Dopo un’epica marcia di sedici giorni dalle rive del lago Lemano alle valli della Germanasca e del Pellice, i Valdesi, per secoli ferocemente perseguitati, decimati, imprigionati, esiliati, riuscivano nel 1689 a riconquistare le terre che dolorosamente erano stati costretti ad abbandonare. Sotto la guida di Enrico Arnaud, l’“Israele delle Alpi” acquisiva la coscienza della propria identità di popolo e del proprio diritto a una patria da custodire e da difendere.
Era la notte dal 16 al 17 agosto 1689 (secondo il calendario giuliano, seguito allora dagli Stati protestanti, in ritardo di dieci giorni sul calendario gregoriano). In un bosco prospiciente la spiaggia di Prangins sulle rive occidentali del lago di Ginevra, tra Nyon e Rolle, nel Paese di Vaud (conquistato da Berna sui Sabaudi nel 1536), si erano raccolti alla spicciolata circa 900 uomini, variamente vestiti e con armi di diverse fogge e dimensioni. Li guidava un personaggio, che diventerà d’ora in poi celebre a livello europeo: il pastore Enrico Arnaud, il quale tre anni prima era dovuto emigrare dal Piemonte in Svizzera a seguito dell’infelice tentativo di resistere a mano armata contro le truppe franco-sabaude.
Chi erano costoro? E come mai si trovavano allora in Svizzera, desiderosi di rientrare a tutti i costi nella loro patria, che avevano dovuto abbandonare nel 1686 perché ostili alle ingiunzioni del loro sovrano di abiurare la fede avita? Se ethnos va inteso nella sua accezione più larga di gente o popolo, non v’è dubbio che le vicende di una tipica minoranza religiosa perseguitata per motivi di fede possa rientrare nei quadri dell’etnologia, perché, se, a rigor di termini, il fattore religioso è meno “palpabile” di quelli della razza o della lingua, tuttavia quel fattore è suscettibile, alla lunga, di imprimere alla minoranza in oggetto delle caratteristiche ben distinte. Ora, quei 900 e passa, che quella notte attraversarono il lago di Ginevra per iniziare in terra sabauda una vera e propria “anabasi” della durata di ben 16 giorni (17 agosto – 1 settembre), erano in gran parte valdesi. Essi, a differenza di altre minoranze etnico-linguistiche, non costituirono per secoli un popolo a sé stante. Apparsi sul finire del secolo XII come seguaci di un ricco mercante di Lione che si era dato alla povertà e alla predicazione per seguire alla lettera le orme di Cristo e dei primi apostoli, furono ben presto perseguitati prima dalle gerarchie ecclesiastiche, e poi dall’Inquisizione, subendo tremende persecuzioni che lungo tutto il tardo Medioevo li dispersero dal Mediterraneo al Baltico. Si venne così a formare una “diaspora”, una specie di “internazionale” di tutti coloro che, pur di restare fedeli agli insegnamenti del Vangelo, si opponevano, apertamente o nascostamente secondo le circostanze, a quelle che chiamavano le “innovazioni” della Chiesa ufficiale, rifiutando progressivamente gran parte del suo magistero e del suo potere salvifico: la predicazione – essi affermavano – non è solo prerogativa dei sacerdoti, ma di tutti i credenti (sacerdozio universale); anche i sacramenti, di cui non si discute ancora il numero, possono essere celebrati dai semplici fedeli, purché “buoni” (donatismo); c’è un solo mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo; perciò vane sono tutte le intercessioni dei santi o della Vergine; non ci sono che due vie che conducono o al Paradiso e all’inferno; perciò non esiste il Purgatorio; e così, di questo passo, mediante un’interpretazione sempre più letterale dei Vangeli – e in particolare del Sermone sul Monte – i Valdesi medievali giunsero fino ai divieti assoluti di giurare, mentire, uccidere, ponendosi “ipso facto” fuori dal mondo e soprattutto dalla vita pubblica. Secondo il frasario dei tribunali dell’inquisizione, chiunque si prendeva certe libertà nel comportamento di tutti i giorni veniva subito sospettato di eresia, in quanto dissidente dalla comune convivenza (“conversatio”) dei fedeli, nella vita e nei costumi. Se “eresia” vuol dire propriamente “scelta”, è ovvio che in un mondo così rigidamente disciplinato come quello medievale, con le sue severe ripetizioni di parole, gesti e presenze, non c’era posto per l’eretico, con la conseguenza che quelli che dissentivano o si scostavano da quella comune “conversatio” furono non solo portati a nascondersi o a mimetizzarsi a scanso di maggiori guai, ma anche ad unirsi tra loro mescolando spesso le proprie opinioni (sincretismo). Ma i Valdesi che prendono parte al “Glorioso Rimpatrio” del 1689 sono ben diversi dai loro predecessori medievali. Essi rappresentano ormai un popolo a sè stante. Come e quando avvenne il passaggio da quell’estrema dispersione ad un raggruppamento abbastanza compatto in talune valli delle Alpi Cozie, tale da vedervi quel che uno storico contemporaneo (Tourn) ha definito come “popolo-chiesa”? Agli inizi del secolo XVI gli affiliati di quell’“internazionale” evangelica, causa le continue vessazioni, si erano ridotti a pochi gruppi superstiti, nelle Alpi del Piemonte e del Delfinato, in Provenza e… in Calabria e Puglia. Con l’avvento della Riforma, i cui echi giunsero in Piemonte poco dopo il 1517, i Valdesi cercarono ben presto di entrare in contatto con i suoi principali corifei, inviando deputazioni in Germania, Svizzera e Alsazia e ricevendo consigli per allinearsi concretamente con le nuove idee sostenute e in parte attuate dai riformatori nelle regioni che intanto avevano abbandonato Roma. Certo, la situazione politico-religiosa del sud europeo era assai diversa da quella esistente nel centro o nel nord del continente. In Germania la Riforma aveva vinto in parecchi Stati grazie anche all’appoggio dei principi, mentre in Svizzera e in Alsazia le concezioni antiromane erano state accolte democraticamente, per volontà del popolo e dei consigli cittadini, in seguito ad un voto maggioritario che, al termine di regolari “dispute” pubbliche, aveva sanzionato progressivamente – dal 1523 a Zurigo al 1536 a Losanna – l’abolizione della messa, l’interdizione del culto delle immagini e il decadere dell’intercessione dei santi e della Vergine. In Italia, invece, la penetrazione della Riforma subì fin dall’inizio il contraccolpo della situazione critica in cui si trovava la penisola, divisa com’era in parecchi Stati in gran parte sottomessi a potenze straniere o tra loro antagonisti non tanto per sete di libertà o d’indipendenza quanto per la conquista di una supremazia, sia pure passeggera. Era il periodo del cosiddetto “equilibrio instabile” sancito dalla pace di Lodi (1456) e cosi bene descritto dal Machiavelli, in cui però dominava incontrastato lo Stato Pontificio dall’Emilia alla Campania. Se in un primo tempo le nuove idee ebbero un certo successo non solo fra il popolo, ma anche presso i ceti più elevati della cultura e delle stesse gerarchie ecclesiastiche − a tal punto che sorsero non solo nuclei più o meno organizzati di “luterani” nel nord e nel centro della penisola, ma vi furono anche rapporti tra umanisti e uomini di chiesa concordi nell’ammettere la dottrina della giustificazione per la sola fede −, tuttavia la presenza inquietante del papato, rinforzata dalla rifondazione del tribunale dell’inquisizione (S. Uffizio) e dalla pubblicazione dell’indice dei libri proibiti, costrinse tosto o tardi i simpatizzanti della Riforma a scegliere tra quattro soluzioni possibili: o ripudiare apertamente le nuove idee, o mimetizzarle (nicodemismo), o subire il martirio, o fuggire oltr’alpe! Quest’ultima fu la soluzione preferita da quelli che d’ora in poi costituirono quella che uno storico della Riforma (Vinay) definì felicemente come “ecclesia peregrinorum”! È una storia ben nota, per la quale rimando ai lavori del Church, del Cantimori, del Vinay e dei loro continuatori. Per quanto riguarda specificatamente i Valdesi, essi finirono per aderire nel 1532 alla Riforma precalvinista, ma, circa i loro rapporti col mondo circostante, sembra si fossero orientati prevalentemente verso Ginevra e le nuove comunità riformate francesi piuttosto che verso i gruppi “luterani” della pianura piemontese. Il Piemonte era allora occupato dai Francesi, il che consentì un certo periodo di calma, grazie anche al fatto che i primi governatori venuti d’oltr’alpe erano protestanti. Ma quando nel 1559 il Duca di Savoia fu reintegrato nei suoi Stati, egli si premurò di promulgare subito un editto che colpiva con un’ammenda di 100 scudi d’oro chiunque andasse ad ascoltare i ministri luterani che predicavano in Val Luserna e altrove, punendo poi con la galera i recidivi. Queste ed altre misure repressive misero in grave imbarazzo i Valdesi, fin dal Medioevo sostenitori del principio della non-violenza: se da una parte, in quanto sudditi del Duca di Savoia, gli dovevano ubbidienza in base al noto passo paolino di Romani XIII, 1-7 (“Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori…”), dall’altra, ligi alla Parola di Dio, si trovavano costretti ad opporsi contro qualsiasi restrizione della libertà di predicarla, comunque e dovunque. Era il principio nuovo della duplice lealtà a Dio e al sovrano che solo allora, in pieno secolo XVI, piombò i Valdesi in vere e proprie crisi di coscienza, dividendoli spesso nei due partiti dei “falchi” e delle “colombe”: così nel 1545 in Provenza, quando furono totalmente decimati; così nel 1560 in Piemonte, quando resistettero vittoriosamente alle truppe ducali; così nel 1561, quando in Calabria essi subirono la stessa sorte dei loro confratelli di Provenza: vicenda, quest’ultima, che uno dei più insigni storici di cose valdesi definì come “l’unica repressione largamente di massa delle ’riforma’ italiana” (Miccoli); così ancora nelle “crociate” del 1655 (’Pasque Piemontesi’) e del 1686, quando il popolo valdese rischiò di essere definitivamente estirpato dalla sue Valli! Il 1686 risultò di fatto l’anno più cruciale di tutta la storia valdese. Se la revoca dell’Editto di Nantes colpiva nel 1685 anche i Valdesi dell’alta Val Chisone (facente parte allora del Regno di Luigi XIV), nel 1686 il Duca di Savoia si adeguava al volere del Re Sole e promulgava anch’egli un editto di persecuzione contro i suoi sudditi valdesi delle valli del Pellice, del basso Chisone e della Germanasca: o sottomettersi tornando nel girone della Chiesa romana, oppure andare in esilio. Chi preferì la sottomissione (le colombe), chi la resistenza ad oltranza (i falchi). Il partito degli oppositori prevalse, soprattutto per l’influenza dell’Arnaud, e fu la guerra, una vera guerra-lampo, che colse impreparati i Valdesi e li decimò nello spazio di soli tre giorni: 1600 vittime, 1000 bambini tolti ai genitori, 2500 tra “cattolizzati” o fuggitivi, il resto (circa 8500) tradotto in prigione! L’odissea di questi disgraziati, schiaffati in ben 14 carceri del Piemonte, è tristemente nota, ed ebbe termine solo quando, ai primi del 1687, per il fattivo interessamento dei Cantoni svizzeri protestanti, il Duca di Savoia ne consentì l’esilio in terra elvetica. Purtroppo, degli 8500 carcerati, metà erano periti in prigione, altri avevano preferito abiurare e furono confinati nel Vercellese, cosicché solo circa 3000 poterono raggiungere Ginevra, e da lì essere distribuiti nei vari Cantoni. Tra coloro che erano rimasti nelle Valli si formò il gruppo dei cosiddetti “Invincibili”, che diede molto filo da torcere alle milizie sabaude e ai nuovi occupanti, cattolici della pianura piemontese o venuti dalla Francia, ma anch’essi, in forza di due trattati più o meno segreti, poterono esiliare in Svizzera. L’esilio durò tre anni, ma, secondo gli accordi intercorsi tra i Sabaudi e i Cantoni svizzeri, i più dei rifugiati avevano dovuto proseguire il loro peregrinare ed installarsi in Germania. Prima del “Glorioso” erano stati compiuti due tentativi di rientro, nel luglio 1687 e nel giugno 1688, ma entrambi fallirono. Se l’impresa del 1689 ebbe successo – suscitando un buon secolo più tardi l’ammirazione dello stesso Napoleone -, lo si dovette a parecchi fattori: la migliore preparazione tecnicostrategica, fatta in base alle Istruzioni del vecchio Janavel, l’eroe di Rorà delle “Pasque Piemontesi” del 1655, ormai residente a Ginevra; l’assistenza diplomatica non solo dei Cantoni svizzeri evangelici ma anche dell’Olanda, il cui “statholder” Guglielmo d’Orange saliva nel frattempo sul trono d’Inghilterra compiendo anche lui una “Glorious” Rivoluzione; infine, una felice congiuntura politica determinatasi quando il Duca di Savoia, perseguendo machiavellicamente soltanto il proprio utile, era alla vigilia di voltarsi contro l’alleato francese e partecipare anch’egli alla guerra della Lega d’Augusta, servendosi persino di milizie valdesi! Che i discendenti del pacifico Valdesio di Lione fossero diventati col tempo dei provetti soldati, lo dimostra chiaramente l’andamento militare del “Glorioso Rimpatrio”, con l’appendice che ne segui tesa alla riconquista totale delle loro Valli. Nulla era stato lasciato al caso. Quei 900 e passa, che nella notte tra il 16 e il 17 agosto attraversarono il lago di Ginevra su una quindicina di barche, furono distribuiti in 20 compagnie, ognuna col suo capitano, ma diretti in ultima istanza, anche dal lato spirituale, dal pastore Enrico Arnaud. Il percorso, accuratamente predisposto, comportava un certo numero di tappe, da percorrersi preferibilmente sulle alture, attraverso i monti e i colli della Savoia (Chiablese, Faucigny, Maurienne, con i colli del Bonhomme, Iseran, Moncenisio, Clapier), con l’intento di raggiungere a marce forzate l’agognato “rifugio valdese”, per le alte valli della Dora Riparia e del Chisone: in tutto 16 giorni, dal 17 agosto al 1° settembre, lungo più di 250 km., da Yvoire a Bobbio Pellice. Eludendo le contromisure francesi e ducali, servendosi di preziosi accorgimenti tattici, prelevando ostaggi in caso di necessità, comprando i viveri o rapinandoli, evitando le imboscate o i combattimenti a viso aperto, unendo insieme le preghiere di aiuto e di ringraziamento al Signore con qualche esecuzione sommaria di prigionieri scomodi, s’imbatterono solo una volta – al termine dell’ottava tappa del 24 agosto – in una battaglia memorabile, conquistando in piena notte il ponte di Salbertrand strenuamente difeso dalle truppe franco-sabaude. Quell’epica marcia dal Lemano alle valli della Germanasca e del Pellice non fu che il preludio della riconquista totale dell’amata patria: asserragliati per lunghi mesi sulle alture della Balziglia nel vallone di Massello, i combattenti valdesi riuscirono a rompere l’assedio col favore della nebbia e a continuare la guerriglia fino alla pace col Duca, quando costui – il 18 maggio 1690 – passò al servizio della Lega d’Augusta. Col “Glorioso Rimpatrio” si affaccia e si consolida chiaramente alla mente dei Valdesi il concetto di una loro “patria”, indissolubile da quello del “deposito della fede”: l’uno e l’altro vanno custoditi e difesi con uguale fervore, perché entrambi sono visti come doni di Dio e manifestazioni della Sua grazia. In tal senso li ha intesi uno degli storici valdesi più significativi dell’Ottocento, Alexis Muston, quando intitolò la ricostruzione delle vicende valdesi dalle origini all’epoca sua: L’Israël des Alpes.
Bibliografia
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Muston Alexis, L’Israël des Alpes, Paris 1854.
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Miccoli Giovanni, La storia religiosa, in “Storia d’Italia” 2/1, Torino 1974.
Tourn Giorgio, I Valdesi. La singolare vicenda di un popolo-chiesa, Torino 1977 e 1981 2