La tesi della professoressa Kelly M. Greenhill è perfettamente condensata nell’inquietante titolo del libro: Armi di migrazione di massa. Il volume che arriva in Italia grazie all’editore Leg di Gorizia è uscito sette anni fa negli Stati Uniti e nel tempo, attraverso l’esplosione dei movimenti migratori, ha acquistato ulteriore valore e pertinenza.
La docente di scienza politica e relazioni internazionali alla Tufts University e ricercatrice a Harvard illustra con anglo-sassone rigore che non tutte le migrazioni sono uguali. Se i grandi movimenti del nostro tempo sono alimentati da guerre, povertà, miseria, all’interno di questi flussi si distinguono azioni deliberate di governi e regimi che strategicamente utilizzano la popolazione come strumento di coercizione verso alleati e avversari. Chi non dispone di mezzi militari, posti privilegiati ai tavoli delle trattative o infrastrutture finanziarie, spesso ha nel proprio arsenale non convenzionale bombe demografiche da utilizzare senza scrupoli per ottenere concessioni. Sono gli effetti collaterali della globalizzazione. Si tratta di una strategia che alle volte si accompagna a uno stato di guerra, ma nella maggior parte dei casi è un’azione che avviene in tempo di pace. L’uso spregiudicato delle frontiere con l’Europa da parte di Recep Tayyip Erdogàn è l’esempio più attuale, ma a lungo Gheddafi ha usato gli sbarchi verso le nostre coste per ottenere contropartite, e non è un caso che l’analisi di Greenhill parta proprio dalla Libia. L’Italia è sul fronte di questo conflitto a intensità variabile.
La studiosa considera anche casi meno noti, come quello dei «boat people» di Haiti che, con l’unico mezzo che avevano a disposizione, facevano pressione sugli Stati Uniti per il rimpatrio del presidente legittimo Jean-Baptiste Aristide. La professoressa riporta le parole di un abitante di un villaggio haitiano raccolte da un cronista del Time nel 1994: «Non possiamo procurarci armi per combattere, l’unico mezzo che abbiamo è costringere gli americani a mantenere le loro promesse. Il solo modo per riuscirvi è fare ciò che essi temono di più, vederci arrivare negli Stati Uniti». Parole incredibilmente attuali per un’America che ha eletto un presidente come Donald Trump che vuole un muro sul confine meridionale, fa decreti restrittivi sull’immigrazione e promette negoziati «fair» con i competitor stranieri.
Uno dei paradossi che il libro mette in luce è come i bersagli delle migrazioni strategiche sono quasi sempre le democrazie liberali che predicano accoglienza e compassione. È un circolo vizioso: i Paesi che dovrebbero costituire l’approdo umanitario si trasformano in vittime politiche, con la tragica aggravante che il braccio di ferro migratorio coinvolge esseri umani. Le armi di immigrazione di massa sono persone. Gli Stati sotto pressione, scrive Greenhill, sono costretti talvolta a svelare i loro atteggiamenti ipocriti, e da qui parte la conversazione con Panorama.
Nel suo libro parla di «costo dell’ipocrisia» da parte dei bersagli delle strategie migratorie. Di che cosa si tratta?
Sono costi politici che possono presentarsi quando c’è una disparità, reale o percepita, fra l’impegno verso i valori liberali di uno Stato o di un leader e un comportamento che tradisce l’impegno stesso.
È come un giocatore di poker che svela un bluff dell’avversario.
Una volta che un governo si è pubblicamente impegnato su un principio, altri possono usare quelle posizioni per svelare la distanza che c’è fra le parole e i fatti.
La cosa può essere molto imbarazzante.
Mostrare le contraddizioni può anche comportare conseguenze legali molto serie, non soltanto imbarazzi diplomatici.
Che cosa fanno gli Stati «ipocriti» per difendersi?
Di solito tentano di salvare la faccia colmando la distanza fra le promesse e le azioni, o cambiando i loro comportamenti. Ma questi cambiamenti possono comportare la concessione alle richieste degli Stati che vogliono estorcere benefici.
Nella guerra in Siria vede anche l’uso deliberato e coercitivo dei profughi?
Migranti e rifugiati sono stati usati e continuano a essere usati strategicamente come pedine nella guerra e come strumenti per ridisegnare la composizione demografica nel territorio.
E all’esterno, nei confronti dell’Europa?
Vengono usati come strumenti coercitivi contro PUnione europea e i singoli Paesi membri. L’accordo fra la Tlirchia e l’Unione è il caso di scuola del tipo di pressione di cui parlo nei miei studi.
Vale anche per gli Stati Uniti? Ci sono Stati che hanno usato armi migratorie nei loro confronti?
Ci sono molti casi, da Cuba ad Haiti. Gli Usa sono storicamente oggetto di queste azioni.
La Convenzione sui rifugiati nel 1951 ha formalizzato gli standard dell’accoglienza, e questo ha messo certi Paesi nelle condizioni di fare leva sullo loro potere demografico. Nel tentativo di risolvere un problema, la comunità internazionale ne ha creato un altro?
Le conseguenze involontarie sono purtroppo molto comuni nelle relazioni internazionali, sia nell’ambito politico sia in quelli economico, sociale e militare. Questo non vuol dire, però, che tali strategie migratorie abbiano necessariamente promosso la destabilizzazione in certe regioni. In Medio Oriente e in Nord Africa oggi sono in gioco forze che assommano un complesso insieme di circostanze storiche e posizioni politiche. Lo scenario è la conseguenza di diversi fattori a volte indipendenti tra loro. L’immigrazione è una tessera molto importante di questo puzzle, ma non è certo l’unica.
In questa dinamica, i Paesi occidentali finiscono per aiutare gli avversari che, a parole, combattono?
È una domanda complicata che non può essere risolta con un sì o un no: ma in un certo modo e in determinate circostanze è esattamente quello che è successo e sta succedendo.
Mattia Ferraresi, “Panorama”.