Schede di colore diverso per il SI e per il NO all’annessione. Così il Veneto ha “scelto” l’Italia
Il plebiscito che sancì l’annessione del Veneto al Regno d’Italia (21-22 ottobre 1866) viene sistematicamente liquidato in poche battute sia dai testi scolastici sia da quei libelli che il regime stampa a getto continuo, visto che la storiografia ufficiale sostiene che si svolse “dappertutto in mezzo a scene di fervore patriottico, con feste popolari per la liberazione” (1) . E i risultati sembrano sottolineare questo fervore. Il 27.11.1866 la corte d’appello di Venezia pubblicò l’esito: su una popolazione di 2.485.983 abitanti, gli aventi diritti al voto erano 646.789; i voti contrari furono 70 e le schede nulle 72 (2) . Altri risultati vengono però citati da fonti autorevoli, con incertezza quanto meno dubbia, come D. Mack Smith, Storia d’Italia (fav. 641.000, contrari 69), G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna (fav. 647.426, contrari 60), TCI, Veneto (fav. 674.426, contrari 69); le lapidi poste sul monumento veneziano a Vittorio Emanuele II e in piazza delle Erbe a Padova riportano rispettivamente 641.758 e 69, la prima, e 647.246 contro 69, la seconda. In ogni caso, i voti favorevoli sono pari al 99,99%, una percentuale che fa nascere più di qualche sospetto sia per il ricordo tutto sommato positivo che gli austriaci hanno lasciato nelle campagne venete, sia perché simili percentuali non sono state ottenute neanche dai regimi di Hitler o di Stalin, anche se recentemente una tale strabiliante affermazione è riuscita a Henver Hoxa, il dittatore albanese.
In quali condizioni si giunse all’appuntamento plebiscitario? Come è noto, fino al 1864 il Veneto fu uno stato autonomo nell’ambito dell’impero asburgico. Nello stesso anno, Napoleone III aveva combinato un’alleanza italo-prussiana in funzione antiaustriaca e antiveneta: nonostante i veneti (ossatura dell’esercito e della marina asburgica) avessero sconfitto gli italiani a Custoza e a Lissa, gli imperiali subirono una disfatta, a Sadowa, a opera dei prussiani. In breve, dunque — dopo la Pace di Vienna del 3 ottobre 1866 — il Veneto venne consegnato al generale francese Le Boeuf (19 ottobre) che lo passò ai notabili di Venezia i quali, a loro volta, lo consegnarono al generale di Revel, rappresentante di Vittorio Emanuele II. (3)
Le genti venete vennero così letteralmente sballottate da un potente all’altro; pur con mezzi di informazione dall’intuibile livello e un apparato burocratico-organizzativo alquanto traballante, tuttavia, appena pochi giorni dopo lo squallido mercanteggiare, il voto fornì un simile, incredibile risultato… Dopo queste premesse la lettura di Malo, anno 1866, di S. Eupani, non può che inquietarci ancora di più: l’autore (forse involontariamente visto che la sua opera è un crescendo di patriottismo tricolore e che il suo scritto fu elogiato in termini entusiastici dal “Comitato per le celebrazioni del centenario 1866”) scrive infatti: “Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col ‘sì’ e col ‘no’ di colore diverso”; inoltre, “ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al Presidente che lo deponeva nell’urna.” In barba alla segretezza del voto e ai controlli internazionali che dovrebbero caratterizzare le questioni di carattere, appunto, internazionale. Del resto, che i brogli elettorali fossero prassi diffusa nel Regno d’Italia ce lo conferma anche il Pittarini il quale, nella sua commedia Le elezioni comunali in villa (la cui ultima stampa risale, guarda caso, al 1912), descrive i fatti tragicomici che caratterizzarono le elezioni post 1866. È illuminante il seguente dialogo:
1° Contadino — Ciò, chi ghetu metesto ti sulle schene?
2° Contadino —Mi gnente, me le ga consegnà el cursore scrite e tuto.
1° Contadino — Eanca mi istesso, manco faiga.
2° Contadino — Manco secade.
E anche per questo autore ci sembra giusto sottolineare che fu membro del Comitato Liberale Vicentino e che fu arrestato dalle autorità austriache nel 1859: non siamo dunque di fronte a un austriacante, bensi a un liberale veneto che si accorgeva di come sotto il dominio italico le cose non andassero poi così bene. Lo stesso Garibaldi sostenne che la “corruzione dei publicisti, nei plebisciti, nei collegi elettorali, nella Camera, nei ministeri, nei tribunali (…) fu alzata a sistema di governo”. (4) Dopo queste rivelazioni sull’estrema scorrettezza elettorale del nuovo Regno Italiano, vediamo di fare un piccolo passo indietro. È infatti tutto da dimostrare che il popolo veneto (il quale, sventolando la bandiera del leone di S. Marco, aveva dimostrato nel 1809-10 e nel 1848 tutto il proprio valore e ardimento) fosse così ansioso di essere “liberato” dai Savoia. Non si riesce altrimenti a capire che necessità ci fosse di far precedere il plebiscito da “una vera campagna-stampa intimidatoria dei fogli cittadini”(5) . Si scriveva a esempio: “Ricordino essi [i ‘Parroci e Cooperatori de nostri villaggi’) che ove in alcuna parrocchia questo voto non fosse sì aperto, sì pieno quale lo esige l’onore delle Venezie e dell’Italia, sarebbe assai difficile non farne mallevadrice la suddetta influenza clericale, e contenere l’offeso sentimento nazionale dal prendere contro i Preti di quelle parrocchie qualche pubblica e dolorosa soddisfazione…”. (6)
Questa politica intimidatoria tuttavìa non ebbe grossi effetti sulla partecipazione popolare: “A Valdagno, ad esempio, nonostante il plebiscito venisse decantato non semplice formalità e cerimonia, ma una festa, una gara (…) solo circa il 30% sulla complessiva popolazione del Comune si recò a votare, mentre un buon 70%, per chissà quale motivo, preferì continuare ad occuparsi dei fatti propri, indifferente all’avvenimento. Analogamente in tutti i distretti…” (7) Lo stesso D. Mack Smith scrive: “Garibaldi s’infuriò perché i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo.” (8) Anzi, “per commemorare a modo loro il primo anniversario dell’arrivo nel Vicentino dei liberatori ‘talgiani, il 10.7.1867 proprio i contadini della zona di Thiene e di S. Germano inscenarono violente manifestazioni a sostegno della causa dei frati cappuccini di S. Maria dell’Olmo”.
Del resto, che le condizioni di ordine pubblico non fossero esaltanti lo conferma persino L’Arena di Verona, giornale italianista per eccellenza, che il 9.1.1868 scriveva: “Fra le mille ragioni per cui noi aborrivamo l’austriaco regime, ci infastidiva sommamente la complicazione e il profluvio delle leggi e dei regolamenti, l’eccessivo numero di impiegati e specialmente di guardie e di gendarmi, di poliziotti, di spie. Chi di noi avrebbe mai atteso che il governo italiano avesse tre volte tanto di regolamenti, tre volte tanto di personale di pubblica sicurezza, di carabinieri, ecc.”. I liberatori “talgiani” arrivarono al punto di proibire le tradizionali processioni sacre in quanto assembramento pericoloso per l’ordine pubblico.! (9) Oltre a tutto questo, l’Italia liberatrice portò la coscrizione obbligatoria, innalzò l’analfabetismo nel Veneto da 64 al 69%, aumentò vertiginosamente le tasse e introdusse quella famigerata sul macinato. Le condizioni economiche generali peggiorarono e ben presto si abbattè sui Veneti una catastrofe di proporzioni bibliche, quale essi non avevano più conosciuto negli ultimi 1500 anni della loro storia: l’esodo nell’America del Sud. È il dramma per centinaia di migliaia di uomini e di donne, di famiglie, la tragedia per intere comunità… E nel paese di Conco, gli emigrati vennero addirittura elencati nel registro dei morti. (10)
Note
(1) Episodica risorgimentale nel Vicentino, Comitato Celebrazioni centenario 1866, Vicenza 1968.
(2) Marasca-Muraro, Campiglia dei Berici, Ed. del Basso Vie., 1980.
(3) Paolo Bergami, «Gazzettino», del 17/3/1981.
(4) «Gazzettino» del 5/12/1982.
(5) E. Franzina, Vicenza, storia di una città, Neri Pozza 1981.
(6) A. Navarotto, Ottocento vicentino, Padova 1937.
(7) A. Kozlovic, Immagini del Risorgimento vicentino, Pasqualotto 1982.
(8) D. Mack Smith, Storia d’Italia, Laterza,
(9) «La difesa del popolo» del 10/5/1981.
(10) Paolo Bergami, «Gazzettino» del 17/3/1981.