Bandite le lingue non italiane, soppressa ogni forma di autonomia locale, Mussolini procedette alla distruzione delle culture “diverse”. Un atteggiamento ben poco mutato ai giorni nostri
Che durante il fascismo le minoranze (etniche, religiose. eccetera) siano state oggetto di vessazioni di ogni tipo non può destare stupore: la logica di un regime nazionalista aveva uno sbocco obbligato. Se ogni recriminazione è ovviamente inutile, interessante invece risulta l’analisi dei modi e dei mezzi con i quali avvenne questa repressione: si potrà cosi vedere quali ne siano state le conseguenze e quanto dell’atteggiamento e della legislazione fascista sia sopravvissuto, fino ad oggi, al regime.
Il primo passo fu una limitazione delle autonomie locali. Converrà ricordare che il problema, al momento dell’ascesa del fascismo, era già antico: subito dopo la formazione del regno d’Italia era stata ventilata l’ipotesi dell’autogoverno regionale (e tra i promotori c’era il ministro dell’interno Marco Minghetti), ma alla fine venne preferita una struttura rigidamente accentrata e verticistica (legge del 20 marzo 1865). La scelta dipese – ben più che dai supposti “pericoli per l’appena raggiunta unità” – dal timore di attribuire potere a forze locali non omogenee con il governo.
L’esigenza regionalistica tuttavia era cosi fortemente sentita – e tanto più lo fu con il passare degli anni – che nell’immediato primo dopoguerra il regionalismo era tra i punti chiave di partiti come il Popolare, il Socialista, il Repubblicano e di un nuovo partito nato ad hoc: il Partito Sardo d’Azione. A ben guardare, il regionalismo era anche uno dei primi enunciati del “programma di San Sepolcro”, atto di nascita del fascismo, dove si rivendicava, tra l’altro, il “Decentramento del potere esecutivo e l’amministrazione autonoma delle regioni e dei comuni, affidata ai rispettivi organi legislativi”. Appena tre anni dopo Mussolini, giunto al potere, non poteva assolutamente permettere lo sviluppo di strumenti di partecipazione politica come le amministrazioni locali.
Quando, nel ’25, vennero eliminate le opposizioni su scala nazionale, l’attenzione del governo si rivolse alla periferia, e particolarmente ai comuni. La legge del 4 febbraio 1926 stabili che nei comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti il sindaco e l’intero consiglio comunale (elettivi) venissero sostituiti da un podestà (di nomina governativa). Il provvedimento, benché riguardasse la maggior parte dei comuni (7337 su 9148), coinvolgeva appena un terzo della popolazione: 13.978.806 abitanti su 39.988.525. Neanche sette mesi dopo però – il 3 settembre 1926 – il sistema podestarile venne esteso a tutti i comuni.
Per quanto riguarda le province, la prima tendenza del fascismo fu di eliminarle, ma poiché la loro eliminazione avrebbe comportato un rafforzamento delle tesi regionaliste, fin dal ’23 le province vennero strenuamente difese, salvo poi limitarne molto i poteri e le attribuzioni (legge del 27 dicembre 1928), già prepotentemente ridotti dal ruolo di controllo attribuito ai prefetti.
Questi i più importanti provvedimenti presi contro le autonomie locali, provvedimenti molto inaspriti nelle zone dove si agitavano vecchi e nuovi autonomismi.
La Sardegna
L’indipendentismo più antico, essendo nato già durante il regno di Piemonte, era quello sardo. Nei primo dopoguerra si era notevolmente rafforzato per l’enorme afflusso di reduci (quei fanti sardi tanto lodati dagli stati maggiori durante la prima guerra mondiale) che, pur aderendo in gran parte al fascismo, cominciarono a rivendicare l’autonomia regionale. Per molti la guerra era stata la prima occasione di uscire dall’isola, conoscere i “continentali” e quindi – saggiate le differenze e la scarsa considerazione in cui venivano tenuti gli isolani – chiedere una maggiore indipendenza.
L’autonomismo sardo trovava così sostenitori in tutte le classi sociali dalle quali provenivano i reduci e presso le grandi masse, per di più dal ’21 organizzate nel Partito sardo d’Azione. Mentre però il PSd’Az istituzionalmente era regionalista e tentava di collegarsi a movimenti simili, come il Partito Molisano e il Partito Italiano d’Azione, gran parte degli aderenti erano decisamente separatisti. Questo permise a Mussolini, abilissimo in questa occasione, di dividere il movimento concedendo qualche briciola autonomistica allo scopo di isolare i separatisti. In pratica ci si limitò ad attribuire alle prefetture alcune funzioni esercitate da Roma e a potenziare le competenze di comuni e province dell’isola. Così, con il sistema del divide et impera, il regime potè assorbire il PSd’Az e usare tranquillamente la forza contro le rare manifestazioni autonomistiche che, prive di coesione e di organizzazione, di tanto in tanto continuarono a farsi vive soprattutto nelle parti più interne dell’isola.
L’autonomismo siciliano
Diverso è il discorso per la Sicilia, che pure aveva un’antica tradizione di autonomismo e separatismo sostenuta però dall’élite dei proprietari agrari, naturalmente per motivi economici. E a motivi economici fu dovuta la recrudescenza del separatismo nel 1920, quando i latifondisti inviarono un vero e proprio ultimatum al governo centrale minacciando la separazione se non si fosse impedito alle associazioni di reduci di continuare ad occupare terre.
Il fascismo non solo seppe interrompere le appropriazioni, ma in seguito riuscì ad infliggere colpi durissimi (con il “prefetto di ferro” Cesare Mori) alla mafia agraria, secolare nemica dei latifondisti.
Venuti a mancare i tradizionali sostenitori e finanziatori dell’autonomismo, gli unici gruppi organizzati che agirono in questo senso furono le organizzazioni antifasciste come i partiti socialista e comunista e il FUAI (Fronte Unitario Antifascista Italiano) costituito a Palermo alla fine degli anni Venti e stroncato nel ’34. Ma è noto quanto poco incisiva fosse l’azione dell’antifascismo organizzato. Per veder risorgere forti correnti autonomiste e separatiste in Sicilia bisognerà dunque attendere gli anni della seconda guerra mondiale quando l’isola, al centro del Mediteraneo e sottoposta a un vero saccheggio agrario, oltre che ai bombardamenti nemici, cominciò a contestare, prima di tutto, il regime. La costituzione questa volta aveva un carattere essenzialmente politico, e non a caso Mussolini già nel ’41, con un sorprendente telegramma a tutti i ministeri, stabili che “Dagli uffici della Sicilia debbono essere entro breve termine allontanati tutti i funzionari nativi dell’isola”. Nessuno lo disse ufficialmente ma il motivo di un siffatto ordine – mai eseguito perché impossibile da eseguirsi – era la “scarsa lealtà” dei funzionari siciliani, sospettati di tendenze separatistiche verso le quali ormai il regime era impotente.
Vale la pena infine di rilevare che l’indipendentismo siciliano degli anni di guerra ebbe due diversissimi aspetti: da un lato c’erano gli agrari e la mafia che nella separazione si vedevano garantiti da un’Italia futura che si temeva repubblicana e comunista; dall’altro c’era l’indipendentismo populista che invece temeva proprio la perpetuazione di quel mondo agrario-mafioso che era passato indenne attraverso l’unità italiana e il fascismo.
Il francese in Valle d’Aosta
Particolarissima la situazione della Valle d’Aosta che, per essere associata ai Savoia fin dal XII secolo, aveva perso gran parte delle istanze autonomistiche. Vivissima era invece la rivendicazione del francese come lingua della regione, per cui era stata fondata fin dai primi anni del Novecento la Ligue Valdòtaine. Data anche l’entità del fenomeno migratorio stagionale verso la Francia, la Ligue – assai moderata – chiedeva che si istituisse almeno un consolato francese a Aosta e si insegnasse la lingua nelle elementari, ma non ottenne neanche questo. Fu quindi facile per il regime fascista farsi beffe di ulteriori, simili richieste. Tanto più che Anselmo Rean, avvocato, banchiere, appartenente al Partito Popolare e presidente della Ligue, non mancò di dare la sua adesione al fascismo. Il regime potè dunque procedere con mano pesante all’oppressione di questa minoranza linguistica (associandola all’oppressione della minoranza valdese) che agiva soprattutto nelle scuole. Basti dire che alla fine degli anni Venti i valdostani dovettero chiedere come un favore che, almeno nel liceo del capoluogo, come lingua straniera venisse insegnato il francese invece che il… tedesco.
Non a caso, dunque, nel 1930 il prefetto di Gorizia scrisse al prefetto di Aosta chiedendogli consigli su come procedere all’italianizzazione della sua provincia: nelle regioni annesse all’Italia nordorientale il fascismo trovava ben più forti resistenze.
L’autonomismo friulano
L’organizzazione dei territori ex austriaci annessi alla fine della prima guerra mondiale venne affidata, nel 1919, a un “Ufficio Centrale per le Nuove Province” che però venne abolito dal governo Facta pochi giorni prima della marcia su Roma, il 17 ottobre 1922. Del resto i governi “liberali” non differivano molto da quello fascista riguardo alle minoranze etniche della nuova regione. Invano il senatore Francesco Salata, irredentista di antica data preposto all’“Ufficio centrale”, si batté per le varie istanze autonomistiche delle nuove province orientali: il governo romano in proposito fu durissimo. D’altra parte nella Venezia Giulia le tendenze autonomistiche erano differentemente motivate e sviluppate. Solo gli sloveni e i croati mettevano in primo piano la necessità di salvaguardare la loro identità nazionale; in Friuli si chiedeva un maggior inserimento delle popolazioni, rimaste alla periferia dell’impero asburgico, nella vita politica e amministrativa dello stato; in Istria, similmente, il problema più sentito era quello di ritrovare una precisa funzione economica nell’ambito del nuovo stato; a Trieste infine era radicato un intransigente particolarismo municipale.
La situazione al momento della marcia su Roma era abbastanza passibile di favorevoli sviluppi in senso autonomistico, perché Salata era almeno riuscito a ottenere la suddivisione della regione in tre circoscrizioni elettorali (goriziana, istriana, triestina), corrispondenti alla precedente suddivisione austriaca, ma, appena salito al potere, Mussolini sostituì con i soliti prefetti le commissioni formate da esperti per l’amministrazione e il controllo della zona, quindi soppresse la provincia di Gorizia sostituendole la nuova provincia di Pola. Alle rimostranze sia dei goriziani sia dei cittadini di Parenzo – città che ambiva a diventare capoluogo – Mussolini rispose con un telegramma che non lasciava dubbi sulle sue intenzioni: “Sono sicuro che senza proteste che non sarebbero assolutamente tollerate accetterete delibera Governo”. In realtà la soppressione della provincia di Gorizia tendeva ad annullare la prevalenza slovena in quella città, come conferma un altro telegramma che Mussolini inviò a quella sottoprefettura: “In un secondo tempo, quando l’opera di assimilazione degli elementi allogeni sia bene avviata, Gorizia potrà essere elevata a provincia”. In quello stesso periodo viene abrogata la disposizione che costituiva la maggiore conquista dell’autonomismo giuliano: quella secondo la quale la legislazione del regno d’Italia era valida nei nuovi territori solo se adattata alle antiche leggi austriache.
Le reazioni, anche dure, non mancarono soprattutto a Pola e Trieste, ma si trattò quasi sempre di manifestazioni dettate più da interessi spiccioli e pratici che da una vera coscienza autonomistica, e fu ancora facile per il regime usare il sistema del divide et impera.
All’inizio del ’27 le amministrazioni vennero sciolte e sostituite con podestà italiani; e quando ai podestà vengono affiancate delle consulte comunali, in nessuna vengono ammessi croati e sloveni, i cui organi di stampa, per di più, vengono soppressi.
L’oppressione in Sudtirolo
Il governo di Roma, appena annesso il Tirolo meridionale, commise lo stesso errore già fatto dall’impero asburgico: unire forzosamente il Tirolo e il Trentino. Oltre alla precisa volontà politica governativa, a perpetuare l’unione intervenne anche l’interesse dei trentini, contrari a un’autonomia amministrativa di Bolzano che avrebbe finito per mettere in risalto la maggioranza tedesca della regione (84 per cento nel 1921). Prima ancora che il fascismo prendesse il potere, nell’aprile del ’22, la federazione fascista di Trento stilò un programma per la politica di italianizzazione del Sudtirolo. Vediamone brevemente alcuni punti: sostituzione della legislazione austriaca con quella italiana; abolizione di qualsiasi autonomia; distribuzione di terreni a contadini italiani combattenti; uso quasi generalmente obbligatorio della lingua italiana negli uffici pubblici; direzione di tutti gli uffici statali a funzionari italiani; riconoscimento esclusivo delle lauree italiane; assegnazione dei rifugi alpini delle società austro-tedesche al Club Alpino Italiano.
A sostegno di queste “proposte” non mancò, poche settimane prima della marcia su Roma, una vera e propria “marcia su Bolzano e Trento” condotta personalmente da Achille Starace, Francesco Giunta e Roberto Farinacci. Con questi precedenti si poteva ben dare per scontato che già nel gennaio del ’23 il governo fascista istituisse la provincia di Trento assegnando solo una sottoprefettura a Bolzano. Dopodiché il senatore Tolomei, “fiduciario” fascista per l’Alto Adige, stilò una serie di proposte che vennero integralmente accettate dal governo. Eccone alcune: proibizione ai tedeschi di immigrare in Alto Adige; limitazioni di soggiorno per i tedeschi e gli austriaci; uso esclusivo dell’italiano in tutte le amministrazioni; licenziamento dei funzionari di nazionalità tedesca o austriaca e trasferimento in altre province dei funzionari sudtirolesi; divieto dell’uso dell’espressione “Sudtirolo” e soppressione del quotidiano tedesco di Bolzano Der Tiroler, impiego di toponimi italiani; italianizzazione dei cognomi germanizzati.
Per capire con quanta soddisfazione il regime accettò queste proposte basti dire che una legge successiva stabilì in trenta giorni di prigione (pena massima) e una multa da 20 a 300 lire chi usasse la parola “Tirolo” o derivati; in quanto alla lingua tedesca, essa fu così duramente repressa che alcuni sacerdoti ebbero ben cinque anni di confino solo per aver insegnato il catechismo in tedesco. Solo dopo qualche anno il regime pensò di avere abbastanza in pugno la situazione da poter creare la nuova provincia di Bolzano, ma non per questo cessò la repressione della minoranza allogena, costretta ad italianizzarsi con leggi sempre più odiose: è del ’27 la disposizione che proibiva l’uso del tedesco sulle pietre tombali. Senza dire che nel ’29 venne automaticamente a cadere, in base alle leggi italiane, una delle più tipiche istituzioni locali: il maso chiuso. Tutto sommato la situazione non migliorò, dieci anni dopo, con l’alleanza tra Germania – ormai con i confini al Brennero – e Italia: l’accordo italo-tedesco per cui i germanofoni Sudtirolesi potevano optare per il trasferimento in Germania non fu altro che un’ennesima – e finale – violenza pagata con il distacco dalla propria terra.
Questa, in breve, la storia dell’autonomismo e delle più importanti minoranze etniche durante il regime fascista. Se ne desume che il fascismo non fece altro che perpetuare la tradizione antiautonomistica italiana inasprendola con tipica durezza totalitaria. (E fu proprio questa continuità tra regime liberale e fascismo che non portò quasi mai le minoranze su posizioni nette di antifascismo ma, semplicemente, le inasprì contro il “governo centrale” di allora.)
Ma la considerazione di maggior interesse – che deve essere sviluppata dagli studiosi del presente – è un’altra: quali danni ha provocato la legislazione fascista e quanto di quell’atteggiamento repressivo sopravvive nell’Italia repubblicana e democratica?