Questa di Tureia, nella Polinesia Francese, è la storia di un isola, una come tante in mezzo all’oceano, che potrebbe essere un paradiso se gli uomini le avessero consentito di percorrere indenne la sua storia immortale. Oggi, invece, è una terra toccata da disgrazie e malattie a causa della malvagità umana.
Tutto nasce dai folli esperimenti nucleari della Francia nei decenni scorsi. Dal primo, avvenuto il 2 luglio 1966 con l’esplosione della bomba atomica Aldebaran, all’ultimo, nell’atollo di Fangataufa il 27 gennaio 1996 con l’esplosione della Xoutos, si sono avuti in totale 193 test. 41 in atmosfera e 137 sotterranei a Moruroa, tanto che l’atollo ha iniziato ad affondare e rischia di sprofondare, minacciando uno tsunami che potrebbe cancellare il vicino atollo di Tureia, oggi abitato da un centinaio di persone. 5 in atmosfera e 10 sotterranei nell’atollo di Fangataufa. Moruroa e Fangataufa sono entrambi situati nelle Tuamotu, uno dei cinque arcipelaghi della Polinesia francese.
L’area delle ricadute radioattive è vasta, si estende da Hiva Oa (l’isola di Gauguin) nelle Marchesi, a Bora Bora nelle Isole Sottovento, anche se sottostimata per l’assenza di strumentazioni per l’analisi della radioattività all’esterno della zona.
Sono venuta a Tureia, l’atollo più vicino a Mururoa, il cuore degli esperimenti, dove la Francia ha fatto esplodere gli ordigni nucleari senza curarsi della popolazione residente. Come architetto, mi è stato chiesto di valutare lo stato delle due “blockhaus”, i bunker in cui riparavano gli osservatori – i militari in uno, i civili nell’altro – durante le esplosioni che avvenivano a circa 70 km di distanza. Qui a Tureia, dove oggi abita un’ottantina di persone, sono le uniche due blockhaus non ancora rase al suolo perché l’esercito pagava l’affitto del terreno alla famiglia sbagliata (situazione assai frequente in un Paese in cui i diritti di proprietà si trasmettono oralmente), e i legittimi proprietari si oppongono alla demolizione in attesa di un ipotetico risarcimento.
I primi osservatori a sbarcare sull’atollo furono i veterani che già avevano partecipato ai test nel deserto d’Algeria, portando con sé per riutilizzarle coperture gonfiabili come quelle che usiamo per coprire le piscine in inverno, già bell’e contaminate dalle radiazioni. Intanto, gli abitanti di Tureia erano stati invitati per un mese a Tahiti in occasione della Heiva, la manifestazione annuale di danza.
Partirono felici, senza immaginare che le autorità coloniali li avevano allontanati dalle loro case affinché non si accorgessero delle esplosioni e del picco di radiazioni. I venti rischiavano di soffiare nella direzione sbagliata diffondendo le particelle radioattive; tanto che la sbandierata visita del generale de Gaulle non avvenne, malgrado i bimbi della scuola che aspettavano sotto il sole con le bandierine in mano, e la direttrice che aveva fatto ripitturare la sua camera, l’unica in quell’isola remota con un letto vero e un materasso abbastanza grande da ospitare quel gigante. Il quale, alla notizia del cambiamento del vento, s’era ben guardato dall’esporre la sua persona a un possibile rischio.
La storia della Polinesia Francese è strettamente legata a questi esperimenti e alle loro conseguenze, dal benessere economico alle malattie. Le fotografie dell’epoca sono agghiaccianti… La bomba che esplode, il suo fungo si erge maestoso svettando sopra l’atollo di Mururoa, portatore di morte, malattia e distruzione. Ancora più agghiacciante è la foto di in cui i militari francesi guardano il fungo atomico come se fossero in un cinema all’aperto, senza nemmeno un paio di occhiali da sole sul naso: “È energia pulita”, veniva costantemente ripetuto in quel periodo. E così la Francia sviluppava quella che sarebbe diventata la sua principale fonte energetica: il nucleare.
Sull’isola ogni persona ha qualche parente morto di cancro, e anche quelli che all’epoca erano bambini sono stati colpiti da un tumore alla tiroide o in qualche altra parte del corpo. Il giovane stagista che mi ha accompagnata rientra fiero con la ghiacciaia piena dei pesci che ha pescato, me ne vuole offrire, ma rifiuto gentilmente con un sorriso; il medico presso il quale abito mi ha avvertita: attenzione a quello che mangi, ne ha curati troppi con strane malattie prese dal mare contaminato, impossibile sapere dove si siano divertiti a nuotare quei bei pescioni, liberi nelle grandi profondità, così buoni sul momento ma in grado di originare strane sensazioni, come sentire una scossa elettrica per ogni goccia che si posa sulla pelle mentre fai la doccia, malattie sconosciute in Europa ma presenti, chissà come, solo in queste isole lontane.
Sono arrivata qui per capire come ripristinare l’ultimo rifugio antiatomico; quelli delle isole vicine sono stati rapidamente demoliti per non lasciare traccia, per cancellare i silenziosi testimoni di questa storia vergognosa; grande è stata la mia sorpresa nel vedere che la grossa scatola d’acciaio soprannominata “tartaruga”, nome che ispira solidità e protezione, al suo interno non ha che sassi di corallo, gli stessi che si possono trovare sulla lunga spiaggia dell’isola.
C’è da rabbrividire di orrore: i responsabili dei test e i loro governanti conoscevano bene le possibili conseguenze delle loro imprese, ma sono andati avanti per la loro strada senza la minima pietà umana.