La Polinesia francese è formata da cinque arcipelaghi che coprono una superficie più grande dell’Europa con 118 isole, delle quali 78 sono abitate. Si potrebbe pensare che il modo migliore per visitarla sia in barca, magari a vela, ma ultimamente qualcosa sta cambiando.
I polinesiani, popolo di grandi navigatori, sono legati alla terra; concepiscono la navigazione per pescare o spostarsi da un’isola all’altra, e non per vivere sulle “roulotte del mare”. Purtroppo le snelle imbarcazioni a vela con bilanciere non si vedono più, oggi si preferiscono le veloci barche a motore, in particolare quelle dallo scafo metallico, più resistente dei gommoni agli urti sui coralli; diffusissimo il poti mārara, la “barca volante”, con il corpo del conducente che diventa tutt’uno con lo scafo, agile da manovrare per la pesca con l’arpione.
Vero è che durante il confinamento molti velieri sono rimasti bloccati a Tahiti, uno accanto all’altro, impedendo alle va’a, le piroghe, di remare tranquillamente, circondate da quei mille ostacoli galleggianti. Per questo l’opinione pubblica era già contro le barche da diporto quando è successo il fattaccio.
Ho conosciuto il giovane Eddie Jarman a Fakarava mentre ero ospite su un catamarano ormeggiato davanti alla bella spiaggia di Hirifa, insieme ad altre quaranta imbarcazioni tutte in attesa che cessasse il Mara’amu, il vento di sud-est proveniente dall’Artico: un assennato ragazzino inglese di quattordici anni, che con i genitori e la sorella stava compiendo il giro del mondo su una barca a vela e che, come tutti, si fermava in Polinesia francese il tempo concesso, oggi di due anni. Un adolescente educato che amava la musica, suonava il piano, il violino e il contrabbasso, e a gennaio avrebbe dovuto raggiungere lo Hurstpierpoint College dove aveva vinto una borsa di studio.
Domenica 9 agosto il ragazzo stava nuotando a due metri dalla sua barca, ormeggiata davanti alla spiaggia pubblica di Ta’ahiamanu sull’isola di Mo’orea, per controllare l’àncora quando una barca veloce, di quelle che portano in gita i turisti, lo ha colpito in pieno uccidendolo.
Il mio amico Roy era ancorato non lontano e ha sentito il disperato “mayday mayday” via radio dei genitori, ha visto il trambusto in acqua e sulla spiaggia, dove si trovava casualmente anche il sindaco dell’isola. Due medici presenti hanno tentato la rianimazione, l’ambulanza è subito arrivata, ma la corsa in ospedale è stata inutile. Il ragazzo, violentemente urtato al capo e al torace, era già morto.
In Polinesia francese non ci sono controlli per far rispettare i limiti di velocità in prossimità delle spiagge, sicché gente su moto d’acqua e motoscafi grandi e piccoli si diverte a spingere il motore al massimo, incurante.
Il presidente Fritch, in visita ufficiale a Mo’orea, ha incontrato il sindaco promettendo che alla prossima riunione dell’Assemblea proibiranno l’ancoraggio ai velieri sulla spiaggia dell’incidente. Non una parola sulla velocità eccessiva, non una parola sulla possibilità di altri incidenti. Un ulteriore colpo per la famiglia del povero ragazzo e per noi tutti.
La risposta della stampa anglofona non ha tardato ad arrivare: si sconsiglia di navigare nelle acque della Polinesia francese perché le barche a vela non sono bene accette.
È triste constatare come sia montato il malcontento verso i diportisti (al momento solo nell’isola principale e nella sua vicina Mo’orea; nessun problema negli atolli, anzi i rari abitanti delle spiagge più isolate sono ben contenti di scambiare due parole con altri esseri umani). Il vero problema, a Tahiti, sono semmai le persone che vivono su un battello senza mai spostarsi, per evitare di pagare i costosi affitti degli appartamenti dell’isola, riempiendo la bella laguna di scafi arrugginiti.