Ghesce S. siede a gambe incrociate, avvolto nella sua tunica porpora. Sguardo profondo sotto una testa rasata. Chiede di non rivelare la sua identità e quella dell’associazione di cui è guida spirituale.
“Con la Cina non si è mai troppo prudenti. È onnipresente”, spiega. “Fummo invitati dall’Accademia di Belle Arti di Roma per realizzare un mandala. Avevamo con noi bandiere del Tibet e immagini del Dalai Lama. Ci accolsero entusiasti. Dopo qualche giorno una telefonata da parte della direttrice ci chiese di spostarci in uno spazio meno centrale di quello in cui eravamo. Pressioni esterne, chiosò. Ci opponemmo. L’indomani trovammo tutto in un’aula dove a vederci erano davvero in pochi”. Un terzo degli studenti dell’accademia, infatti, è di origine cinese.Negli occhi di questo monaco tibetano di mezza età lo sconcerto di chi pensava che un Paese lontano avrebbe di certo tutelato la sua libertà religiosa, sancita peraltro dalla sua Costituzione e definita dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Non solo. L’art. 19 stabilisce che il nostro ordinamento è pluralista in materia religiosa. 1) Questa scelta non dipende dalla reciprocità applicata da altri ordinamenti o Paesi, ma è un intento unilaterale per cui ogni fede svolge liberamente la sua attività nel territorio dello Stato.
L’accaduto diviene ancora più sorprendente se si pensa che Ghesce S. ha dovuto lasciare il suo Paese proprio perché privato della libertà di culto. Dal 1951, infatti, quando la repubblica popolare cinese di Mao Zedong invase il Tibet, le nequizie del Partito Comunista verso il buddhismo tibetano non hanno avuto mai tregua. Espropriazione dei possedimenti terrieri di templi e monasteri attraverso riforme fondiarie, distruzione degli stessi istituti religiosi, indottrinamenti politici forzati ai monaci, imposizione dell’abiura del Dalai Lama a religiosi e laici, arresti e condanne per i dissidenti. Una situazione in costante ebollizione.
Il nemico numero uno della Cina è Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama. I poteri politici e spirituali che il buddhismo gli conferisce sono un pericolo per la Cina comunista, che in Tibet mira a fare del Partito l’elemento cardine dell’apparato statale, al pari di quello di Pechino. E proprio per sottrarsi alla cattura, nel 1959 Tenzin Gyatso fu costretto a fuggire in India, dando inizio alla diaspora tibetana e lasciando dietro di sé il sangue di migliaia di tibetani in rivolta contro l’oppressore cinese.
A Dharamsala, nel nord del Paese, fondò il governo in esilio del quale fu autorità suprema fino al 2011, quando rinunciò al potere politico ma non a quello spirituale.
“L’unica possibilità di studiare, per noi monaci, è andare in India. Ci sono restrizioni governative anche per l’accesso ai monasteri”, dice Ghesce S., in Italia da dieci anni. Be aveva solo 14 quando raggiunse lo stato del Karnataka, nell’India meridionale, per completare i suoi studi monastici. Lì ha vissuto tempi duri, di stenti e di fame. Con il gruppo di monaci a cui si aggregò, si fece fisicamente carico della costruzione del monastero dove avrebbero vissuto. Se tornasse in Tibet sarebbe perseguitato come nemico del popolo, come tutti i monaci che non sono filo-cinesi. Ad attenderlo un atto di sottomissione e fedeltà al governo in cui dichiarare di seguire il Partito e, come detto, abiurare il Dalai Lama. Se rifiutasse, sarebbe certamente recluso.
Eppure la Costituzione cinese sancisce la libera espressione religiosa. Il Tibetan Centre for Human Rights and Democracy (TCHRD) nel rapporto 2016 rileva che i tibetani continuano a essere imprigionati o a scomparire per aver discusso del compleanno del Dalai Lama o per aver inviato informazioni inerenti a proteste su WeChat. In particolare, denuncia ancora il rapporto, in alcune aree della Regione Autonoma del Tibet (è quanto resta del Tibet storico: una provincia cinese a statuto speciale, creata ufficialmente nel 1965) la memorizzazione di brani vietati o foto del Dalai Lama su cellulari è punita con la detenzione.
Come ha evidenziato Amnesty International, “nel 2016-17 si sono registrate continue discriminazioni contro la popolazione tibetana: mancanza della libertà di parola, religione, associazione, riunione, e restrizioni alla libertà di movimento delle persone”. Si aggiunge l’ONG Freedom House, che nel rapporto 2016 posiziona il Tibet al secondo posto tra gli Stati con meno libertà al mondo. Dopo la Siria.
Come Ghesce S., migliaia di tibetani ogni anno sono costretti a fuggire dal loro Paese. In Italia non si ha un numero certo dei tibetani residenti. Il dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno non è in grado di fornire questi dati: i titolari di protezione internazionale sono censiti per nazione di appartenenza, e il Tibet è ufficialmente territorio cinese, riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’Italia.
Una vicenda che di recente ha agitato il dibattito sulla stampa nostrana è stata quella in merito alla mancata concessione, senza motivazioni contingenti, di visti d’ingresso in Italia agli esuli tibetani provenienti dall’India. La questione ha suscitato indignazione per la direzione contraria a ogni principio della Costituzione repubblicana che sancisce il riconoscimento dei diritti dell’uomo. Ma anche per la rottura da parte del ministero degli Esteri di una tradizionale apertura e tolleranza esattamente in senso inverso a quella che l’Italia vorrebbe vedersi riconosciuta dall’Unione Europea per il suo ruolo in prima linea a favore dei migranti.
Quanto questa vicenda fosse stata condizionata dall’avvicinamento dell’Italia alla Cina se lo sono chiesti in tanti. Realpolitik a discapito dei diritti umani. C’è voluta un’interrogazione parlamentare e l’intervento delle associazioni coinvolte (tra cui l’Unione Buddhista e Italia-Tibet) per il ripristino di nuove concessioni. Perché davvero la Cina è “onnipresente”. Unicredit, Monte dei Paschi, Intesa, Enel, Pirelli, Eni, Inter e Milan, per fare qualche esempio. Passando per il settore moda fino all’alimentare.
L’aspetto preoccupante è nel settore strategico: la State Grid Corporation of China detiene il 35% di Cdp Reti, la società finanziaria che gestisce le reti italiane dell’elettricità e del gas. Si aggiunge la nuova Via della Seta, il treno merci Italia-Cina che è parte integrante di un progetto infrastrutturale da 140 miliardi. E poi ci sono gli Istituti Confucio: centri di diffusione della cultura cinese negli atenei di 146 Paesi, finanziati e gestiti dalla Hanban (agenzia del ministero dell’Istruzione cinese) che detiene il potere di ostacolare dibattiti su temi delicati quali la difesa dei diritti umani, la manipolazione e lo sfruttamento dei lavoratori, la questione tibetana, il riconoscimento di Taiwan e l’ingerenza crescente della Cina nell’economia mondiale. In Italia sono presenti a Roma, Napoli, Venezia, Padova, Bologna, Milano, Torino, Macerata, Pisa.
In un commento pubblicato sulla pagina social dell’associazione Italia-Tibet (dall’evocativo titolo Torce Umane) una studentessa dell’università di Venezia denuncia “una censura strisciante: portare una bandierina del Tibet sullo zaino mi fa temere di essere discriminata da alcuni docenti. Laddove il raggio di influenza dell’Istituto Confucio finisce, possiamo approcciarci a questioni attuali e sensibili senza tabù”. Una presenza economico-culturale che provoca immancabilmente un’indebita influenza politica.
N O T E
1) “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.”