L’enormità dei crimini commessi dal governo di Pechino, in particolare contro la popolazione uighur è tale che finalmente sembra che qualcosa stia cominciando a muoversi, per inchiodare il governo comunista alle sue responsabilità.
La Camera dei Comuni del arlamento canadese a Ottawa ha votato a favore di una mozione che riconosce formalmente come genocidio i crimini commessi dal regime comunista cinese contro il popolo della regione autonoma uighur dello Xinjiang, che i suoi abitanti musulmani uighur e altri turchi definiscono con il nome di Turkestan orientale.
La misura è passata con 266 voti a zero. È stata proposta dal Partito Conservatore. Il Partito Liberale, che guida il governo, si è astenuto.
La mozione esorta il governo canadese a seguire la stessa linea; e fra l’altro contiene un emendamento, proposto dal deputato del Bloc Quebecois, Alexis Brunelle-Duceppe, che chiede al Comitato Olimpico Internazionale di spostare i Giochi Olimpici Invernali del 2022 fuori dalla Cina, se il genocidio continua. Questo emendamento è passato con 229 voti favorevoli a 29.
Naturalmente, quando è stato annunciato che la Camera avrebbe votato la mozione, Pechino ha reagito con forza. Sabato 20 febbraio, l’ambasciatore cinese in Canada, Cong Peiwu, ha detto che “non esiste affatto il cosiddetto ‘genocidio’ nello Xinjiang” e che il voto allora annunciato equivaleva a un’interferenza negli affari interni cinesi. Una prassi abituale da parte del governo comunista da sempre.
Il voto era nell’aria da tempo. Il 21 ottobre 2020, la sottocommissione per i diritti umani internazionali della Camera dei Comuni canadese ha rilasciato una dichiarazione che definiva la persecuzione degli uighur un genocidio. Poi, il 24 gennaio 2021, due deputati conservatori, Michael Chong e Garnett Genuis, hanno sollecitato il governo canadese a condannare ufficialmente la Cina per il suo trattamento degli uighur e di altri gruppi minoritari etnici e religiosi, usando di nuovo la parola “genocidio”.
E oltre il confine, negli Stati Uniti, si sta creando un’atmosfera simile. L’ex segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha lasciato l’incarico il 20 gennaio dichiarando che la Cina stava commettendo un genocidio nello Xinjiang. Poco dopo, il suo successore sotto la nuova amministrazione, Antony Blinken, ha ripetuto la stessa parola, provocando ancora una volta le forti proteste di Pechino. Sul piano interno, ancor prima degli Stati Uniti, il governo canadese ha annunciato un “approccio globale in coordinamento con il Regno Unito e altri partner internazionali” per difendere “i diritti degli uighur e di altre minoranze etniche”.
Lo scontro si sta spostando sul piano economico, che, forse, è quello destinato ad avere conseguenze di maggior respiro, almeno per la Cina. Sono state annunciate misure in Canada per affrontare il rischio che merci prodotte da lavoro forzato da qualsiasi Paese entrino nelle catene di approvvigionamento canadesi e globali e per proteggere le imprese canadesi dal diventare inconsapevolmente complici.
Le misure annunciate includono “il divieto di importazione di merci prodotte interamente o in parte da lavoro forzato; una dichiarazione di integrità dello Xinjiang per le aziende canadesi; un Business Advisory sulle entità legate allo Xinjiang; una maggiore consulenza alle aziende canadesi; controlli sulle esportazioni; una maggiore consapevolezza per una condotta aziendale responsabile legata allo Xinjiang; e uno studio sul lavoro forzato e sui rischi della catena di approvvigionamento”.
E a Tokyo almeno 12 grandi gruppi nipponici sono pronti a tagliare i rapporti con le imprese cinesi che nello Xinjiang sfruttano il lavoro forzato degli uighur e di altre minoranze musulmane. Il gigante Toshiba cesserà ogni relazione con esse entro fine anno. È quanto emerge da un’indagine di Kyodo News pubblicata ieri.
Marco Tosatti, Radioromalibera