Nel cuore del Marocco meridionale, nei villaggi lungo la Valle delle Fortezze, i Berberi continuano a perpetuare, pur tra molte contraddizioni, il loro affascinante patrimonio culturale e storico, specchio di una perfetta, anche se difficile e spesso problematica, interazione fra uomo e natura.
I Berberi costituiscono uno dei popoli più importanti del Magreb e vivevano nell’attuale territorio marocchino già migliaia di anni prima di Gesù Cristo: furono i primi in queste zone a possedere una civiltà e una cultura proprie. Le loro origini non sono ancora sufficientemente chiarite, ma si ha ragione di ritenere che i primi a stanziarsi nel Magreb Occidentale provenissero dallo Yemen. Anche se ci furono in seguito varie sovrapposizioni razziali, tuttavia possono essere, quindi, considerati etnicamente afroasiatici. Purtroppo, i Berberi hanno perso da tempo la conoscenza dei loro antichi caratteri grafici (di derivazione fenicia), in quanto l’islamizzazione del paese li ha indotti ad impiegare anche per i loro dialetti i caratteri arabi. La vita stessa dei villaggi, basata da secoli sulle tradizioni orali, non ha favorito la conservazione della scrittura originaria; inoltre, la mancanza di un centro culturale in loco (ipotesi sempre contrastata dal governo arabo) ha fatto sì che l’unica sede per la promozione dell’identità nazionale si trovi in Francia, presso la Università di Aix-en-Provence. Altro fattore negativo, indubbiamente il più importante, è stato la mancanza di uno Stato nazionale: nella storia del Magreb Occidentale ci furono soltanto dei principati locali o delle leghe (berbero-tuaregh) come quella Zenata, che fu la principale potenza del settore nel Medio Evo, o i Sanhaja (Tuaregh), che fondarono un vasto regno con base nel Tafilalelt, dominante le vie carovaniere per il Sud. Tra il 702 (anno della prima incursione araba e della sconfitta degli Zenata) e l’809 d.C. (anno della più massiccia invasione araba e della costituzione del regno islamico a Fez), i Berberi persero definitivamente il primato politico e culturale, l’elemento arabo diventò preminente nella struttura statale e, soprattutto nelle città, prese il sopravvento nei confronti degli indigeni. Il messaggio islamico produsse un effetto dirompente nell’antica visione del mondo di questo popolo: la dottrina coranica, norma di vita che regola l’esistenza di ogni credente dalla nascita alla morte, penetrava facilmente l’anima berbera attraverso la prescrizione di pochi doveri e di semplici pratiche rituali; era arrivata la risposta totalizzante alle domande principali (naturali e soprannaturali) dell’uomo magrebino. Tuttavia le tre etnie berbere più importanti del Marocco (Masmuda, Zenata e Zenaga) hanno potuto, sia pure attraverso ostacoli e ripetuti tentativi di assorbimento, continuare a parlare il proprio idioma. Oggi i generi più rilevanti sono la novellistica e la poesia popolare, diffuse soprattutto nelle zone extraurbane. Gli argomenti preferiti nella novellistica sono quelli fantastici e sentimentali di derivazione araba, quelli burleschi, raggruppati intorno a personaggi tradizionali, la personificazione degli animali, che denota un apporto dell’occidente europeo (favole), ed infine le tradizioni popolari. Per quanto riguarda la poesia, manca un’epica nazionale, ma si trovano numerose liriche di soggetto sia sentimentale sia epico. La poesia popolare ha modo di esplicarsi durante le feste notturne, mentre la poesia più elevata si concentra in brevi izlam su vari soggetti. Per conoscere veramente questo interessantissimo gruppo etnico, dal passato nobile e combattivo, si devono attraversare le montagne e i deserti del Sud marocchino. L’itinerario migliore e più spettacolare dal punto di vista paesaggistico è la cosiddetta “Valle delle Fortezze”, che si colloca tra Ouarzazate e Er-Rachidia. Per queste terre anticamente passavano le carovane che giungevano dall’Africa Nera trasportando schiavi, oro, spezie ed altre numerose merci. Dal traffico di queste carovane nacque una nobiltà del deserto che arrivò ad arricchire grandemente ed edificò queste cittadelle fortificate (Kasbah in berbero). Infatti è proprio qui che la società berbera tradizionale, depositaria di un immenso patrimonio culturale e storico, continua con ben pochi cambiamenti rispetto al passato: nelle campagne e nelle zone predesertiche, sui monti dell’Alto e Medio Atlante si possono ancora ascoltare i dialetti berberi. Lo strumento migliore per percepirne il fascino è presenziare ad un Moussem. Si tratta di un grande assembramento che torna ad epoche fisse, permette incontri e scambi, facilita matrimoni e amicizie, risolleva dalla quotidiana fatica del lavoro. Uno dei più famosi è quello di Imilchil – piccolo villaggio dell’Alto Atlante a 2600 m. d’altitudine – che ha luogo la terza settimana di settembre. Questo “moussem” è l’occasione per circa trentamila persone degli altipiani di riunirsi sotto le tende per tre giorni, con le loro mandrie, i loro cavalli e dromedari; è l’occasione per le fanciulle di mostrare la loro bellezza, ornandosi con sontuosi gioielli d’argento, e danzare per ore sotto il sole e le stelle. Nel corso di queste feste, così lontane dall’artificiosità delle varie “fantasie” o “diffe”, si possono apprezzare la spontaneità e la particolare sensibilità dei danzatori e dei musicisti: essi interpretano i quadri più antichi e più noti del folklore berbero, dall’Ahuash, che narra la vita quotidiana, alla più scatenata Griha unicamente ritmica. I canti e le danze di carattere collettivo si realizzano quasi sempre di sera: gli uomini rimangono abbassati, formando un cerchio attorno al fuoco, e le donne girano attorno a loro; solitamente flauti, tamburi e mandolini dal lunghissimo collo accompagnano le esibizioni. Siamo convinti che questo ricco bagaglio culturale, anche se territorialmente sempre più circoscritto, si conserverà ancora per molti anni, poiché è inconfutabile che in ogni rappresentazione dello spirito berbero (poesia, musica o danza) è avvertibile una sensualità, una impetuosa carica umana, una progressiva esaltazione corale di antico sapore pagano, che noi e gli stessi arabi abbiamo definitivamente perduto. Sono gli indici più veri ed evidenti di una genuina voglia di vivere, specchio di una perfetta simbiosi dell’uomo berbero con l’ambiente che lo circonda, misura esatta di un mondo ancora a dimensione d’uomo. La società berbera è una tipica organizzazione a struttura tribale nella quale la cellula familiare è la base indiscutibile di tutto il sistema, che oggi vive in una dimensione abbastanza particolare, più legata al passato che al presente. La scelta tra questi due modi di vita è oltremodo difficile, perché se accettare la modernità significa snaturare completamente le fondamenta di un ricco patrimonio socio-culturale che si tramanda da secoli, rimanere fermi e chiusi nell’immutabilità delle tradizioni può condurre ad una vera e propria emarginazione dalla realtà attuale dello Stato marocchino. Oggi i Berberi dei villaggi vivono in una specie di Islam cristallizzato, dove il paternalismo e il maschilismo costituiscono ancora l’asse portante del mondo rurale. Il primo impatto visivo con questa società è poco entusiasmante: lungo la spettacolare “Valle delle Fortezze” nel cuore del Sud marocchino, accanto alle antiche costruzioni fatte di terra assodata e pietre, si affiancano le abitazioni dei contadini fatte di paglia e fango impastati; solo raramente si incontrano case in muratura. Le abitazioni sono meno che spartane, prive di mobili e suppellettili, le poche finestre sono senza persiane, i servizi igienici o di consumo (gas, luce, acqua ecc.) non esistono, l’unica concessione è un camino in un angolo per cuocere le vivande e riscaldarsi in inverno; al centro della piccola costruzione qualche tappeto serve da umile giaciglio per gli abitanti. I consumi, come li intendiamo noi occidentali, sono inesistenti; il villaggio vive una esistenza completamente autonoma dal resto del mondo, consentitagli da una stentata autosufficienza alimentare e dalle lunghe distanze tra un centro e l’altro, percorribili unicamente a dorso di mulo. Inoltre, socialmente c’è una rigida chiusura verso l’esterno, vige la parentela a circolo chiuso con matrimoni quasi sempre all’interno delle comunità e predeterminati dai genitori fin dalla più tenera età; il celibato e il nubilato sono malvisti, come pure gli abiti di foggia occidentale; la donna non ancora coniugata a vent’anni diventa facilmente “chiacchierata”. È il capo famiglia il giudice supremo di ogni questione familiare e il capo tribù è la massima autorità del villaggio: solo nei centri più grossi è la macchina amministrativa statale (strutturata sul modello centralizzato alla francese con province e prefetture) ad avere il potere politico. La religione è una presenza discreta, ma continua, per non parlare della superstizione, ancora molto diffusa e ben visibile: come nel caso delle abitazioni abbandonate perché colpite dalla disgrazia o delle mani di Fatima (anti-malocchio), che campeggiano sopra i cornicioni delle case. Non potrebbe essere altrimenti, perché l’analfabetismo è qui pesantissimo: l’80% degli analfabeti è concentrato appunto fra le popolazioni agricole del sud; le scuole si limitano a fornire una ridotta istruzione primaria e ad impartire i fondamenti della dottrina coranica. Come sempre nelle zone legate all’IsIam, durissima è la condizione femminile: costrette al matrimonio molto giovani (16/17 anni) le donne si ritrovano presto con 3 o 4 figli da accudire e un duro lavoro da sbrigare nei campi, mentre i mariti si recano giornalmente ai mercati per vendere i pochi prodotti eccedenti il fabbisogno familiare. Per i bambini non c’è altro futuro che ricoprire il ruolo dei padri in una continua e immutabile sequenza storica. Questi giovani saranno invariabilmente contadini o pastori, poiché i genitori non vogliono che i propri figli perdano troppo tempo a scuola quando c’è molto da fare nei campi o al pascolo; ciò è spiegabile in quanto l’unica alternativa che si aprirebbe a chi lascia il villaggio sarebbe una delle tante bidonvilles dei grossi centri a settentrione: Casablanca o Rabat. Chi fugge da questa misera autosufficienza può trovare soltanto lavori molto umili in città, quindi sottopagati, e con un reddito mensile aggirantesi sulle nostre 150.000 lire non potrebbe condurre una esistenza decente. L’immigrato finirebbe perciò col vivere peggio che nel villaggio d’origine: senza il confronto della propria identità culturale ed etnica, andrebbe ad alimentare quel misero e abbrutito sottoproletariato dei piccoli commerci e dei mille espedienti più o meno puliti. Lo Stato marocchino, del resto, non gradisce lo spostamento di popolazione dalle campagne alle città, gli fanno molto comodo queste sacche arretrate e conservatrici; concentrate nelle aree meridionali del paese, esse costituiscono un serbatoio sicuro di voti e di fedeltà a buon mercato. Difatti, mentre nelle città si registrano allentamenti dei costumi e diminuzioni dei praticanti, nelle campagne l’Islam è ancora il conforto principale del popolo. Nei villaggi, dopo la moschea, è la casa il tempio per eccellenza, è lì che viene custodito con amore il Corano, avvolto in fazzoletti di seta; è lì che avvengono tutte le cerimonie importanti della vita del credente: dalla circoncisione all’iniziazione dottrinaria, dal matrimonio all’estremo saluto, perché la vita religiosa si identifica perfettamente con quella sociale. Sbaglierebbe, quindi, chi credesse di interpretare l’arretratezza di questi villaggi come una inferiorità mortificante: i Berberi vivono la loro realtà quotidiana con fiera dignità, accettandola con spirito equilibrato e antica saggezza; essa in fondo consente loro di non essere travolti dalla dinamica perversa del confronto tra cultura dello sviluppo (processo ormai innescato nel Nord del Paese) e tradizione contadina islamica. Qui l’ambiente condiziona ancora l’uomo rendendo possibile apprezzare il proficuo interagire tra abitanti e natura.