La riforma liturgica del Concilio Vaticano II – promulgata attraverso la Costituzione Apostolica Sacrosanctum Concilium, che diede alla luce il Missale Romanum del 3 aprile 1969 con il Novus Ordo Missæ – compie mezzo secolo di vita.
È consuetudine consolidata nel tempo che in ogni contesto ci siano voci discordanti nell’interpretare pagine di storia o di attualità; quando poi si affrontano argomenti che riguardano la Chiesa Cattolica, è ovvio che alcuni rivendichino a sé la “giusta” ermeneutica. Per comprendere meglio l’operato e i risultati dei Padri conciliari in quel consesso, è quindi necessario ripercorrere per sommi capi la storia della liturgia cattolica nell’evoluzione del rito romano.
La liturgia romana
La liturgia romana è la fusione tra la preghiera eucaristica e la recita dei salmi, accompagnata da letture bibliche ereditate dalla sinagoga. Uscita dalle catacombe, s’arricchì dei riti delle cinque sedi patriarcali di Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e in seguito Costantinopoli. Essa raggruppò in corpi organici i primi testi dell’azione eucaristica del sacramentario dei papi Leone Magno, Gelasio e Gregorio Magno.
Carlo Magno nel 783 chiese a papa Adriano I un sacramentario romano puro per sostituire i “gelasiani misti” che fece integrare dal monaco Benedetto di Aniane con il Supplementum. La successiva sintesi tra il gregoriano adrianeo e i gelasiani creò il gregoriano “gelasianizzato” del secolo X. La raccolta di rubriche cerimoniali chiamate Ordines romani rielaborato in territorio franco-germanico costituì il pontificale romano-germanico del secolo X.
Verso la metà del secolo XI, gli imperatori ottoniani imposero papi germanici che celebrassero secondo le modalità della loro terra. La liturgia dei secoli successivi non è dunque da ritenersi romana pura, ma il risultato dell’innesto su quel ceppo di elementi del contesto franco-germanico. Dalla riforma monastica cluniacense derivarono le devozioni alla Croce, all’Eucaristia, a Maria e ai Santi, la commemorazione annuale dei fedeli defunti e le messe celebrate in forma “privata”, anche grazie agli spazi architettonici delle chiese dotate di numerosi altari laterali. L’unificazione del sacramentario, lezionario e antifonario per la cura delle anime nei territori lontani dai centri diocesani o monastici fu funzionale a un’esigenza pratica: avere un unico libro trasportabile. L’azione eucaristica divenne sempre più competenza dei sacerdoti e meno della celebrazione comunitaria.
Nella liturgia del secolo X si fece strada l’uso della drammatizzazione durante i riti pasquali. La riproduzione visiva rispondeva all’esigenza di avvicinare il popolo ai contenuti delle celebrazioni e di suscitarne così una più intensa partecipazione emotiva e quindi spirituale.
Nell’Ordo lateranense del 1140 si prescriveva ai celebranti di leggere tutti i testi destinati al canto ispirati dal genio musicale di Guido D’Arezzo: il monaco benedettino aveva dato un nome alle note, ispirandosi alle sillabe iniziali delle sezioni di una strofa dell’inno di san Giovanni Battista, ideando
una forma di scrittura musicale che fissava gli intervalli tra i suoni per la diafonia e la polifonia, codificando la moderna notazione musicale.
In questo periodo, fondamentale nella celebrazione della Santa Messa fu l’introduzione del Credo. Quando l’imperatore Enrico II venne a Roma si meravigliò che mancasse nella liturgia la professione di fede, e gli venne spiegato che la Chiesa di Roma non avrebbe dovuto esprimere la professione di fede in quanto depositaria dell’ortodossia. Papa Benedetto VIII tuttavia cedette all’insistenza imperiale e cominciò a farlo recitare, con l’introduzione del filioque, dopo il Vangelo.
Con papa Gregorio VII, nel 1073 s’impose la celebrazione delle feste dei papi santi in tutte le chiese locali nell’intento di riportare la liturgia all’antico uso romano, priva degli intarsi franco-germanici.
Papa Innocenzo III fu l’autore di sei libri raccolti nel commento alla Messa dal titolo De Officio Missae seu de Sacri altaris mysteriis, e introdusse cinque colori liturgici: verde, viola, rosa, rosso, nero soprattutto nell’uso antico.
Intanto l’offerta del pane e del vino da parte dei fedeli venne sostituita da un’elargizione in denaro destinato al mantenimento dei ministri e dei poveri, e la Comunione eucaristica diventò meno frequente. Ciò accadde anche a causa del sentimento di inadeguatezza personale rispetto alla santità del Sacramento, accentuata dalle regole rituali, dalla severità delle norme penitenziali e da quelle sul digiuno. A questa pratica avevano cercato di far fronte le disposizioni disciplinari del canone del Lateranense IV (1215) che prescrisse la Comunione obbligatoria a Pasqua per ogni fedele giunto all’età della discrezione.
La “visione” del Corpo di Cristo all’inizio del secolo XIII nell’elevazione eucaristica divenne una consuetudine fecendo da preludio all’elaborazione del concetto di transustanziazione operata dalla teologia scolastica con la decisiva riflessione di Tommaso d’Aquino.
Già nel 1208, santa Giuliana di Cornillon o di Liegi, suora sedicenne, durante un’estasi vide la luna piena risplendere, ma deformata da un lato da una linea in ombra; la visione rappresentava la Chiesa ancora “priva” della festa in onore del SS. Sacramento. Dopo qualche anno, Giuliana la rese pubblica e Robert de Thourotte, vescovo di Liegi, nel 1246 accolse la richiesta di istituire la festa nella sua diocesi.
Nel 1263 Pietro da Praga, un sacerdote boemo che diffidava della reale presenza di Cristo nell’Eucarestia, in pellegrinaggio a Roma, mentre celebrava Messa, tenendo l’Ostia sopra il calice al momento della Consacrazione, vide stillare dalla particola gocce di sangue che bagnarono il corporale. In quei giorni si trovava in città papa Urbano IV che, venuto a conoscenza dello straordinario evento, organizzò una solenne processione per scortare la preziosa reliquia in modo trionfale tra canti e fiori fino a Orvieto. Accertato il miracolo. Urbano IV fece promulgare la Bolla Transiturus de hoc mundo con cui istituiva nella Chiesa la Solennità del Corpus Domini.
Con la fine del XIII secolo si giunse a una tappa non irrilevante nel processo di latinizzazione delle chiese bizantine in Italia: il sinodo di Melfi del 1284 rese per loro obbligatoria l’introduzione del Filioque nella professione di fede.
Nella seconda metà del XIV secolo furono riordinate le regole per l’ufficiatura corale dei Capitoli: i fedeli sarebbero stati avvertiti della preghiera con il suono delle campane e avrebbero potuto intervenire direttamente durante le celebrazioni dei Vespri domenicali.
Nel 1334 papa Giovanni XXII introdusse nel calendario della Chiesa la festa della Santissima Trinità per la domenica dopo Pentecoste, superando l’opposizione della Sede Apostolica, contraria a legare a un giorno specifico il mistero di Dio sempre celebrato.
Papa Gregorio XI, ultimo dei sette papi della “cattività avignonese”, fissò al 21 novembre la festa della Presentazione di Maria al Tempio, mentre papa Urbano VI introdusse nel 1389 la festa della Visitazione della Beata Vergine Maria.
Il XVI secolo si aprì con il desolante quadro spirituale lasciato da Alessandro VI Borgia. Mecenate e protettore di insigni umanisti, fu accusato pubblicamente da Girolamo Savonarola per la sua condotta immorale. Questi, scomunicato e condannato a morte per eresia, scrisse il Trattato nobilissimo del sacramento, testo emblematico per intendere gli sviluppi dell’approccio allegorico alla celebrazione della Messa.
Papa Giulio II, oltre ad accentuare lo splendore dei luoghi di culto, fondò la Cappella musicale che da lui prese il nome per garantire la celebrazione quotidiana delle Ore canoniche. Morì durante il Concilio Lateranense V (1512-1517) da lui convocato e portato a termine da papa Leone X. A lui fu indirizzato un Libellus scritto dai camaldolesi Vincenzo Querini e Tommaso Giustiniani, in cui si chiedeva l’unificazione dei libri liturgici e si illustrava la situazione deplorevole in cui versava la pietà dei fedeli, spesso vittime della superstizione e inclini a credere alla magia.
Il domenicano Alberto Castellani (o da Castello) preparò una nuova edizione del pontificale romano, dedicandola a Leone X e compose un altro libro liturgico : il Liber sacedotalis, nel quale raccolse tutti gli ordinamenti rituali di competenza presbiterale, riordinando tutte le leggi canoniche con attenzione pastorale.
La controriforma e l’unità cattolica
La chiusura del Concilio Lateranense V coincise con il divampare della riforma protestante. Il Concilio di Trento nel 1545 iniziò con la consapevolezza che la Riforma cattolica, nel campo liturgico, si sarebbe attuata solamente grazie a un clero formato e organizzato nei seminari.
Le prescrizioni del Concilio e la Controriforma introdussero l’uso di nuovi libri liturgici, che furono strumenti fondamentali per l’unità cattolica contro l’insidia protestante perché, come disse Sant’Agostino, da Occidente a Oriente si diffondesse lo splendore dell’unica fede.
Si giunse così alla pubblicazione del breviario nel 1568 e del Missale romanum nel 1570 di San Pio V. Nella bolla di pubblicazione del breviario comparve il criterio, esteso poi ad altri libri liturgici, che ne sanciva l’uso per tutte le Chiese d’occidente, a eccezione di quelle provviste di un rito risalente a duecento anni prima. Questa disposizione lasciò inalterata la liturgia ambrosiana decretando la fine di altre espressioni rituali, a eccezione del rito ispanico conservatosi per iniziativa del cardinale Jiménez de Cisneros nella cappella del Corpus Christi all’interno della cattedrale di Toledo.
Giovanni Pierluigi da Palestrina, con le sue composizioni polifoniche ispirate alla purezza gregoriana e all’intelligibilità del testo. rappresentò l’esito più ragguardevole del disciplinamento attuato a Trento. Tra storia e leggenda si dice che, durante il Concilio, sia stata la sua Missa Papae Marcelli a salvare la musica sacra. La sua opera si distinguerà per le limpide trame polifoniche e la comprensione del testo, bandendo così gli elementi impuri, come i temi delle canzoni profane o i madrigali amorosi, base tematica di molte composizioni inserite nella liturgia dell’epoca.
Nell’età del barocco la liturgia si esaltò grazie alle forme architettoniche dei luoghi sacri. Gli altari, dotati di una piccola mensa, furono concepiti come grandiosi monumenti con al centro il tabernacolo sovrastato dalla pala con le immagini dei santi venerati.
Al culto eucaristico si affiancò quello mariano dopo l’istituzione della festa del Rosario a ricordo della vittoria di Lepanto (1571) e quella del Nome di Maria, per commemorare la cacciata dei Turchi da Vienna (1683) Si rafforzò la devozione alla Vergine nel giorno di sabato, i pellegrinaggi s’intensificarono e così l’edificazione di meravigliosi santuari.
Papa Urbano VIII reagì al dilagare dell’eresia giansenista con la bolla In eminenti del 1642 con l’introduzione del culto al Sacro Cuore di Gesù, inteso come riconoscimento dell’infinita misericordia divina. Tale festa liturgica, celebrata per la prima volta in Francia nel 1672 grazie alla suora dell’Ordine della Visitazione, santa Margherita Maria Alacoque, si estenderà a tutta la Chiesa nel 1856 grazie al beato Pio IX.
La spinta del “volgare”
Il secolo seguente avrebbe portato gravi sconvolgimenti in Europa; sotto la cenere della crisi economica stava covando l’opera distruttrice che avrebbe portato il morbo della Rivoluzione francese.
Papa Benedetto XIV – più noto come cardinale Lambertini – da vescovo di Bologna si era detto a favore dell’uso del volgare nella liturgia, ma giunto alla grave responsabilità del soglio pontificio cambiò posizione proibendone l’uso nel 1748.
Il Sinodo di Pistoia del 1786, promosso dai Granduchi di Toscana e guidato in modo fraudolento dal caposcuola del cenacolo giansenista il teologo Pietro Tamburini e dal vescovo Scipione de’ Ricci, tentò una subdola riforma in senso antiromano e fallì. Nel 1787 i vescovi toscani si dichiararono contrari alle innovazioni di Pistoia, e nel 1794 e successivamente con la bolla Auctorem fidei, papa Pio VI condannò le “guaste dottrine” giudicandole eretiche e scismatiche.
I temi di quel sinodo in qualche modo anticiperanno il Concilio Vaticano II: l’introduzione della lingua volgare, l’espoliazione dei riti, il divieto di celebrare più messe contemporaneamente nella stessa chiesa, la centralità della domenica e dell’Eucaristia parrocchiale.
Nonostante il periodo storico, il brodo culturale del secolo Illuminista, teso a idolatrare la ragione, nonostante la demolizione scientifica della spiritualità compiuta dai rastrellamenti giacobini, non estirpò la liturgia. Con la successiva restaurazione, non fu semplice ricostruire il contesto liturgico e il regolare svolgimento del culto di Dio dopo le azioni iconoclaste, anche a causa della distruzione di abbazie, chiese e conventi.
Nonostante queste difficoltà, nei primi anni del secolo XIX, comparvero molte traduzioni del messale a uso dei fedeli e si moltiplicarono testi illustrativi e di commento.
Il movimento liturgico
Nel cammino della Chiesa, la fine del XIX secolo esprime un rinnovato interesse per la liturgia celebrata e vissuta. Il fenomeno, noto come “movimento liturgico”, prese spunto dagli studi avvenuti nella Francia di fine ottocento da Prosper Guéranger, il primo abate della riaperta abbazia di Solesmes, soppressa nel 1791 dalla Rivoluzione francese.
Le idee del movimento si diffusero soprattutto in Germania e in Belgio. Nell’abbazia di Mont-César a Lovanio, il monaco benedettino Lambert Beauduin si espresse a favore di un rinnovato valore pastorale della liturgia, vista come alimento indispensabile della fede.
Nell’abbazia di Maria Laach, in Germania, il monaco Odo Casel, studioso della celebrazione liturgica, la definì “il mistero di Cristo e della Chiesa”. Nella sua opera Il mistero del culto cristiano sostenne che si tratta della realizzazione, attraverso simboli e riti liturgici, del mistero di Cristo che continua nella Chiesa per santificarla nei secoli.
Infine il presbitero Romano Guardini, che ebbe un grande ascendente su Ratzinger, futuro Benedetto XVI, nel volume Lo spirito della liturgia rivelò il senso profondo della liturgia, espressione della verità rivelata.
In Italia il movimento liturgico procedette con lentezza rispetto ad altre nazioni, poiché oltre al tradizionalismo spirituale e devozionale, l’episcopato ebbe scarso interesse per l’argomento. Non mancarono comunque vescovi orientati verso un rinnovamento liturgico. Tra questi pastori possiamo citare mons. Matteo Filipello, vescovo di Ivrea, che nella sua lettera pastorale La liturgia parrocchiale, scritta per la Quaresima del 1914, indicò nella liturgia la strada privilegiata per l’educazione del popolo e l’importanza della sua partecipazione attiva.
Mons. Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, nel 1913 scrisse una lettera pastorale, La Chiesa: qui entrò direttamente nell’argomento liturgico e promosse il canto delle parti fisse della Messa proponendo che se ne spiegassero le formule ai fedeli.
Una menzione particolare spetta infine al card. Ildefonso Schuster: studioso di liturgia, come arcivescovo di Milano cercò di inserire nella vita pastorale la liturgia con tutto quello che comporta in termini di sacramenti, culto e partecipazione.