La decisione del Tribunale federale svizzero di escludere le iscrizioni in lingua romancia dal Registro di commercio del Cantone dei Grigioni è “sorprendente” (questo è stato in genere il commento della stampa svizzera) sotto l’aspetto giuridico.
perché la lingua romancia è stata dichiarata da gran tempo “ufficiale” nei Grigioni da un articolo della Costituzione cantonale: e qui ci sembra di capire che nel regolamento dei Registri di commercio è entrata una sorta di svista. Ma quella decisione è anche rattristante sul piano culturale e su quello dello spirito confederale, poiché fa nascere il sospetto che lo sguardo della Confederazione verso la sua quarta etnia, la più piccola, l’esigua nel paese, non sia sereno, non sia magnanimo, non sia amorevole: perché non soccorrevole di chi è nel pericolo.
Bisogna guardare in faccia la realtà: il romancio è una lingua in pericolo: va fatto in modo che questo pericolo si allevii, non si incrudisca. Questa parola, “pericolo”, va presa nel suo significato pregnante. Vediamo il perché. Da decine d’anni il numero dei parlanti romancio è sceso in percentuale sia nel territorio tradizionale romancio, sia nell’insieme dei Grigioni, sia nel Paese; ma per chi legge con cura le risultanze dell’ultimo censimento, tra il 1970 ed il 1980 il numero dei parlanti romancio è sceso anche in valore assoluto; infatti il famoso numero di 51.128 “Retoromanci” nel Paese (nel 1980) comprendeva anche un certo numero di “Ladini non Romanci”: di Friulani, presenti qui in Svizzera, in parte ormai cittadini svizzeri; se si tolgono questi (che non sono generalmente in grado di parlare e quindi di far crescere il romancio grigione), i parlanti romancio sono ormai in Svizzera meno di 49.000: ancora quasi il 5% di meno di ciò che la maggioranza crede. Ma questo dato, già preoccupante in sé, dice ancora poco.
Infatti ciò che conta per la forza della lingua è il numero dei parlanti nei Grigioni e soprattutto nel territorio dei Romanci: la lingua, se si potrà, sarà salvata lì; poco o niente per questo scopo contano le migliaia di parlanti emigrati in altre zone del paese; essi presto o tardi, abbiano poca o tanta coscienza etnica, saranno assimilati: se non loro, i loro figli. Ebbene, nel territorio tradizionale romancio, quello che conta, i Romanci sono ormai solo 30.200: e vi sono la minoranza, il 47% degli abitanti; ciò nel 1980: e oggi? Se la minoranza di lingua italiana in Svizzera vive in un’atmosfera di vago disagio, per quella di lingua retoromancia il pericolo è non solo alle porte, ma è dentro la casa. In quella loro casa ci sono tutte le condizioni favorevoli perché la situazione, che ha ovviamente risvolti sociali, economici e giuridici, peggiori: e lo smottamento diventi, nel censimento del 1990, frana. Nessuno nega che in Svizzera le minoranze hanno vita migliore che in tanti altri paesi: ma un esame obiettivo della situazione d’oggi della cultura romancia fa temere che ci si trovi in un triste preludio, quello del rinsecchire d’uno dei quattro bracci della croce bianca in campo rosso. Sollecitato da una Instanza al Cussegl federal svizzer, presentata dalla Ligia romontscha (mallevadore il Cantone) nell’estate del 1981, il Governo federale ha risposto per davvero solo alla fine dell’anno seguente (dopo una mezza risposta che aveva irritato i Romanci): Berna ha accettato solo una parte delle richieste della Ligia e delle proposte di una Commissione di esperti. Il Governo federale ha accettato ed ha promesso di far esaminare diverse cose, ma tutte sostanzialmente marginali, tutte esterne al nocciolo della questione: in realtà ha detto di no alla possibilità che al romancio venga accordata una dignità di lingua viva nel quadro globale (pur in una posizione più modesta rispetto alle altre, com’è del resto, lo sappiamo, per l’italiano). In pratica, facendo così, la Confederazione ha escluso di voler avviare le premesse per fare del romancio una lingua utile, anzi “necessaria”: per quasi tutta la gamma dei momenti della loro vita i Romanci dovranno continuare ad usare in pubblico una delle altre tre lingue; leggi, nella pratica totalità dei casi, il tedesco.
Il nocciolo della questione è proprio questo: la Confederazione (e per molte cose il Cantone imita Berna) ha lasciato al romancio il ruolo di lingua “inutile”, quello di una lingua “in più”. Lascia, beninteso, che il romancio sia “circondato dalla simpatia di tutti i Confederati”: ma non si deve andare oltre. Il romancio è costretto nel dolce ghetto (perfino benestante, in fatto di sussidi per iniziative culturali spicciole) che ha ispirato a Paolo Monelli quell’espressione, “lingua dei formaggini”, che pure ha scandalizzato la Svizzera dagli anni ’30 ai ’50. Si continua a non voler riconoscere, da parte della Confederazione, che le cause del declino della lingua romancia sono soprattutto nella discriminazione di fondo in cui essa è tenuta e nelle conseguenze che questo fatto ha sullo spirito, sulla coscienza dei Romanci. Anzi, si cerca di gettare la responsabilità della situazione su di loro, pretendendo che “compete ai Romanci la salvaguardia della loro lingua”. Si vuol dimenticare che nessuno oggi può sentirsi a proprio agio con un bagaglio linguistico di cui la realtà circostante nega l’utilità. Che nessuno, in quelle condizioni, è invogliato ad approfondire la propria lingua. O forse, non “nessuno”: solo i grandi spiriti, solo i poeti; fortuna che tra i Romanci finora non sono mancati.
Ecco perché la decisione del Tribunale federale di non ammettere iscrizioni in romancio nel Registro di commercio è anche rattristante: è un altro colpo alla sensazione che i Romanci assorbono, da questa realtà per loro organizzata in modo non equo, che la loro non sia una lingua degna di vivere in questo mondo in cui tocca anche fare del commercio ed iscriversi in quei Registri. È anche rattristante, quella sentenza, perché vi scopriamo che c’è ancora tra noi una pretesa di sopraffare i deboli, una tendenza a non voler concedere nemmeno dei piccoli spazi di manovra alle culture delle minoranze.