Così come Guccini quando cantava del suo macchinista ferroviere, anch’io “non so che viso avesse”. Conosco invece, non solo “l’epoca dei fatti”, ma anche “come si chiamava”. Mahamadi Sissoko, deceduto il 5 febbraio, è già il settimo ferroviere morto in sciopero della fame a Kita, nel Mali.
La protesta era iniziata due mesi fa per reclamare oltre dieci (ormai quasi undici) mesi di salario non corrisposto. La prima vittima dello sciopero, a cui partecipano quasi 500 ferrovieri, risale al 18 dicembre 2018. Tuttavia soltanto dopo questo settimo decesso lo Stato del Mali ha proposto il pagamento di tre mensilità. Incontrando però la legittima contrarietà del sindacato e dei lavoratori i quali, sentendosi “presi in giro”, hanno lanciato la parola d’ordine “O il pagamento integrale dei salari arretrati o la morte”.
La scoperta di aver lavorato sostanzialmente gratis per 11 mesi per il loro “datore di lavoro”, lo Stato del Mali, ha messo i ferrovieri di fronte a un problema molto attuale: “Se diventa normale lavorare senza essere pagati, dove andremo a finire?”. O magari, suggerisco: “Dove siamo già andati a finire?”.
Così, consapevoli di non aver ormai niente da perdere, essi digiunano per rivendicare il diritto al rispetto, alla dignità. La loro lotta – eroica, combattiva, definita “esemplare” – evoca quella analoga dello sciopero della fame condotto nel 1947 da oltre 20mila ferrovieri della linea Dakar-Bamako. Durata ben 160 giorni, si concluse con la vittoria dei lavoratori, per quanto pagata a caro prezzo.
Come allora, al fianco dei ferrovieri si sono schierati tutti i familiari. Particolarmente determinate le donne – madri, mogli e figlie – dei ferrovieri che il 13 febbraio hanno manifestato a Kayes portando uno striscione con la scritta J’ai faim, 10 mois sans salaire.