L’aria è piena d’allegria, la musica naviga nell’aria, ognuno ha un bicchiere di vino in mano, si balla, la vera regina della festa è… il protagonista del film Joey and the Leitis, secondo premio speciale della giuria. Nato a Tonga, resosi ben presto conto che i panni maschili gli andavano stretti, Joey è oggi uno dei più conosciuti leiti – come vengono definiti in questo regno i transessuali – grazie alle sue battaglie contro la discriminazione di chi come lui è sessualmente “diverso” . La figura del transessuale sarebbe culturalmente accettata nei Paesi polinesiani: i problemi sono iniziati con l’arrivo delle religioni straniere, come la chiesa avventista, le quali, più che amore e speranza, tendono a diffondere condanne morali.
Il Festival Internazionale del Film documentario Oceaniano (FIFO) è giunto quest’anno alla sua quindicesima edizione. Nato grazie all’attuale ministro della Cultura della Polinesia Francese, Heremoana Maamaatuaiahutapu, e al caledoniano Wallès Kotra, è un attesissimo appuntamento d’inizio febbraio, quando l’isola di Tahiti è in piena stagione delle piogge.
Sullo schermo si susseguono film realizzati e prodotti in tutto il Pacifico, dando voce ai popoli micronesiani, melanesiani e polinesiani. Lo spettatore può così viaggiare dalle Hawai’i all’Australia, passando per le Vanuatu e la Papuasia, senza muoversi dalla propria poltroncina nel Te Fare Tauhiti Nui, la Casa della Cultura.
I film in competizione, alle prese con varie problematiche sociali e ambientali, sono quattordici. Non meno interessanti le sedici pellicole fuori concorso e i dodici documentari, tutti dedicati all’Oceania. In aggiunta, una maratona di scrittura, incontri con i registi, atelier tecnici ai quali è possibile partecipare gratuitamente per imparare a scrivere una scenografia o montare video. Infine due serate gratuite, una riservata alla proiezione di cortometraggi, l’altra ai documentari brevi.
Primo premio speciale della giuria al film Abdul & José, di Lourdes Pires e Luigi Acquisto. Lourdes viene da Timor-Est e racconta la storia di Abdul, o meglio José, bambino rapito dalle milizie indonesiane durante la loro occupazione dell’isola di Timor, cresciuto in orfanotrofio prima, in una famiglia adottiva poi, convertito all’islam (da cattolico che era) e trasformato in una persona diversa, con un nuovo nome. Il film accompagna il protagonista nel suo viaggio quando, a 43 anni d’età e dopo ben 35 di lontananza, può finalmente passare il confine accompagnato da moglie e figlie per ritrovare i suoi fratelli. Sarà una rinascita per quest’uomo, schivo e con il volto nascosto nel cappuccio della sua felpa per evitare di cadere nelle grinfie degli spiriti maligni che lo tormentano. Storie di guerra e invasione che vengono ignorate in Europa, come l’occupazione indonesiana della metà dell’isola di Papua Nuova Guinea, dove da oltre mezzo secolo è in corso un genocidio.
Dopo L’élu du peuple – Pouvana’a te Metua, di Marie-Hélène Willierme – presentato a FIFO 2012 – ecco un nuovo film sulla vicenda del senatore polinesiano Pouvana’a a O’opa: Pouvana’a, ni haine ni rancune. Ottimo lavoro dello schivo regista Jaques Navarro-Rovira, con ritmo degno di un poliziesco, svela tramite documenti da archivi militari declassificati di recente come il deputato autonomista sia stato ingiustamente accusato, imprigionato ed esiliato in Francia affinché non ostacolasse il CEP, Centre d’Espérimentation du Pacifique, che dal 1966 al 1996 ha gestito le 193 esplosioni atomiche negli atolli di Moururoa e Fantataufa. Lo storico Serge Dunis guida lo spettatore nelle sue ricerche, spiegando e appassionando. Il film ha ricevuto il terzo premio speciale della giuria.
Il pubblico non poteva che applaudire il film Frères des arbres, l’appel d’un chef papou, girato in Papua Nuova Guinea, in cui Mundiya Kepanga, un capo della tribù huli, ammonisce sul rischio di sparizione della sua foresta a causa del gravissimo e illegale abbattimento di alberi. Emozionante il dono a un museo di Parigi del suo prezioso copricapo, ornato dalle piume di quegli uccelli che rischiano l’estinzione con la morte della foresta primigenia. Tra di loro il simbolo stesso di Papua Nuova Guinea, l’uccello del paradiso dal magnifico piumaggio. Ancora più emozionante il suo incontro con gli animali del mondo imbalsamati: il capo huli li osserva, li abbraccia e chiede loro perdono per averli ridotti così.
Il vincitore di questa edizione è il film neozelandese Making good men, storia di violenza e perdono tra due uomini di differente provenienza sociale, entrambi con storie drammatiche alle spalle, in competizione nel collegio dove primeggiavano come sportivi. È una storia a lieto fine, anche se carica di momenti di violenza. Impietosa e reale fotografia della vita in Nuova Zelanda.
Simpatica la haka con cui è stato ricevuto il premio!
#fifo2018 Un haka pour Fiona Apanui-Kupenga, gagnante du Grand prix du jury pour son film « Making good men » @FifoTahiti @FranceOtv @la1ere pic.twitter.com/sLRmVALJ7A
— Polynésie 1ère (@Polynesie1ere) 10 febbraio 2018
Premio Okeanos (fondazione per la protezione degli oceani) al film Blue che mostra impietoso le conseguenze dei rifiuti in plastica nelle acque marine, così tanti da formare un nuovo continente. Non è più possibile pensare alle aree marine come un insieme di risorse illimitate: è arrivato il momento di reagire.
Questi i film premiati, ma gli altri che hanno partecipato al festival non sono meno interessanti. Come Haka and Guitars, che racconta di come un pugno di soldati neozelandesi sia riuscito a interrompere la guerra che imperversava nell’isola di Bouganville, Papua Nuova Guinea, armati di sole chitarre; o la simpatica rivisitazione della storia australiana vista attraverso gli occhi dell’aborigena Trisha Morton-Thomas nel film Occupation native.
Poi E: the story of our song racconta la storia della famosa canzone neozelandese Poi E, diventata simbolo dell’identità maori.
Nel film The third space una giovane meticcia aborigena, bionda e dalla pelle chiarissima, è in difficoltà almeno quanto sua nonna, rapita da bambina dalla tribù noongar e oggi affermata pittrice, lo è stata per la pelle scura.
La magica sonorità del didjeridoo viene svelata nel film Westwind: Djalu’s legacy.
Un salto a Papua Nuova Guinea con Headhunt Revisited: with brush canvas and camera, seguendo le tracce dell’eroica Carolyn Mytinger che, insieme a un’amica, si era spinta nei territori dei cacciatori di teste per ritrarli.
Michel Bourez, des racines du surf à la cime du monde è il ritratto di un campione polinesiano di surf.
Namatira Project racconta la vita del famoso paesaggista aborigeno Albert Namatira e la battaglia legale contro il governo australiano per i diritti d’autore dopo la sua morte.
Nous Tikopia ci porta nella piccola isola di Tikopia, appartenente alle Salomone melanesiane ma popolata dall’etnia polinesiana, per mostrarne la vita semplice e legata alla natura.
In 45 seconds d’éternité tre amici, appassionati campioni di paracadutismo, si lanciano per volteggiare nei panorami più belli della Nuova Caledonia.
Belep, anges et démons ci parla delle due isole a nord della Grand Terre, sempre in Nuova Caledonia, e delle loro superstizioni.
La storia dei cinesi importati a Tahiti e del loro martire, Chim Soo Kung, viene raccontata in Chim Soo Kung, de Canton à Tahiti.
L’inquinamento provocato dalla miniera di rame abbandonata di Panguna, nell’isola di Bouganville (Papua Nuova Guinea) è il soggetto del film La Syndrome Panguna.
Una curiosità: era membro della giuria padre Christophe, parroco della Cattedrale di Pape’ete, sempre più somigliante a Gesù Cristo. Da sempre appassionato di cinema, ha seguito tutte le edizioni del FIFO, prendendo una settimana di vacanza dal suo ministero. Sicuramente la sua partecipazione ha pesato sulla scelta del vincitore.