Nel 1991, Gianni Sartori intervistava per il giornale “L’erMete” l’allora direttore della nostra rivista, Miro Merelli. L’abbiamo ritrovata e la ripubblichiamo, considerandola un interessante documento “storico” sulla situazione etno-geopolitica del tempo, nonché un riepilogo dell’attività di “Etnie” nella sua prima parte di vita.
Come, quando e perché nasce “Etnie”?
“Etnie” nasce nel 1980 da un cenacolo di persone provenienti dai più diversi ambiti culturali e politici, ma accomunate dal progetto di dar vita a una rivista che avrebbe potuto diventare strumento di raccordo, informazione e servizio per tutti quei popoli, gruppi, minoranze (le “etnie”, appunto), costretti ancora oggi a riconoscersi in identità statuali e politico-amministrative di stampo ottocentesco (i cosiddetti Stati nazionali), che hanno fatto il loro tempo e sono ormai avviate all’estinzione.
Un bilancio dopo tutti questi anni di impegno sul “fronte” dell’autodeterminazione dei popoli: cosa si prova a essere stati dei precursori?
In questi dodici anni la rivista ha rappresentato un fattore importante nell’evoluzione dell’atteggiamento del mondo culturale italiano nei confronti dei popoli di minoranza. Un altro risultato è lo smascheramento e la definitiva emarginazione del cosiddetto “etnismo di Stato”: di tutte quelle, per altro assai rare, iniziative volute e finanziate dai partiti di Roma, che da sempre hanno tentato di ridurre le diversità nazionali in Italia a un fatto meramente folklorico o, al più, dialettale.
Ma, suprattutto, “Etnie” ha saputo definire e delineare, in modo profetico, le tematiche nazionali e regionalistiche come il vero e fondamentale terreno di confronto e di scontro all’alba degli anni 2000. L’evolversi della realtà ci ha dato ragione. Le lotte per l’affermazionc dei diritti nazionali non hanno lasciato indenne nessun continente: dagli aborigeni dell’Australia alle popolazioni autoctone del doppio continente americano, dalla Namibia alla resistenza dei Tamil o del Tibet, dal tragico calvario del popolo palestinese all’agonia dei curdi, per non parlare della Jugoslavia.
Vorrei sentire la tua opinione su due casi che consideriamo emblematici tra quelli delle nazioni incorporate nello Stato italiano: Sardegna e Veneto.
Sono casi entrambi significativi, anche se con non poche differenze. La prima, la Sardegna, è una realtà insulare che ha sempre avuto pochi contatti con l’Italia (non casualmente chiamata “il continente” per significare l’estraneità). La sua lingua non è in nessun modo assimilabile a un idioma derivato dalla lingua italiana. È una lingua con una grande tradizione e una grande letteratura. I referenti storici della Sardegna sono i Paesi rivieraschi di entrambe le sponde del Mediterraneo. La speranza di non essere considerata la “Cayennne” dell’Italia risiede per la Sardegna in una confederazione con le altre realtà insulari del Mediterraneo occidentale e meridionale (Corsica, Isole Baleari, Malta).
Diversa è la situazione del Veneto: secoli di indipendenza, di politica autonoma, di scambi culturali e commerciali con il mondo intero prima, regione prospera e trainante nell’impero austro-ungarico e cardine dell’area alpino-danubiano-adriatica. Solo nel recupero di un ruolo centrale in quest’area risiede la concreta possibilità di una rinascita veneta, ma tutto questo sarà fattibile soltanto riattivando il secolare reticolo di quei fondamentali e vitali rapporti con la Mitteleuropa che sono stati traumaticamente interrotti dalle note vicende risorgimentali.
L’ultima colonia di Roma
Che cosa puoi dirci del “problema Sud Tirolo”, probabilmente l’esempio più macroscopico di sciovinismo italiano?
Giustamente da molti il Sud Tirolo viene definito “l’ultima colonia di Roma”: non possiamo, infatti, dimenticare che questa terra è di lingua e cultura tedesca da dodici secoli. L’Italia ha sempre temuto e non ha mai, pertanto, accettato (tanto nel ‘19 che nel ‘46) un referendum per stabilire la reale volontà della popolazione sudtirolese, riconoscendo, in tal modo, il facilmente prevedibile esito negativo di una simile consultazione. La presenza italiana in provincia di Bolzano è il frutto del sistematico richiamo al diritto di conquista e al diritto della forza ed è inevitabile e sempre più macroscopica la contraddizione con i conclamati princìpi di “democrazia”, libertà, “diritto all’autodeterminazione” che il nostro governo sbandiera in ogni occasione e per ogni Paese del mondo.
È ridicolo, poi, che noi italiani si sostenga il diritto di secessione per gli altri popoli, ma non lo si accetti quando questo riguarda una regione attualmente situata entro i confini del nostro Stato. Se mi è consentita una previsione, l’annessione del Sudtirolo all’Italia non potrà durare a lungo, anche perché il retroterra tedesco di questa provincia si fa ogni giorno più forte.
Qual è il tuo giudizio sullo varie Leghe sorte in questi anni?
Al punto in cui siamo, le Leghe devono risolvere un fondamentale nodo strategico a cui si trovano di fronte: sono esse soltanto movimenti di protesta contro la partitocrazia, il malcostume, la mafia, le disfunzioni dello Stato, oppure ritengono che il sistema non possa più essere rigenerato dall’interno e, quindi, si debba arrivare a una nuova forma statuale, di tipo federale o confederale, che significhi, comunque, la fine dello Stato risorgimentale accentratore e, in qualche modo, autoritario?
Dalla risposta a questo quesito dipenderà il destino delle Leghe: vinceranno se sapranno essere non solo espressione dello scontento, che ha come obiettivo il ricambio della classe dirigente del Paese, ma se riusciranno a proporre un progetto che sappia superare lo Stato nazionale, ormai avviato all’estinzione, e che sia capace di aprire un discorso su un modello credibile di Europa dei popoli e delle nazionalità regionali.
Basta coi miti
Tornando al Veneto: in che cosa si differenzia dalla “Liga” la “Union del Popolo Veneto”? Ritieni possibile una ricomposizione delle varie anime dell’autonomismo veneto?
Per far chiarezza, è bene precisare che, in entrambi i casi, si tratta di movimenti autonomisti. Bisogna sfatare il falso mito dell’unicità del movimento autonomista: nei Paesi Baltici e in Slovenia i fronti e le coalizioni indipendentiste sono formati da almeno una decina di gruppi diversi, che, ovviamente, all’indomani del raggiungimento dell’obiettivo comune si separeranno e si confronteranno fra di loro.
Per tornare ai due movimenti veneti, per quello che mi è dato di conoscere, l’“Union del Popolo Veneto” ha sempre dimostrato una maggior democrazia e una maggiore dialettica interna, un miglior rapporto con i movimenti autonomisti storici e una più accentuata sensibilità per il pluralismo della stessa realtà venetica. Per quanto riguarda una possibile unificazione, sulla base di quanto detto, non la ritengo né necessaria né auspicabile, È, però, indispensabile una miglior collaborazione per raggiungere obiettivi comuni.
In teoria, il diritto dei popoli all’autodeterminazione dovrebbe essere un cavallo di battaglia della “sinistra”. Come spieghi le tante “dimenticanze-rimozioni-ritardi”, per non dire di peggio, della “sinistra” europea, italiana in particolare, quando si tratta dell’autodeterminazione dei popoli oppressi o tenuti, comunque, in condizione di minorità nel Vecchio Continente (penso a Baschi, Corsi ecc.)?
Da una parte ha giocato in un modo determinante la cinica c vergognosa spartizione di Yalta, che aveva diviso e ingessato il mondo in due aree di influenza; dall’altra l’accettazione piena e completa dell’idea dello Stato nazionale risorgimentale, che ha comportato il totale abbandono di ogni forma di tutela delle regionalità e dei piccoli popoli. Le “sinistre” europee si sono in qualche modo impegnate per una battaglia di liberazione esclusivamente quando non erano in discussione gli assetti e gli equilibri continentali. Non si sono contati in questi anni gli appelli e le manifestazioni a favore dell’autodeterminazione di popoli lontani dall’Europa; quando il problema riguardava, invece, un Paese europeo e, in particolare, il proprio Stato, lo sciovinismo etnocentrico delle sinistre non è stato inferiore a quello delle destre: che il Sudtirolo continuasse a essere l’ultimo possedimento di Roma, la sinistra lo ha voluto non meno della destra.
Molte parole, pochi fatti
Cosa ne pensi dell’autodeterminazione dei popoli dell’est europeo? E un tuo parere sul Tibet e sul problema dei Misquitos? Non ti sembra, addirittura, in questo caso, che la sinistra italiana si sia dimostrata più realista del re?
Per l’Est europeo bisogna fare una distinzione: la sinistra dei Paesi dell’Europa occidentale ha sostanzialmente, anche se talvolta in modo contraddittorio, accettato il principio dell’autodeterminazione e del diritto di secessione. È ovvio che il PCUS, temendo la disgregazione dell’impero euro-asiatico, si oppone con tutte le sue forze a questo principio, cosi come la sinistra occidentale. Ne fanno fede l’ostilità al separatismo di Baschi e Corsi (tanto per fare qualche esempio) e i continui appelli della CEE per l’unità della Jugoslavia, quando ben si sa che il governo di Belgrado esercita un potere che, per essere generosi, non va oltre il palazzo in cui risiede.
Nel caso, invece, del Tibet o dei miskito, nessun reale sostegno è stato loro offerto (al di là di qualche dichiarazione di ordine puramente morale), perché ciò avrebbe comportato il rimetter in discussione quei governi centrali.
Cosa ne pensi dello sciovinismo delle formazioni storiche progressiste, PCI, PSI, Verdi?
Come ho già detto precedentemente lo sciovinismo della sinistra è stato profondo, tenace, insidioso e patetico quanto quello delle tradizionali forze nazionalistiche. Il nostro ministero degli Esteri ha da anni fatto propria una politica Grand’italiana, che cerca di riannodare i fili delle tradizionali zone d’influenza del nostro Paese: Corno d’Africa, Vicino Oriente, Albania, Libia, Istria e Dalmazia, Canton Ticino. Ma una dura e imbarazzante verifica attende la sinistra: nei prossimi anni, quando, di fronte alla diffusa e corale richiesta di trasformare l’Italia in un moderno Stato federale o confederale, e all’inevitabile e prevedibile risposta negativa di Roma si porrà il problema del diritto di secessione che alcune regioni (Lombardia, Val d’Aosta, Sudtirolo…) richiederanno, che cosa farà allora? Copierà Svobodan Milosevic o Gorbaciov o i social-nazionali Mitterand e Craxi?
Gli USA sono sempre quelli
Immigrazione dal Terzo Mondo, rifugiati albanesi: qual è la tua opinione in proposito? Come giudichi le prese di posizione delle Leghe?
Da una parte, nel nostro tempo sono fondamentali gli equilibri etnici e la gente ritiene giustamente che essi debbano, comunque, essere salvaguardati. Quando questi vengono in qualche modo minacciati, può esservi una comprensibile reazione di paura da parte delle popolazioni autoctone. Ne consegue che l’immigrazione deve essere rigorosamente proporzionale alle possibilità di accoglienza e di lavoro che realmente esistono. È assolutamente ingiusto accettare persone a cui non siamo in grado di offrire una casa e un lavoro dignitoso. D’altro canto, non possiamo dimenticare i rapporti di debito che l’Italia tuttora ha nei confronti di popoli che sono stati invasi, occupati c colonizzati nel recente passato dal nostro Paese: penso all’Albania c all’Eritrea, per esempio. Con questi Paesi l’Italia ha un pesantissimo debito e a questi popoli, quindi, non può mancare la più ampia solidarietà e comprensione, che, comunque, non può essere un atto propedeutico al ristabilimento di un’egemonia italiana in quelle aree e, in buona sostanza, un fatto nco-coloniale.
La posizione delle Leghe, a questo proposito, fa propria la comprensibile, anche se non del tutto giustificata, reazione emotiva della gente, ma non riesce a impostare con la debita chiarezza i diversi livelli del problema a cui ho accennato. Da ultimo, non è ipotizzabile in Europa una società multirazziale, mentre si può comprendere come il problema dell’immigrazione si ponga in modo completamente diverso per stati recentissimi (come USA, Canada, Australia, Nuova Zelanda), che hanno a malapena due secoli di storia e nessuna identità nazionale ed etnica. Va aggiunto, poi, ai sempre numerosi adulatori della società americana, che negli USA non si è realizzata una vera società multietnica ma solo una “compresenza” di popoli diversi, in cui classe dirigente, potere e ricchezza sono saldamente controllati e gestiti addirittura dai soli bianchi anglofoni (come è noto, le eccezioni si contano sulle dita di una o due mani).
Si è “nazione “ senza confini
“Etnie” si è occupata spesso del cosiddetti “zingari”. A tuo avviso, si può legittimamente parlare di popolo e di nazione soltanto in riferimento alla stanzialità, a un territorio ben preciso, escludendo, quindi, i popoli nomadi?
Anche per gli “zingari” si può parlare di popolo e forse anche di nazione, pur se bisogna dire con franchezza che un concetto evoluto e complesso di “nazioni” implica la definizione di un territorio, quantomeno come riferimento o fascinazione. D’altronde, un popolo si può considerare “nazione” se si autodefinisce come tale: non ha bisogno, per esserlo o non esserlo, del riconoscimento altrui.
A volte i conflitti etnici sembrano dover degenerare in razzismo o in settarismo. A tuo avviso è possibile coniugare la riscoperta della propria identità, al limite l’“orgoglio etnico”, con la tolleranza, la convivenza, il rispetto reciproco tra culture diverse?
I conflitti etnici possono degenerare in razzismo quando sono sostenuti da una spregiudicata volontà egemonica e di penetrazione: è il caso di Israele, che vorrebbe far coincidere i suoi confini di “sicurezza” (il cosidctto “Grande Israele”) con la “mezzaluna fertile” (bacino di Tigri-Eufrate, Giordano, Nilo). Qucsto tipo di supernazionalismo offensivo non ha nulla a che vedere con la riscoperta e la difesa della propria identità: è l’abissale differenza fra il nazionalismo offensivo e quello difensivo, che, viceversa, per sua natura si coniuga necessariamente con sentimenti e atteggiamenti di tolleranza e di rispetto per ogni altra nazionalità, a cui viene riconosciuto lo stesso diritto di autodeterminazione che si vuole riconosciuto a se stessi.
La costruenda “Europa dei popoli” dovrà proprio essere il progetto vincente di questo modello di sviluppo.
Gianni Sartori, 1991