosione improvvisa della crisi istituzionale, del sovvertimento di un ordine astrattamente costituito sulle spalle di chi avrebbe diritti ma invece deve subire senza protestare.
Tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700, l’Europa vedrà accendersi la crisi di questa concezione a un tempo classicista e ideale, quindi inamovibile della storia, e il trauma della rivoluzione francese non farà che palesare i nuovi standard di razionalità, di uguaglianza e di libertà per tanto tempo compressi: l’illuminismo spazzerà via le ultime incrostazioni culturali dell’antichità… anche se sarà per un certo verso una vittoria di Pirro. La vittoria della ragione, che è una vittoria della borghesia attiva, colta e arricchita, e non certo del popolo analfabeta e minuto, sull’oscurantismo di una classe aristocratica e clericale tutta protesa a difendere le sue prerogative e i suoi privilegi, favorirà e promuoverà un complicato sistema di riforme in campo politico ed economico e genererà alla fine una letteratura e un’arte diverse dal passato, legate alla storia, ai fatti e quindi per ciò stesso in cosciente opposizione con quanto di astorico e ascientifico, come la mitologia, era ancora sopravvissuto dall’antichità e dal passato anche prossimo.
Una volta prodotta, questa scintilla di rinnovamento non si fermerà più e produrrà i suoi effetti anche nell’800, con quel risorgimento dei popoli oppressi che avrà sviluppi analoghi all’illuministico risorgimento delle classi oppresse. Dalla ragione, tanto cara agli illuministi, nascerà lo spirito e l’idea, cioè il focolare della storia; ma non sarà un ritorno indietro, semmai una nuova spinta propulsiva verso il futuro a noi più o meno contemporaneo.
Dunque, da un lato la mitologia pare sopravvivere ancora alle corti del rinascimento e presso quelle delle grandi monarchie d’Europa dei secoli successivi, anche se in effetti essa era già morta nella sua natura intrinseca negli ultimi secoli del medioevo; e quando pure, con le prime istanze romantiche dell’800 si cercherà di farla sopravvivere dandole nuova linfa, sarà per un tentativo scientifico, quindi affidato ai filologi e non ai poeti.
Cio nonostante, in tutti secoli dal XV al XIX esiste un mondo di eroi che vive e pulsa freneticamente anche senza una esplicita mitologia (sacra o letteraria) che gli faccia da contesto ideologico; è un mondo di eroi reali, personaggi storici e precisi, che si contrappone proprio agli eroi-zombi degli ultimi poemi mitologici (come il redivivo Orlando di Boiardo e Ariosto), con una coscienza specifica del proprio ruolo sociale.

Monumento di Donatello al Gattamelata.

Appartengono a questo nuovo universo eroico principi e condottieri come Lorenzo il Magnifico, il Gattamelata, Giangaleazzo Visconti, Filippo II di Spagna o lo stesso Re Sole, Luigi XIV di Francia, protagonisti di quel processo di identificazione Stato-persona teorizzato da Machiavelli e da Hobbes, che condurrà alle estreme conseguenze il riconoscimento dell’uomo come principio e motore ideale del mondo, in netta contrapposizione ai dogmi religiosi del medioevo. Ma anche figure eroiche per eccellenza come i grandi navigatori, da Colombo a Vasco da Gama, I quali nell’accingersi a compiere le loro epocali traversate oceaniche (a bordo, ricordiamolo, di imbarcazioni strutturalmente deboli per un mare aperto e sconosciuto), sapevano che avrebbero sfidato non solo le forze della natura, dai venti alle tempeste, ma anche le forze mirabolanti dell’ignoto (raffigurate nelle prime carte nautiche come mostri, draghi, sirene, eccetera). Ma, novelli eroi e indomiti ideali figli dell’antico Ulisse, essi affrontavano ugualmente il mare convincendo a seguirli una ciurma composta da altrettanti eroici e spavaldi avventurieri.
A queste figure principali possiamo aggiungere altre nuove figure eroiche come quelle dei missionari, per esempio Cortés e i tanti gesuiti che invadono l’America o l’Oriente in nome di Dio distruggendo le culture dei nativi, ma che spesso subito dopo la morte furono in gran fretta santificati dai papi che sedevano sul soglio di Pietro per rafforzare ancor di più la “missione” dei conquistatori cattolici rispetto alle insidie delle Chiese riformate. O figure di uomini di scienza, come Leonardo o Paracelso, precursori a loro volta di scienzati come Cartesio, Bacone e Keplero. O infine figure di eroi rivoluzionari, da Voltaire a Garibaldi, eredi dei ribelli medievali come Robin Hood o Ghino di Tacco, ma capaci di agire, a differenza dei loro antenati, avendo in mente un vero e proprio progetto politico, con l’obiettivo di attuare una strategia in grado di scardinare l’ordine precostituito di uno Stato e fondare un diverso equilibrio sociale, economico e politico.
Ciascuna di queste nuove figure eroiche, acclamata da folle in cerca di una guida, è comunque una persona fisica, storicamente esistita; ma rappresenta tuttavia un simbolo, la figura di un nuovo uomo, un uomo “esemplare”, quindi l’emblema di un presente che non guarda più indietro ma avanti, in una nuova concezione di progresso che è sconosciuta anche al tardo medioevo e al primo rinascimento. In questo sta la nuova concezione eroica dell’età moderna, che è poi una concezione storicissima e conflittuale, fatta di esaltazioni e di processi, come per Galilei, fatta di onori e di povertà, come per Colombo o Leonardo; un’eroicità dovuta non più alla sopravvivenza della mitologia nella letteratura, ma a qualcosa che rassomiglia tanto a quella che noi oggi definiamo “propaganda”: non si dimentichi il peso che avrà l’invenzione e la massiccia diffusione in tutta Europa della stampa.
Siamo quindi di fronte a una dinamica diversa della storia che, una volta affermatasi, nemmeno la controriforma riuscirà a scalfire; e proprio per tale motivo questi eroi moderni non hanno caratteristiche formali tali da costituire uno standard comune, perché appunto non sono “personaggi” ma “persone” vere e vive che vivono la loro esperienza di vita e di azione in un contesto che non è più universale ma particolare, e che dunque ha senso solo se riconosciuto nella sua peculiarità e all’interno di un determinate gruppo sociale e di una specifica cultura.

Il posto degli eroi nella società contemporanea

Abbiamo già avuto modo di osservare il fenomeno della “demitizzazione” della realtà sociale e culturale dell’occidente dopo il medioevo, inquadrando, per quanto ovvio, il concetto di mito all’interno delle relazioni tradizionali con il mondo del sacro, con quello storico e letterario.
A partire dal ‘900, complice anche il grande conflitto mondiale che insanguina tutta l’Europa post-romantica (con i suoi eroi nazionali) e poi il secondo conflitto che pone una cesura netta col passato storico dell’occidente, si assiste senz’altro al persistere e all’accentuarsi, via via in modo sempre più accelerato, di questa demitizzazione, da intendersi nel senso ancora più ampio di “desacralizzazione” del reale. La progressiva laicizzazione della sfera individuale e sociale, infatti, è il prodotto di una società iper-industrializzata e iper-terziarizzata, nella quale si ha sempre meno tempo per pensare a Dio e finanche per avere un’idea pur vaga della sacralità (cosmica o naturalistica o antropologica).
Se dunque in molti casi non si ha più alcun rispetto “sacro” della vita umana e della natura, portando alle estreme conseguenze questa concezione (si pensi ai lager nazisti e poi a quelli staliniani), si arriva all’eccesso di considerare “sacre” le proprie ferie e i propri diritti – sul lavoro o nella società – e di cadere nell’adorazione di idoli trasformati quasi in “divinità” che col sacro nulla hanno a che fare, come il denaro, la carriera, il prestigio o il potere, attraverso anche un repertorio feticistico che ne rappresenta e ne sostanzia l’istituzionalizzazione: dall’autovettura di lusso alla barca, dalla casa al mare al prodotto di elettronica di ultima generazione, e così via.
Questa serie di fenomeni sociali, che in un modo o nell’altro interessa un po’ tutti e che anche noi viviamo talvolta senza rendercene conto, costituisce qualcosa di ancora più perverso rispetto allo “impoverimento simbolico di quelle immagini che tutta una tradizione iconologica ci aveva abituato a ritrovare cariche di profondi significati sacrali” di cui ci parlava anni addietro Umberto Eco 24) quando faceva riferimento alla demitizzazione del mondo contemporaneo: il suo tempo non era ancora il “nostro” tempo, ma già Eco avvertiva i nuovi pesanti condizionamenti che stavano intaccando i valori più profondi della società occidentale nella seconda metà del ‘900 agendo verso un insieme di falsi valori, ancor più evanescenti se messi in relazione al carattere “liquido” della società di cui Zigmund Bauman è stato il massimo analista a cavallo tra il secolo scorso e il nostro.
Oggi in occidente non solo non vi è sovente più posto per un’idea di Dio, ma oltretutto è anche vero che quel sistema di valori etici e sociali sui quali la vita delle generazioni passate si era basata (il senso della “cavalleria”, l’onore e il rispetto, persino il culto perbenistico della “forma”) è andato per molti versi in cocci; e, cosa forse ancor più grave, quella serie di relazioni socio-culturali, che un tempo furono esclusive della tradizione mitologica e di una concezione religiosa o comunque (in senso lato) sacra, è stata adesso piegata a esigenze diverse, che poco o nulla hanno che fare con tali tradizioni e che ancor meno risentono delle regole di un’etica socialmente accettata e apprezzata.
Un esempio tra tutti è quello della pubblicità, che ha molte volte utilizzato modelli iconografici e comunicativi tratti da un repertorio prettamente mitografico; come nel caso dell’aranciata “X” la cui pubblicità, riflettendo il ricordo degli antichi culti solari, è realizzata partendo da una arancia tagliata in due e tramutata in un sole che irradia dei suoi raggi la natura intera; oppure quella del detersivo multi-uso per la casa nella quale, facendo esplicito riferimento a una tradizione favolistica orientale, il genio che scaturisce da un flacone di detersivo in quattro e quattr’otto fa le pulizie di casa a una casalinga che ne rimane allibita e compiaciuta.
Tuttavia anche una società siffatta – per quanto lontana da una cultura mitologica alla quale agganciare tali nuovi-vecchi modelli e tali nuovi-vecchi archetipi di comunicazione simbolica –
anche se può essere difficile crederlo, è talora in grado di riprodurre, magari a livello popolare e inconscio, fenomeni di autentica mitologizzazione collettiva con la creazione non solo di simboli-feticcio (come l’automobile), ma anche di simboli-modelli (persone-personaggi-eroi), utilizzando procedimenti ideologici talvolta affini a quelli delle epoche precedenti.
In altre parole, anche una società in continua evoluzione (per questo definita “liquida” da Bauman) e continuamente bombardata da messaggi simbolici desacralizzati e desacralizzanti, riesce poi a utilizzare modelli mitopoietici di appropriazione della realtà, vera ma anche virtuale, trasformando in figure mitiche o in veri e propri eroi sia persone storicamente reali (leader politici, figure carismatiche della vita sociale, divi del cinema o del mondo musicale, se non addirittura “semplici” e talvolta anonimi protagonisti di vicende di cronaca come i vigili del fuoco che salvano dall’incendio della sua casa una famiglia, o un medico che trova un antidoto a una grave malattia), sia personaggi palesemente irreali come i protagonisti di serial cinematografici e televisivi piuttosto che quelli dei fumetti o dei cartoni animati per i più piccoli.
In tutto questo non vi è più nulla dell’eroe come archetipo dell’antichità, né dell’eroe come modello del medioevo. Nel mondo di oggi si passa, nella più straordinaria confusione tra vero, verosimile e fantastico, all’eroe come superuomo, un essere il più delle volte uguale esteriormente a tutti eppure diverso per capacità e mezzi, in grado di dare alla realtà quotidiana, considerata una realtà “debole”, contradditoria o insoddisfacente, soluzioni risolutrici o consolatorie.
È come se la società devolvesse in favore di un singolo superuomo utopie e sogni, idee e progetti; ed è come se tale superuomo si facesse carico di istanze singolarmente non realizzabili ma, proprio per questo, collettivamente auspicabili, in quanto egli stesso artefice e proiezione di esse. Il meccanismo funziona nella letteratura ai vari livelli, 25) ma anche nella realtà storica e in quella quotidiana, assecondando o producendo fenomeni di divismo e di autoidentificazione, se non addirittura di autentica idolatria (banalmente si pensi ai fan di Elvis Presley nel secolo scorso piuttosto che ai martiri della jihad islamica degli ultimi anni). Alla base dei fanatismi che hanno animato e che tuttora animano le folle, insomma, c’è sempre un superuomo, un modello o un mito: una figura che forse possiamo ancora definire “eroe”.
Tuttavia, prima ancora che nella filosofia di Nietzche, il mito del superuomo nasce all’interno della letteratura popolare dell’800, e più precisamente con il cosiddetto feuilleton: superuomini sono senz’altro Rodolphe di Gerolstein, protagonista de I misteri di Parigi di Eugéne Sue, il Conte di Montecristo, protagonista dell’omonimo romanzo di Dumas, e Giuseppe Balsamo alias Cagliostro, deus ex machina dell’omonimo romanzo di Luigi Natoli. 26)
Ma è con Nietzche che trova la sua teorizzazione, e poi con D’Annunzio, proprio all’inizio del ‘900, la prima evidenza storica. In ambedue vi è una trasmutazione dei valori tradizionali e una repulsione per ogni forma di banale normalità: il superuomo diventa la realizzazione della libertà dell’uomo portata ai massimi livelli, senza freni inibitori e senza il rispetto delle regole precostituite, al di là del bene e del male, al di là delle prescrizioni e dei divieti. Alla virtù dell’accettazione e dell’obbedienza si contrappone la fierezza, la volontà, la capacità, in una cosciente autoselezione naturale di origine darwiniana.
Il superuomo acquista così una valenza titanica, sia rispetto agli altri uomini sia rispetto alla natura, e le sue capacità particolari gli offrono sempre la possibilità di superare gli ostacoli di ogni tipo che possono frapporsi al perseguimento dei suoi fini. I quali fini, a loro volta, possono avere caratteristiche del tutto personali (ma in tal caso il superuomo rimarrà solo al livello di un dandy), o possono andare a beneficio dell’umanità nel suo complesso o di un gruppo sociale particolare (in tal caso invece il superuomo si legittimerà come un autentico eroe rivestendo nella stragrande maggioranza dei casi, o le vesti di eroe consolatore, o quelle di eroe liberatore).
Tra i due estremi della consolazione e della liberazione, apparentemente vicini ma talvolta nella realtà anche antitetici, si muovono le varie figure di eroi che popolano gli ultimi cento anni, sia che si tratti di persone in carne e ossa, sia che si tratti di personaggi letterari o comunque immaginari. Un’analisi sommaria porterebbe alle seguenti considerazioni: gli eroi-consolatori sono quelli che hanno agito nella realtà storica, o agiscono nella fiction, in senso paternalistico, per incoraggiare e dare fiducia, per fare evadere da una realtà non più accettabile, o per mostrare la possibilità della realizzazione di utopie; gli eroi-liberatori sono, al contrario, coloro I quali nella vita, o all’interno di una saga televisiva, cinematografica o fumettistica, sciolgono con le loro azioni una situazione di pericolo o di danno riequilibrando così una realtà incrinata o realizzando un’alternativa positiva.
La verità è però che non sempre si può nettamente separare la tipologia dell’eroe consolatore da quella dell’eroe liberatore, non solo per quanto attiene alle caratteristiche dei personaggi, ma anche per gli effetti che tali eroi – reali o fantastici – hanno prodotto o producono nella realtà storica o in quella della fiction nella quale agiscono da protagonisti. Cercheremo quindi di fare una disamina più attenta della questione per meglio comprendere il senso e la funzione dei “superuomini” del nostro secolo.
L’ideologia della consolazione nasce, come abbiamo già detto, con il feullieton della seconda metà dell’800, il cui protagonista, eroe per eccellenza, opera a contatto con le ingiustizie sociali e personali, ben conscio che esista una ricchezza a cui le classi popolari non partecipano, ben conscio delle lotte che avvengono al vertice della società per il raggiungimento del potere, un potere tuttavia dal quale le classi subalterne rimangono comunque effettivamente escluse. Ma il superuomo del feuilleton, da cui prenderà origine quella che per noi è la figura dell’eroe consolatore del ‘900, “non è un profeta della lotta sociale, come Marx, e quindi non ripara a queste ingiustizie sovvertendo l’ordine della società. Semplicemente sovrappone la propria giustizia a quella comune, distrugge i malvagi, ricompensa i buoni, ristabilisce l’armonia”. 27)
Figure di eroi come il Conte di Montecristo o come il successivo Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo divenuto beniamino di una saga prima narrativa e in tempi successivi anche televisiva, sono lì a testimoniare la nuova affermazione di un repertorio a suo modo mitologico capace di riprendere i fenomeni reali sotto una luce di giustizia fiabesca, mettendo anche a nudo specifiche problematiche, ma non intervenendo realmente per il raggiungimento di alcun catartico fine sociale; semmai immaginando soluzioni giuste solo in linea di principio, come Montecristo che si vendica dei suoi persecutori o Lupin che ruba con grazia ai nababbi, per giunta anche un po’ imbecilli. Tali soluzioni, che sciolgono il nodo gordiano della mancanza di equilibrio iniziale, dal punto di vista sociale, etico o economico, favoriscono soltanto la figura del protagonista, che alla fine ottiene una sorta di glorificazione personale della quale il pubblico è anche felice; ma l’azione eroica non ha poi alcuna refluenza effettiva sulla realtà sociale, nel senso che produce al massimo un effetto appunto consolatorio su chi, autoidentificandosi nell’eroe, immagina di essere al suo posto e di ottenere, analogamente a lui, giustizia per i suoi guai.
Gli effetti della consolazione possono per altro essere molteplici. Da un lato possono narcotizzare le pulsioni estreme e ridare equilibrio formale a situazioni palesemente non equilibrate prima che le stesse esplodano: può essere il caso di eroi come il Conte di Montecristo o come il Don Camillo di Guareschi. Oppure, all’opposto, possono produrre fenomeni di isteria di massa attraverso i quali si andrà poi a canalizzare il consenso: è questo senz’altro il caso dei superuomini “annunciati” o “rivelati”, come D’Annunzio o come Mussolini. I primi si celano, nascondono le loro sembianze, si mescolano nel mucchio, salvo poi a balzare avanti a tutti al momento opportuno; i secondi hanno invece l’assoluta necessità di farsi precedere dalla loro immagine, esibendo se stessi e le loro imprese a un pubblico che probabilmente in cuor loro considerano in termini di assoluta sufficienza, ma senza il quale non potrebbero poi creare il loro stesso mito.

Il superuomo consolatore ha, comunque, in linea di massima una fisionomia pedagogica: egli si propone prima o poi, implicitamente o esplicitamente, come una guida per gli altri, e il suo pensiero o le sue azioni diventano un modello da seguire anche se chiaramente inimitabile. Alla fine l’eroe chiede obbedienza al suo credo e quindi ordine. I suoi metodi d’altronde non possono essere rivoluzionari in senso liberatorio né libertario, ma possono tuttavia essere violenti, solo che in tal caso la violenza è giustificata come reazione a un danno precedente, vero o solo presunto: Montecristo contro i suoi persecutori, Don Camillo contro i comunisti e contro le ingiustizie della sua gente, Hitler e lo stesso Mussolini contro le “plutocrazie” occidentali e gli ebrei.
Ciò non toglie che l’eroe consolatore possa operare anche attraverso metodi non violenti, come Lupin contro i ricchi, anche se il concetto ideologico di non-violenza, per esempio in Gandhi o in Martin Luther King, è di tutt’altra natura e va inquadrato in un contesto tipologico e socio-culturale ben diverso.
Spesso, almeno all’inizio, lo stesso gruppo davanti al quale o per il quale l’eroe consolatore opera, pur avendo fame di giustizia, non comprende il senso delle sue gesta, e capita così che lo stesso eroe si trovi costretto ad agire “contro” la società e le sue leggi, salvo poi modificare tali leggi e quindi l’atteggiamento degli altri. È quanto capita a Lupin che le infrange e si prende beffa delle forze dell’ordine e della società per i suoi furti, anche se poi sarà considerato un superuomo dagli stessi poliziotti che lo ricercano invano e dalla stessa gente che ne invidia le gesta. È quanto accade a Hitler e a Mussolini, che si impongono con la violenza sui loro avversari politici e poi si inventano nuovi nemici per incanalare in una precisa direzione risentimenti popolari e sindromi violente.
Caratteristica comune di questo tipo di eroe è decidere per conto proprio cosa è bene e cosa non lo è, facendosi forte del carisma accumulato, il più delle volte senza nemmeno essere sfiorato dal dubbio di un errore o dalla considerazione che gli altri debbano essere, oltre che “illuminati”, anche “consultati”. Eroi di tal fatta sono Tarzan, che diviene l’angelo protettore della giungla sottoponendo alle sue leggi tutto e tutti, o il già citato Don Camillo, che fa a cazzotti con quanti si oppongono ai suoi desiderata, salvo poi accordarsi tra mille compromessi con l’amico-nemico Peppone. Lo sono tuttavia anche figure storiche e reali come Hitler e Mussolini che pontificano dall’alto dei loro balconi e decidono le sorti del mondo mentre folle oceaniche plaudono innamorate per qualsivoglia loro decisione, compresa quella di morire in difesa di una razza e di una patria che nessuno però vuole attaccare (anzi è proprio il contrario). Lo stesso accade con Stalin che epura nemici e amici per paura, una volta al potere, che questo gli venga sottratto.
Questo tipo di superuomo non si cura di apparire in qualche modo democratico rispetto agli altri, e conseguentemente anche la sua capacità di virtù agisce per mistificazione in quanto, pur volendo apparire come una liberazione, in effetti riproduce solo meccanismi consolatori: si propone infatti come necessità, ma agisce invece solo sulle volontà altrui operando persuasivamente (si pensi per esempio al grande uso che fecero Hitler e Mussolini dei media di allora, radio e giornali) e generando così illusioni.

Gandhi.

Inoltre, il superuomo consolatore ha la necessità di rappresentare se stesso in termini di assoluta tipicità (si sarebbe portati a credere in taluni casi che si tratti addirittura di metafora), e così la tipicità del personaggio reale o quella del protagonista della fiction letteraria o cinematografica o televisiva arriva ad auto-generarsi e a definirsi nel rapporto che si istituisce con il pubblico che in lui si può riconoscere e che, nell’atto stesso di riconoscervisi, lo emblematizza trasformandolo in un “prodotto” credibile e in un certo senso anche “godibile”. In tal modo l’eroe rivive nella coscienza e nella memoria riproponendosi come modello.
Cià accade nella storia: emblematico il caso di Mussolini, mascella quadrata ed eroe tuttofare, che si fa ritrarre mentre miete il grano o mentre sudaticcio dà l’esempio ai lavoratori nelle varie fabbriche. E accade nella letteratura: Don Camillo non fa solo il prete, ma è sempre presente a operare fattivamente laddove gli altri falliscono, come quando il grande fiume Po straripa nella bassa rompendo gli argini e tracimando tra campi e cascine. Invece Tarzan evita l’intromissione dell’uomo bianco nel regno degli animali per preservarne l’habitat.
Ma accade persino nel mondo fittizio della pubblicità. Qualcuno ricorderà la figura di Mastro Lindo che qualche anno addietro furoreggiava sui giornali e in televisione, eroe che “sconfigge lo sporco anche laddove non si vede”, come recitava il suo spot. Mentre Mister X, che potrebbe essere considerato l’antenato italiano dei superuomini pubblicitari, salvava in continuazione la formula segreta che permetteva alle massaie degli anni ‘60 di lavare la loro biancheria con il “mitico” Dixan, l’unico detersivo “a schiuma frenata” per lavatrici in grado di debellare anche le macchie più ostinate del bucato.

Mastro Lindo.

Ognuno è portato ad accettare dentro di sé il modello che l’eroe genera attraverso le sue gesta e a farlo proprio universalizzando il suo messaggio, la sua figura e il senso del suo operato. L’eroe quindi diviene non più solo un simbolo ma appunto una metafora, esemplare e riconoscibile in quanto il suo pubblico lo ha in un certo qual modo assimilato come un prodotto ed è quindi portato ad assumerlo successivamente come emanazione di se stesso, riproducendone le azioni o accettandone felicemente i messaggi, seguendone le direttive. Attraverso i meccanismi tipici dell’assuefazione, dell’assimilazione e dell’identificazione, il pubblico si incarna quindi nella figura del superuomo, ma la sua rimane solo una bella e dolce illusione: al di là dell’apparenza, la realtà vera non cambia, ma scatta comunque la consolazione: un giorno forse cambierà.
Invece, il superuomo che attraverso le sue gesta (reali se personaggio storico, fantastiche se personaggio della fiction) riesce a superare il meccanismo della consolazione e a operare realmente dei cambiamenti in favore del suo popolo o anche in favore di un certo gruppo, eliminando situazioni di disequilibrio, di rischio, di incertezza o di caos, può essere senz’altro definito eroe liberatore.
Ovviamente è importante sottolineare in via preliminare che cosa si intende per “liberazione”, dato che tale concetto è in fin dei conti legato a valenze diverse. Liberazione è intanto, e forse prima di tutto, una parola legata alla sfera del sociale e del politico; non ha refluenze catartiche né tanto meno oltremondane, quindi da non confondere con il concetto di salvazione, già in precedenza analizzato nell’àmbito degli eroi dell’antichità, che invece presuppone proprio una valenza salvifica di tipo religioso. Tuttavia, anche così, “liberare” vuol dire prima di tutto emancipare, guidare verso la libertà, salvare da un pericolo o da una minaccia: ed è appunto attorno a questi tre concetti che ruota prima di tutto la funzione del moderno eroe liberatore.
Il ruolo di “guida” che il superuomo deve assumere per assolvere la sua funzione liberatrice, comporta che egli abbia il carisma del capo e che quindi sia in grado di coinvolgere con il suo esempio e la sua leadership un popolo o un gruppo sociale. È questo il caso di Gandhi e di Martin Luther King, i profeti della lotta non violenta, rispettivamente impegnati nell’indipendenza dell’India dal potere coloniale inglese e nell’emancipazione dei neri d’America dal razzismo allora imperante soprattutto negli Stati del sud. È questo il caso di Che Guevara, emblema della rivoluzione sociale nell’America Latina ma figura carismatica anche per milioni di giovani occidentali negli anni successivi al ’68; o di Fidel Castro, Ho Chi Min e Mao Tse Tung, rivoluzionari nazionalisti trasformatisi, una volta raggiunta la loro meta, in capi di governo o addirittura in dittatori sanguinari. Casi analoghi si possono citare nella fiction, citando a esempio Luke Skywalker e gli altri eroi del ciclo cinematografico Guerre Stellari di George Lucas, impegnati nella lotta manichea dei ribelli contro le armate di un asfissiante e distruttivo “Impero”.
Ma può anche capitare che l’eroe liberatore sia, al contrario, un personaggio solitario, un isolato che vive in disparte dal mondo comune o che qui vi trascorra una vita parallela tutta normalità e banalità, pronto però a balzare fuori e a vestire i panni ben appariscenti del superuomo quando le circostanze lo richiedano. In tal caso egli interviene con poteri davvero superumani, sfruttando intelligenza e forza non comuni messe a disposizione del mondo normale, pronto poi a ritornare nell’anonimato non appena la sua missione è conclusa. Per tale ragione questo tipo di eroe, protagonista indiscusso della letteratura e della fiction, è soggetto a essere continuamente reiterato, trasformandosi magari in un protagonista di saghe nelle quali egli rimane fisso e immutabile, quindi sempre perfettamente riconoscibile da chiunque, non soggetto nemmeno all’invecchiamento o alla corruzione fisica.
Un eroe di questo genere è Superman, il quale normalmente si fa passare per un ometto qualsiasi e per giunta anche un po’ pusillanime, autentico archetipo di tutta una serie di analoghi superuomini fumettistici dai poteri sorprendenti come Batman, l’Uomo-Ragno, eccetera, che però vivono al di fuori della realtà quotidiana. Lo è anche James Bond, “padre” di tutti gli agenti segreti del mondo, altro archetipo di superuomo narrativo e cinematografico che da solo, col suo fiuto, con le sue incredibili risorse, riesce di volta in volta a sconfiggere il cattivo di turno: il pazzo megalomane, la Spectre, la Russia, la Cina… Eroi simili sono i vari detective che soprattutto la produzione televisiva americana ha sfornato a partire dalla seconda metà del ‘900 (i vari tenenti Kojak e Colombo, i bulli come Magnum P.I., eccetera).

L’eroe liberatore, per quanto tenga a mostrare sempre la diversità della sua figura rispetto alla normalità, rispetto al consolatore riesce a essere più democratico, meno dogmatico e intransigente. Interviene per esempio con spirito di sacrificio: lo fanno Bond e Superman nella fiction, come Gandhi o Che Guevara nella realtà, esponendosi personalmente al pericolo e mettendo a repentaglio la propria vita per raggiungere gli obiettivi proposti o imposti. Il suo carisma, inoltre, gli impedisce di avere un atteggiamento palesemente paternalista, anche se poi, in particolari occasioni, l’eroe è portato a fare trasparire un atteggiamento di sufficienza, nella consapevolezza della sua superiorità sugli altri, alleati o nemici.
Più ancora dell’eroe consolatore, il liberatore finisce con l’assumere connotazioni manichee (il giusto, il buono, il bello) e in tale ottica, avvicinandosi in modo incredibile alla tipologia del cavaliere medievale, pronto alla difesa degli umili e degli oppressi e in prima linea contro i soprusi e le ingiustizie, egli si trova sempre di fronte un nemico specifico, dai contorni altrettanto definiti rispetto ai suoi, una sorta di anti-eroe negativo: l’ingiusto o il pazzo, il cattivo o il vile traditore, il brutto o anche il bello ma diabolico. Più profonde sono qui, pertanto, le matrici mitologiche o comunque le possibilità di una lettura anche in chiave mitologica delle sue azioni.
Questa analisi non deve però fuorviarci; giacché è giusto anche ammettere che non sempre è facile stabilire una differenza fondamentale tra il meccanismo della consolazione e quello della liberazione, e quindi tra eroe consolatore ed eroe liberatore, e le ragioni sono molteplici. Innanzi tutto perché lo stesso eroe può semplicemente apparire consolatore ad alcuni e liberatore ad altri; 28) inoltre perché, al di là dei personaggi storici, sui quali pure ci sarebbe da discutere in un senso o nell’altro, la lettura eroica di un superuomo letterario o cinematografico passa pur sempre da una fruizione estetica prima ancora che sociologica o mitologica; e le conseguenze di una fruizione estetica sono legate ovviamente alla sfera della soggettività e al potenziale di “evasione” che l’autore del personaggio (scrittore, sceneggiatore, eccetera) ha introdotto nella sua creatura; infine perché lo stesso concetto di liberazione non può prescindere da quello di consolazione, cronologicamente successivo o anche antecedente, ragione per cui la sovrapposizione tra elementi ed effetti consolatori e liberatori può anche essere accettata come fatto normale.

Il ritorno del mito

Il filo di Arianna che abbiamo seguito fin qui passava attraverso un’impostazione basilare: pur prendendo in considerazione solamente la cultura euromediterranea e occidentale, dovevamo parlare di quegli eroi che tali erano apparsi alla gente del loro tempo, anzi al maggior numero di persone coeve. Così Mosè e lo stesso Cristo si sono affiancati ai più classici e noti eroi pagani dell’antichità, appartenenti o meno al mondo greco e romano. Analogamente, ai cavalieri, tipici protagonisti dell’epos medievale, si sono affiancate altre figure meno tipiche di eroi, come i santi e i ribelli. Così, nell’età moderna, si sono aggiunti gli statisti e i navigatori, gli scienziati e infine i rivoluzionari. E anche per l’età contemporanea, cercando comunque di evitare di proporre figure effimere di eroi come i divi dello spettacolo, abbiamo parlato, oltre che di eroi della fiction, anche di quei personaggi “pubblici” che hanno rappresentato nel bene o nel male la loro epoca (rivoluzionari, capi carismatici, dittatori, eccetera).
Il nostro è stato dunque un modo di studiare il concetto stesso di eroe attraverso la storia, o quasi una sorta di progetto di interpretazione della storia attraverso certe figure che sono divenute emblematiche rispetto al loro tempo. n effetti ci siamo così resi conto per davvero che la cultura non solo è alla base ma anzi costituisce effettivamente l’esperienza storica dell’umanità, nel senso che, come afferma Bauman, “mette costantemente in evidenza il disaccordo tra l’ideale e il reale, rende significativa la realtà esponendone i limiti e le imperfezioni, mescola e fonde continuamente conoscenza e interesse”. 29)
Di questa realtà l’eroe, un eroe “dai mille aspetti” e “dai mille volti”, 30) ci è apparso molto spesso il protagonista più significativo e, al tempo stesso, più inquietante: più significativo perché l’eroe ha in un certo senso concentrato su di sé peculiarità e particolarità di un’epoca (il combattente, il cavaliere, il santo, lo statista) o ha addirittura creato i presupposti per un dato cambiamento epocale (il ribelle, il navigatore, lo scienziato, il rivoluzionario); più inquietante perché l’esito e la portata delle sue imprese nonché la sua leadership sociale hanno condotto in alcuni casi a fenomeni di assuefazione e di delega (valga per tutti il caso del dittatore) o hanno contribuito a produrre meccanismi consolatori per una società alienata dalla realtà nei momenti di rapido mutamento (nel periodo ellenistico, in quello medievale, nell’età della controriforma e della rivoluzione francese e da ultimo nella seconda metà del ‘900).
Tuttavia, una prima riflessione ci si pone prepotentemente: abbiamo fin qui descritto figure di eroi al maschile; ma perché? Di sicuro non è stata una scelta o un errore legato a un nascosto e oscuro maschilismo, meno che mai una scelta dettata da qualche palese discriminazione di genere e da un reflusso sessista. La realtà è che, a partire dall’antichità, i protagonisti dei miti eroici sono stati sempre gli uomini: non è che Zeus fosse un sessista e Omero il suo profeta, come qualcuno ha di recente ipotizzato; 31) semmai i personaggi femminili fanno da contorno alle storie mitologiche degli eroi uomini come maghe (Circe) o demoni (le sirene) o come divinità capricciose in lotta tra loro. In effetti, il mito ci parla anche delle amazzoni, ma la loro presenza è quasi sempre vista in un’ottica non certo positiva. Qualche eccezione potrebbe essere fatta nel medioevo, soprattutto a proposito di alcune figure di sante, come nel caso di Rita da Cascia, e nel rinascimento, anche leggendo con attenzione i poemi di Ariosto e del Tasso (si pensi ad alcune figure femminili lì presenti); o, più avanti, pensando alla pulzella d’Orléans, Giovanna d’Arco, eroina francese per eccellenza.
Anche nell’età contemporanea appaiono qua e là figure femminili dotate di qualche particolarità eroica, soprattutto nel fumetto e nella fiction televisiva e cinematografica: si pensi a Supergirl, cugina di Superman, o alla sua “derivata” Wonder Woman, piuttosto che all’astronauta Ellen Ripley, protagonista dei film Alien di Ridley Scott interpretata dalla famosa attrice Sigourney Weaver. O ancora a Miss Marple, protagonista di alcuni gialli di Agatha Christie, interpretata sul piccolo schermo dall’attrice Geraldine McEwan.
Ma in tutti i casi si tratta comunque di figure numericamente marginali in questo vasto panorama: di vere e proprie eroine la storia, il mito e la letteratura sono estremamente parche… per non dire che nell’antichità e nel medioevo non ce n’è quasi l’ombra.
Un’altra riflessione è quella per cui – pur non potendosi conclamare somiglianze certe o possibili accostamenti formali tra le tante figure di eroi del passato e quelle di eroi moderni o contemporanei – si può tentare quanto meno di reperire alcune caratteristiche comuni all’agire eroico nel suo complesso e nella sua pur evidente evoluzione storica. In quest’ottica si può considerare valida per gli eroi quella “formula” individuata da Vladimir Propp nella sua analisi della fiaba: l’antropologo russo riteneva che tutte le fiabe presentassero elementi comuni, ovvero una stessa struttura che ritrova al suo interno i medesimi modelli di personaggi che ricoprono le stesse funzioni in relazione allo sviluppo della storia. E noi riteniamo che questo possa essere in qualche modo trasferibile anche nel delineare la funzione della figura dell’eroe, pur nella sua evoluzione storica.
In concreto, la vita e le azioni dell’eroe sembrano potersi accostare alla trama di ogni fiaba, che presenta un equilibrio iniziale (inizio), la rottura dell’equilibrio (avventura), seguita dalle peripezie del personaggio principale, per giungere a un ristabilimento dell’equilibrio (conclusione), 32) che può essere quindi così sintetizzato:

Se il concetto di coincidenza strutturale tra mito e fiaba, quasi una “versione debole del mito stesso”, è stato formulato anche da Lévi-Strauss, noi riteniamo che tale formula possa essere applicata alle gesta degli eroi indipendentemente da qualsiasi contesto mitologico: dal civilizzatore dell’antichità al cavaliere del medioevo, dallo scienziato dell’età moderna all’eroe (storico o d’evasione) dell’età contemporanea.
In taluni casi, inoltre, le gesta dell’eroe possono evidentemente essere correlate in modo antitetico, come abbiamo peraltro già accennato, a quelle di un “anti-eroe”, figura a lui speculare, quindi negativa e destinata a soccombere. Sotto questa veste, l’eroe non solo ha un passato e un presente, ma sembra anche avere un suo preciso futuro (simbolizzato per esempio dal robot Daneel R. Olivaw di Asimov), come se quella dell’eroe fosse una figura “necessaria” in ogni tempo (passato, presente e anche futuro!). E probabilmente è così: è come se la storia avesse bisogno anche di una lettura in chiave utopica e irrazionale.
A questo proposito non stupisce, in effetti, che il mito risorga nuovamente in pieno ‘900 – per esempio nel fumetto o nella fantascienza – dopo la sua apparente morte decretata dalla rivoluzione scientifica dell’età moderna. Anche questo deve farci riflettere: se l’eroe è di nuovo grande e potente, vuol dire che l’uomo si sente sempre piccolo e debole, indifeso di fronte a forze che gli appaiono sconfinate ogni qual volta un ostacolo si frappone alla sua esistenza (un grande disastro, gli effetti dei cambiamenti climatici, una pandemia come quella del Covid-19). E se l’uomo si considera ancora piccolo e debole, vuol dire che c’è ancora bisogno di eroi. Oggi come ieri e, probabilmente, come domani. Che quindi avesse ragione Brecht quando scriveva: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”?

 

N O T E

1) Cfr. Omero, Iliade, XIX, 34.
2) Cfr. Omero, Odissea, II, 15.
3) Cfr. fra gli altri Esiodo, Opere e Giorni, 159-160; e Platone, Cratilo, 398.
4) Gli eroi greci, Roma 1958.
5) Greek Hero Cults and Ideas of Immortality, Oxford 1921.
6) Sull’argomento vale senz’altro la pena di leggere di Mircea Eliade, Mito e realtà, Milano 1974.
7) Cfr. Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Firenze 1965.
8) Cfr. Francis Vian, La religione greca in epoca arcaica e  classica, da AA.VV., Storia delle religioni, vol. 3°, Bari 1976.
9) David Leeming, Mitologia, Milano 1976.
10) Ibidem.
11) Vangelo di Matteo, IV, 8-9.
12) Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1957.
13) Carl Gustav Jung – Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1948. “Giorno e luce sono sinonimi della coscienza, notte e oscurità dell’inconscio”, continuano i due autori; e d’altronde “diventare coscienti è certamente la più grande esperienza primordiale, perché è per mezzo di essa che è sorto il mondo, della cui esistenza prima nessuno sapeva. E Dio disse: sia luce; e la luce fu è la proiezione di quell’esperienza primordiale del distacco della coscienza dall’inconscio”.
14) Op. cit.
15) David Leeming, op. cit.
16) Angelo Brelich, op. cit.
17) Friedrich Pfister nel suo libro Der Reliquienkult im Altertum (Giessen 1910) è arrivato a elencare l’ubicazione di circa quattrocento tombe di eroi greci ai quali era associato un culto.
18) Il suo testo originale (Psyche) è del 1893; in italiano fu tradotto per la prima volta nel 1914, e successivamente ristampato nel 1971, a Bari, col titolo Psiche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci.
19) Questa è l’opinione di Alfred Reginal Readcliffe Brown in Struttura e funzione nella società primitiva, Milano 1968.
20) Geoffrey Stephen Kirk, Mito: significato e funzioni nelle culture antiche e in altre culture, Napoli 1980.
21) Per di più, per l’uomo medievale colui che abbandona il proprio ambiente naturale non solo si espone ai pericoli della strada, ma avrà rapporti con sconosciuti e quindi andrà sicuramente incontro a insidie; analogamente, per chi vive in un dato ambiente, gli estranei appaiono come spiriti del maligno, come affermava lo stesso Gregorio Magno nei suoi Moralia (“Quis vero alienus nisi apostata angelus vocatur?”). Cfr. sull’argomento anche Bronisław Geremek, L’emarginato, da AA.VV. (a cura di Jacques Le Goff), L’uomo medioevale, Bari 1988.
22) Jacques Le Goff, ibidem.
23) L’anno mille, Torino 1976.
24) Apocalittici e integrati, Milano 1964.
25) Cfr. Umberto Eco, Il superuomo di massa, Milano 1978.
26) Cfr. Umberto Eco, ibidem, pag. 53 e sgg. Secondo Antonio Gramsci, richiamato dallo stesso Eco, “il romanzo d’appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell’uomo del popolo, è un vero sognare a occhi aperti… In questo caso si può dire che nel popolo il fantasticare è dipendente dal ‘complesso di inferiorità’ (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull’idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati” (Letteratura e vita nazionale, parte III, Letteratura popolare, Bari).
27) Umberto Eco, Il superuomo…, op. cit.
28) Umberto Eco, per esempio, inquadra nell’ottica della consolazione (in Il superuomo di massa e in Apocalittici e integrati), anche eroi come Superman o James Bond, che a nostro giudizio incarnerebbero piuttosto l’ideale figura del liberatore.
29) Cultura come prassi, Bologna 1976.
30) Le due definizioni sono rispettivamente di David Leeming (op. cit.) e di Joseph Campbell (op. cit).
31) Simonetta Sciandivasci, L’epica antica nuova di zecca, da “Il foglio”, 27 ottobre 2019.
32) Morfologia della fiaba, Torino 1966.

Chi volesse approfondire gli argomenti trattati in questo articolo potrà leggere, dello stesso autore, il volume Eroi. La figura dell’eroe nel mito, nella letteratura e nella storia dall’antichità ai nostri giorni (272 pagine, Fotograf edizioni, 2a edizione 2020).