La fedeltà alla Tradizione, una delle caratteristiche principali della Chiesa Cattolica fino al XX secolo, con l’adattamento ai tempi – compromesso che si era sempre guardata dall’inseguire – lasciò il campo al modernismo. Per secoli i cattolici in “qualche modo” erano riusciti a pregare, cantare, ricevere i Sacramenti e l’ultimo saluto terreno con il Rito Romano Antico.
Papa Giovanni XXIII aprì il Concilio Vaticano II l’11 ottobre 1962. Egli, solamente otto mesi prima dell’evento, legiferò con la Costituzione Apostolica Veterum Sapientia del 22 febbraio 1962 sullo studio e sull’incremento della lingua universale della Chiesa. È noto che ritirò uno schema conciliare sul latino, giudicando chiuso l’argomento.
La Costituzione esprimeva la rinnovata volontà del papa di offrire alla lingua latina del culto e del Magistero l’autorevolezza necessaria per l’esercizio del Primato. Egli probabilmente non avrebbe compreso gli eccessi liturgici del post concilio; i suoi intenti infatti verranno disattesi dopo la sua morte, proprio da quell’importante consesso che aveva convocato. Tutti sanno che la riforma liturgica del Concilio cambiò la celebrazione della Santa Messa, ma pochi sono in grado di coglierne l’entità: poiché essendo nati dopo gli anni Sessanta non conoscono la realtà precedente.
Di fronte alla rivoluzione culturale di allora, che cambiò in senso liberale il concetto di autorità e che ammorbò di conformismo anti-sistema le piazze occidentali, anche tra le Mura Vaticane ci si convinse che fosse venuto il tempo di assecondare il secolo.
Fu proprio un certo tipo di clericalismo d’avanguardia, che andava dal Movimento Liturgico (dialogante con i protestanti) ai “preti operai”, a inoculare nel corpo della Chiesa il progressismo, mentre la simultaneità delle rivoluzioni politiche e spirituali sollevò più certezze che dubbi sulla loro contiguità. In Francia, per esempio, nel 1965 la quotidianità monastica era scandita dal significato concreto del primato della preghiera: dalle Lodi, dalla Messa, dall’Angelus e dai Vespri in lingua latina. I pasti erano consumati in silenzio mentre un seminarista leggeva un brano sacro. Due anni dopo, sulla scia del movimento di riforma, si cominciò a fare assemblee basate sull’ “analisi di classe”; le preghiere vennero dette in francese: tutto questo nel nome di una sfida all’ordine esistente nella Chiesa e nella società.
Lo studioso del cattolicesimo politico Yann Raison Du Cleuziou ha da poco pubblicato una ricerca, nella quale afferma che una parte dei padri dell’ordine dei fratelli predicatori si immedesimò nelle idee del “maggio francese”, arrivando a interpretare il Vangelo in chiave marxista. Alcuni padri domenicani non si limitarono a un’adesione ideale a questa dottrina politica, ma lavorarono nelle comunità di base in America latina seminando, in qualche modo, quella che diventerà la Teologia della Liberazione.
Il leader di questa teologia, l’ex francescano Leonardo Boff, affermò: “Ciò che proponiamo non è la teologia nel marxismo, ma marxismo, materialismo storico, nella teologia”. In tal modo anche le Sacre Scritture si trasformarono presto in una sorta di “narrazione sovversiva”.
È certo che l’intellettualismo di taluni teologi fuori e dentro la Chiesa visse nella voglia del cambiamento, ma non corrisponde al vero che le riforme, specie quella linguistica, fossero attese con ansia dalla base del cattolicesimo. A tal fine si banalizzò volutamente il Rito Antico della Messa feriale in quanto celebrata sottovoce dal Sacerdote, in particolare il momento della consacrazione, mentre la comunità pregava in silenzio o diceva il rosario.
S’innestò così un processo di demolizione dall’interno la Chiesa, piuttosto che difenderla da un contesto culturale sempre più ostile, senza capire che il rinnovamento liturgico, da solo, non avrebbe potuto contrastare il crescente processo di scristianizzazione in atto.

 

messa postconciliare

In Italia si criticava il latino in quanto “biascicato dal popolo” che “non capiva il rito”, ma è difficile credere che, a cent’anni dall’unificazione in una società dove si parlavano “dialetti”, si anelasse di pregare in italiano. Per “restaurare” la liturgia sarebbe bastato correggere chi celebrava la Santa Messa in modo frettoloso e sciatto, ma si decise per la rivoluzione.
Il Concilio Vaticano II presentò il nuovo schema liturgico nell’aula conciliare il 22 ottobre 1962, esposto nella Costituzione Apostolica Sacrosanctum Concilium. La Costituzione fu approvata, dopo 15 assemblee plenarie, 328 interventi orali, 360 osservazioni scritte, centinaia di emendamenti e molte votazioni, il 4 dicembre 1963 alla fine della seconda sessione del Concilio presieduta da papa Paolo VI con voto pressoché unanime dei Padri Conciliari (2147 voti favorevoli e 4 contrari). In essa si riaf­fermò la necessità del latino (mai canonicamente abrogato) come strumento della cultura cristiana consolidatosi nei secoli, mentre la lingua volgare fu ammessa come un’eccezione facoltativa; anche se da decenni, per supportare i fedeli nella corretta lettura del rito, venivano usati i messalini con doppia lettura in latino e in volgare.
Dopo la promulgazione della Costituzione, il 25 gennaio 1964 papa Paolo VI emanava il Motu Proprio Sacram Liturgiam, con il quale stabiliva l’attuazione delle disposizioni della Costituzione e annunciava la nomina di una commissione per l’applicazione del documento conciliare. Il progetto della commissione venne approvato dal papa e il 29 febbraio 1964 si istituì il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia presieduto dal cardinale Giacomo Lercaro, come segretario monsignor Annibale Bugnini. Lercaro era una garanzia per i novatori. Già precedentemente, il 15 settembre 1953, l’arcivescovo di Bologna aveva celebrato la Messa in italiano (allora era proibito) a Lugano nella chiesa di san Nicolao. Questo prima del terzo Congresso liturgico internazionale, che aveva proprio per tema “La partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia”.
Al Consilium di circa 50 padri (pochi teologi), seguito con attenzione dal pontefice, spettavano lo studio dei testi liturgici secondo le indicazioni del Concilio, l’emissione delle disposizioni relative agli esperimenti liturgici e la conferma degli atti delle conferenze episcopali secondo l’articolo 3 della Costituzione liturgica. Vennero coinvolti i “fratelli separati” (il Sant’Ufficio fu contrario) i quali, secondo gli ecumenisti filoprotestanti, “essendo stati lontani da secoli da una Roma conservatrice, avrebbero potuto produrre riforme che almeno in parte potevano essere recepite proprio in tema di liturgia”.
Alla Santa Congregazione dei Riti, d’intesa con il Consilium, spettavano l’emissione degli atti che avrebbero dato effetto alle norme preparati dal Consilium, la vigilanza e l’interpretazione delle nuove forme liturgiche.
Il primo documento in materia preparato dal Consilium fu l’Istruzione Inter Oecumenici del 26 settembre 1964; essa entrò in vigore il 7 marzo 1965 e introdusse l’uso facoltativo della lingua volgare nella Messa.
La seconda Istruzione Tres abhinc annos del 4 maggio 1967 affrontò la parte più sacra della Messa: il canone, divenuto “preghiera eucaristica”. Si concesse la recitazione ad alta voce, l’estensione del volgare a tutta la Messa (in contrasto con la Costituzione che ne prevedeva un uso più limitato) e l’introduzione della donna come ministro della liturgia della parola. Vennero poi aboliti quasi tutti i gesti o segni sacri sia nel canone sia nelle altre parti del rito.
Saltò subito agli occhi come la trasformazione della precedente liturgia andasse ben oltre l’inserimento di intarsi liturgici e di una cauta revisione dei riti, e perplessità sconcertate vennero subito espresse dai teologi. La Messa nel Rito Antico era stata una forma ricca di gesti simbolici e di formule che richia­mavano la presenza reale di Gesù. La fondamentale differenza tra l’antica e nuova liturgia, a parte la celebrazione di quest’ultima ad populum, è l’esaltazione conviviale a discapito di quella sacrificale. Ciò a detrimento della stessa Costituzione, che circoscriveva il rinnovamento liturgico al riordino di alcune parti della Santa Messa senza amputazioni, censure o cambiamenti di senso.
Il canto gregoriano fu soffocato nella sua stessa culla, come ha scritto il vaticanista Sandro Magister, sebbene l’Istruzione Musicam Sacram del Consilium (5 marzo 1967) non l’avesse formalmente dismesso. Si presentarono così problemi di ordine musicale, che non potevano non sorgere con l’abbandono del latino e del canto gregoriano, nonché problemi teologici in riferimento alla minore sacralità del rito eucaristico con l’accentuazione della “cena” rispetto alla celebrazione del sacrificio.
Quando vennero esibite le musiche del nuovo rito, il senso del sacro sembrò mortificato dalla banalità dei testi e dalle modalità melense o urlate, mutuate dalla musica leggera, con cui “lodare” il Signore. Non parliamo poi del modo, pessimo, di usare gli strumenti musicali!

messa postconciliare
La Messa – avvicinatasi, almeno esteriormente, a quella protestante – fu riformata sotto il titolo di “missa normativa” e venne presentata all’approvazione del Sinodo dei Vescovi il 21 ottobre 1967.
Fu respinta in data 26 ottobre, con 104 voti negativi, 10 astensioni contro 72 voti favorevoli e, nonostante ciò, il Consilium la promulgò con la Costituzione Apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969 e l’introduzione Institutio generalis missalis Romani.
L’azione comparativa tra il nuovo Messale e il Missale Romanum di San Pio V, alla luce della dottrina cattolica tradizionale, suscitò immediate osservazioni critiche.
Mentre il Concilio tridentino si era limitato a suggerire, demandandola al Papa, una riforma del messale e del breviario, il Concilio Vaticano II espresse, e il post concilio di fatto impose, modi concreti di attuazione delle riforme.
Il 5 giugno 1969 uscì un Breve esame critico del Novus Ordo Missae dei Cardinali Antonio Bacci e Alfredo Ottaviani, i quali affermarono che “la celebrazione ‘aggiornata’ si allontana in maniera impressionante dalla definizione cattolica di Messa, fissata una volta per tutte dal Concilio di Trento, il quale eresse un muro contro le eresie che avrebbero potuto intaccare l’integrità del Magistero”.
Mons. Ferdinando Antonelli, uno degli artefici e sostenitori della riforma liturgica post-conciliare dal 1964, fu membro del Consilium ad exsequandam Constitutionem della Sacra Liturgia. Come studioso rimase turbato dalla piega che prese la nuova riforma dopo il Concilio. Egli sostenne che l’elaborazione dei nuovi libri liturgici, approvati da Paolo VI, fosse stata condotta in modo improvvisato liturgicamente e teologicamente. Nel suo manoscritto del 23 aprile 1967 egli scrive:

Pochi hanno una qualche competenza specifica. Qualche volta, e in cose gravissime, come quella delle nuove anafore, è stato distribuito uno schema la sera, per discuterlo l’indomani; il card. Lercaro non è l’uomo per dirigere una discussione. Il P. Bugnini ha solo un interesse: andare avanti e finire. Peggiore il sistema delle votazioni. Ordinariamente si fanno per alzata di mano, ma nessuno conta chi l’alza e chi no. Una vera vergogna, non si è mai potuto sapere quale maggioranza sia necessaria, se dei due terzi o quella assoluta.

Il pontefice non rispose alle gravi e autorevoli critiche, le quali riuscirono solamente a spostare l’entrata in vigore del nuovo rito dal 30 novembre 1969 al 28 novembre 1971.
Paolo VI (che fin dal 7 marzo 1965 “testò” la messa in italiano nella chiesa di Ognissanti a Roma) cercò di tranquillizzare i fedeli, tentando di arginare le critiche, fino a dichiarare che i riti non costituivano definizioni dogmatiche; sottolineando come il Messale provenisse “dall’officina competente”, cioè la Sacra Congregazione per il Culto Divino, quasi a distaccare la propria responsabilità da quella di quel dicastero.
Il 14 giugno 1971 si abbandonò il criterio della scadenza per l’entrata in vigore del nuovo Messale, lasciando l’arbitrio della scelta alle conferenze episcopali, le quali stabilirono quando le versioni in lingua vernacola avrebbero dovuto o potuto usarsi. A queste veniva inoltre accordato, con disposizione veramente rivoluzionaria, la facoltà di prescrivere l’uso della lingua vernacola nelle messe cum populo: vale a dire il permesso di interdire l’uso della lingua latina rovesciando così la normativa conciliare.
L’opposizione continuò a sostenere l’illegalità dell’ultima Notificatio ma, anche alla luce del silenzio del Pontefice, la S. Congregazione rispose con la seconda Notificatio del 28 ottobre 1974, la quale ribadiva che il nuovo messale era il solo a essere in vigore.
Il post concilio espose così i fedeli stessi a forme indebite di culto e a creazioni soggettive non più conformi a ciò che, da secoli, era stato stabilito dalla Chiesa.