Se in apparenza parlare di società segreta induce al sospetto di chissà quali cospirazioni, nel nord della Costa d’Avorio, presso l’etnia senufo, esiste una consorteria tutt’altro che misteriosa e inquietante: il Poro. Come sempre accade nelle popolazioni animiste, la necessità di interagire positivamente con il mondo degli antenati e degli spiriti è tale che – pena la sopravvivenza stessa della comunità – presso i Senufo si è costituita da tempi remoti una congregazione di uomini del villaggio, detentori dei riti ancestrali di spiritualità e divinazione, che si occupano delle varie fasi di passaggio della vita di ogni individuo, controllando a tutti gli effetti i vari aspetti pratici e morali sui quali si fonda la comunità.
Il primo dei cicli iniziatici è fondamentale per divenire essere umano “completo”, quello che trasforma l’adolescente in “persona” e quindi in adulto. Si tratta di una vera prova di forza, sia fisica sia psicologica: il ragazzo si addentra per un mese nella foresta sacra, oscura e sconosciuta, lasciando la madre e con lei le proprie sicurezze; la vegetazione si fa sempre più fitta, ogni ramo nasconde un’insidia, si odono strani fruscii e urla lontane, il cuore balza nel petto a ogni passo. E poi le notti, interminabili, collose e fradicie come solo in foresta può accadere, e gli spiriti mascherati che appaiono e scompaiono come negli incubi peggiori, e orribili figure che spingono, strattonano, gridano: tutt’intorno è buio, paura e pericolo. Si resiste per diventare uomini.
Ed ecco che tutto è finito: gli uomini del Poro, tramite le maschere, i travestimenti e i tamburi, con la complicità della foresta sacra a cui nessuno, tranne gli iniziati, ha accesso, hanno condotto il rito con sapienza antica e restituiscono alla comunità i nuovi “adulti”, che hanno riscattato con le sofferenze la loro identità e sono finalmente pronti ad assumere un ruolo sociale.
Ma se da un lato il terrore – simbolo delle pene e delle difficoltà della vita adulta – ha sortito i suoi frutti, dall’altro rimane la necessità di sdrammatizzarne l’effetto con un rito giocoso che negli anni è diventata una danza quasi acrobatica, il boloye, la danza della pantera.
Assistere a questa esibizione nei pressi di Korhogo è stato al tempo stesso divertente e ipnotico: in un cerchio umano formato da suonatori di strumenti rituali, donne sorridenti, bambini curiosi, anziani nei loro vestiti di festa e il griot portavoce del capo villaggio, giovani mascherati in costumi maculati e con il volto coperto da reti e stoffa grezza si esibiscono in un crescendo di piroette, salti, acrobazie. L’atteggiamento irriverente di sfida gli uni verso gli altri simula un gioco di potere quasi animale, una provocazione scanzonata messa in scena tanto per scacciare spiriti negativi quanto per attirare l’energia positiva e celebrarla. Il tutto in quell’atmosfera assordante ma armonica che l’anima africana dona a chi la sa accogliere dentro di sé.
Ancora una volta mi rendo conto di quanto sia importante la fisicità e la gestualità tra i popoli ancora strettamente legati alla natura e alle sue manifestazioni. Rivestendo i panni di un’entità “altra” tramite maschere, ornamenti, copricapi, se ne assume anche il potere e quindi il diritto-dovere di impartire regole e farle rispettare. Nessuno osa mettere in discussione l’autorità della maschera, così è stato e così sarà, e la società segreta del Poro ne è l’essenza.
Terminata la danza, gli uomini pantera tornano a essere ragazzi sorridenti e spensierati, i musicisti si complimentano per l’esibizione, le donne si allontanano verso le capanne per riprendere i lavori domestici; gli anziani si trattengono con gli ospiti venuti da lontano e rinnovano espressioni di benvenuto e di augurio, il griot, gran maestro di cerimonia, racconta ad alta voce le sue storie… Mentre il sole tramonta e incendia il cielo africano, nel villaggio cala un silenzio che avvolge corpo e anima: anche oggi gli spiriti della foresta sacra sono in pace.