Le cartine geografiche, nella loro apparente neutralità, sono spesso veicolo di idee e concetti errati. Ne è un esempio la mappa dei dialetti italiani pubblicata nel 2014 da un blog dedicato. Molti me l’hanno segnalata con entusiasmo. Quella che sembra una certosina rappresentazione della ricchezza linguistica in Italia altro non è che il sunto di cinquant’anni di pregiudizi e disinformazione, a volte colpevole, sul tema delle lingue regionali d’Italia.
La prima cosa che si nota è la presenza di zone bianche. La Sardegna, l’Alto Adige e il Friuli sono quasi completamente vuoti, così come il Piemonte occidentale e la Valle d’Aosta. Molti sardi, friulani e valdostani si sono lamentati di questo fatto, chiedendosi perché la loro lingua non è stata segnata. Il punto è proprio questo: la cartina rappresenterebbe i “dialetti italiani”, non le lingue parlate in Italia. C’è una sottile quanto fondamentale differenza tra i due concetti. Le lingue parlate in Italia, secondo lo Stato italiano e la tradizione linguistica italiana, sarebbero gli idiomi riconosciuti come lingue autonome dalla legge 482/99 sulla tutela delle minoranze linguistiche. Gli altri idiomi parlati in Italia sarebbero invece “dialetti italiani”, ossia varietà linguistiche che, per una serie di motivi spesso opinabili, vengono tradizionalmente associate alla lingua italiana. Insomma, quella che stiamo guardando è la cartina delle Cenerentole della linguistica italiana. Sono gli idiomi chiusi nel limbo del dialetto.
A colpo d’occhio notiamo subito che l’Italia è colorata a chiazze e non a colori uniformi. Ogni tonalità di colore rappresenta un gruppo dialettale, mentre ogni chiazza monocolore rappresenterebbe un dialetto. Come se non bastasse, tra i vari dialetti si dipanano linee rosse che delimitano dialetti con caratteristiche simili. Molti, tra studiosi e dilettanti, hanno contestato i confini. Per esempio, c’è chi dice che il bergamasco arriva fino a Treviglio, che nella cartina è segnata come “cremasco”. Altri dicono che il canicattese, che occupa una buona fetta della Sicilia centrale, in realtà ha una distribuzione molto più circoscritta. Altri ancora contestano la divisione dei dialetti lombardi occidentali da quelli orientali. Personalmente credo che queste siano tutte questioni di lana caprina. In fondo non è importante se la carta rappresenta i dialetti, ma proprio il fatto che li rappresenta. L’estrema frammentazione del disegno esprime la volontà di dare alle lingue d’Italia un’immagine altrettanto frammentata. Ciò rimarca un trito quanto falso pregiudizio che vorrebbe i dialetti italiani diversissimi tra loro e incomprensibili a pochi chilometri di distanza. Questo fatto viene spesso usato per negare lo status di lingua alle varietà linguistiche che non sono state inserite nella legge 482/99. In realtà sappiamo che le differenze tra diversi dialetti di una stessa lingua regionale sono per lo più marginali e in genere non ostacolano la comprensione. Inoltre, l’articolazione delle lingue in varietà diverse è una cosa normale. Se nella cartina fosse compreso anche il sardo, lo vedremmo diviso almeno in due dialetti, il campidanese e il logudorese. Il friulano sarebbe invece diviso in quattro varietà principali, mentre il ladino addirittura in sette dialetti.
Un altro aspetto interessante della carta è la scelta di ignorare completamente gli standard internazionali. È risaputo (o quanto meno dovrebbe esserlo) che l’UNESCO ha censito diverse lingue sul territorio italiano nell’Atlante delle Lingue in Pericolo. Nella cartina vediamo una certa armonia per i criteri UNESCO per quanto riguarda l’Italia centro-meridionale. Toscana e Italia centrale sono colorate con la stessa tonalità in accordo allo standard ISO che classifica i dialetti dell’area come varietà dell’italiano. Il nord della Sardegna è collegato alla Toscana attraverso la Corsica. La scelta di rappresentare il corso e gli idiomi sardi di Gallura e di Sassari come varietà toscane è abbastanza opinabile, in quanto si tratta di tre lingue distinte, ma è comprensibile se vengono usati criteri puramente tipologici. L’area blu corrisponde bene a quanto riportato dall’UNESCO sotto la dicitura di “lingua napoletana”, così come l’area verde rappresenta bene i confini della lingua siciliana. Una nota di demerito va alla legenda: invece di chiamare le lingue col proprio nome si è preferito utilizzare la dicitura di “dialetti meridionali” per il napoletano e “dialetti meridionali estremi” per il siciliano, quasi da volere negare ai dialetti dell’area una comune identità linguistica. Al nord notiamo immediatamente una ingiustificata divisione tra lombardo occidentale e lombardo orientale mentre l’UNESCO parla di “lingua lombarda” da Novara al lago di Garda. Le altre lingue riconosciute (ligure, piemontese, emiliano-romagnolo) sono colorate di viola in quanto facenti parte dello stesso gruppo galloitalico, ma non c’è nulla che faccia presagire il fatto che si tratti di lingue autonome e non semplici gruppi di dialetti simili.
Qualcuno vede in questa carta un sunto della straordinaria ricchezza linguistica dell’Italia, e forse è vero. Io però vedo una politica miope che riconosce alcune lingue e ignora tutte le altre. Vedo la volontà di evidenziare la frammentazione, in modo da poter dire “ci sono talmente tanti dialetti che è impossibile salvarli tutti”. Vedo un triste provincialismo che ignora le direttive degli organismi internazionali. Vedo una tendenza a negare l’identità di lingue ai nostri idiomi autoctoni, classificandoli con nomi al plurale che odorano di aula universitaria. Le cartine possono dire molto più di quanto rappresentano.
NOTA
Sui retroscena della questione lingua/dialetto in Italia: Minoranze linguistiche: in Italia si contano con il pallottoliere.