Ma noi bergamaschi abbiamo sempre avuto la fama (che chissà perché poi non ci dispiace) di essere dei rozzi montanari? Sette secoli fa era già così, lo attesta il disprezzo dell’Alighieri che, nel De vulgari eloquentia, scriveva di un dialetto locale “barbarissimus”, e, accostando gli abitanti tra l’Adda e l’Oglio ai bresciani e ai veronesi, li definiva “hoc omnes qui magara dicunt”, tutte genti che dicono “magara”. In sintesi: un accento spaventoso che in bocca alle donne le fa sembrare uomini.
Bene, ma risalendo indietro nel medioevo o prima dell’arrivo dei romani, chi erano gli abitanti di queste valli e queste città? Un volume della rivista dell’associazione culturale Terra Insubre dedicato proprio a Gli orobi. Alle radici delle genti bergamasche, consente di intraprendere un viaggio nel tempo alla ricerca di quei popoli nostri antenati. Erano chiamati orobi (o forse orombi) una parola che oggi è usata per denominare una catena di montagne oppure come sinonimo per evitare di ripetere bergamaschi o atalantini nelle cronache sportive. Altri usi ai nostri giorni non sono noti. Eppure furono genti importanti: Plinio il Vecchio ne attesta la diffusione dall’attuale Canton Ticino alla Bergamasca passando per Como. Si pensa fossero celti ma insediati nella pianura padana ben prima della grande ondata gallica del secolo IV a.C. Questi celti orobi – probabilmente mischiati ad altri popoli preindoeuropei come i misteriosi Liguri o i Reti delle valli alpine – rientravano nella cosiddetta cultura di Golasecca, IX-IV secolo a.C.
Cosa ci hanno lasciato? Forse qualcosa in termini di genetica, qualche aspetto del carattere chiuso e pugnace questi guerrieri e minatori ce l’hanno lasciato. Ma di questo si può solo fantasticare. L’archeologia e le scienze storiche d’altra parte rintracciano elementi celtici dove meno te l’aspetteresti: dalla testa di Santa Lucia, la più amata dai bambini bergamaschi e bresciani, alle maschere e agli strumenti musicali tradizionali.
Lady Godiva
Primo caso: la dea celtica Epona, assunta nel pantheon romano come nume tutelare dei cavalli e degli equini in genere, riaffiora non solo nella leggenda medievale inglese di Lady Godiva, la bella nobildonna che per pietà verso i poveri cavalca nuda per le vie della città ottenendo l’esenzione dalle tasse per i bisognosi, ma ha delle sorprendenti incarnazioni anche in Lombardia. Il cosiddetto “calendario di Guidizzolo”, ritrovato nel paese del Mantovano e risalente a un periodo compreso fra la metà del primo secolo a.C. e del primo d.C., attesta l’esistenza di un culto di Epona il 18 gennaio; culto locale, in quanto non ce ne è traccia in altri calendari romani.
Ma la rinascita più strepitosa della dea nelle nostre terra è un’altra. “La fruizione calendariale svolta da Epona”, spiega Giancarlo Minella, “venne successivamente assunta dalla figura di Santa Lucia, nella tradizione cristiana: possiamo affermare questo grazie ad alcuni simboli che riprendono esattamente gli attributi iconografici della divinità celtica. Essi consistono nella rappresentazione della Santa a dorso di cavallo (o asino), recante la cornucopia o un piatto ricolmo di frutti”. Il 13 dicembre, nel calendario giuliano in vigore nella cattolicità fino al 1582, corrisponde al 21 dicembre, il solstizio d’inverno; il giorno più corto dell’anno. Non distante dal 18, il giorno di Epona. Come in innumerevoli altri casi, la Chiesa avrebbe sovrapposto una figura e un nome nuovo, quello della martire siciliana, a un culto preesistente, anch’esso centrato sulla luce.
Un’altra figura del folklore bergamasco – e lombardo in genere – che ha ascendenze gaeliche, per quanto forse non così antiche da risalire agli orobi bensì ai monaci irlandesi che cristianizzarono il continente dopo le invasioni barbariche, spunta dalla chiesa di Santa Brigida, alta valle Brembana. Qui, in un affresco quattrocentesco attribuito ad Angelo Baschenis, sotto le spoglie di un altro santo, Onofrio eremita, appare una figura dal corpo ricoperto di peli e con un bastone in mano. Più che al venerato anacoreta fa pensare alle raffigurazioni pittoriche tipiche di tutto l’arco alpino, dell’homo selvaticus, l’om selvadech, lo ieti polentone.
Santa Lucia e cornamuse
Figura mitica che fa capolino anche in un altro affresco brembano, su un palazzotto di Oneta, nei pressi di San Giovanni Bianco accanto alla scritta di sonorità venete, “Chi no è de chortesia, non intrighi in casa mia. Se ge venes un poltron, glie darò del mio baston”. Qui la cosa interessante è che l’abitazione su cui è stato dipinto l’uomo selvatico è nota tradizionalmente come Casa di Arlecchino. Ci viveva nella prima età moderna la famiglia Grataroli, mercanti con forti legami nella capitale Venezia; forse i primi Zanni, le prime maschere trapiantate dalle valli bergamasche in Laguna erano servitori di questa dinastia. E ci si può chiedere se il bastone e le intemperanze di Arlecchino non siano forse figlie del randello e della animalità proprie dell’uomo dei boschi.
Santa Lucia, Arlecchino, e poi? A origini celtiche si fa risalire pure il baghèt, la cornamusa bergamasca, proibita dai Savoia perché poco “italiana” e sostituita con la zampogna delle regioni centromeridionali, e che sta tornando lentamente in auge presso alcuni gruppi di appassionati. In certe località lo strumento prende il nome di pìa baghet, “senza dubbio il più affascinante”, nota Piergiorgio Mazzocchi, “perché è l’esatta trasposizione del termine scozzese bag pipe”. E a Bergamo, in omaggio alla lontana connessione con la Caledonia, è stata fondata proprio una ensemble di grandi cornamuse scozzesi, con tanto di kilt a quadrettoni.
Giovanni Longoni, “Libero”.