Il popolo provenzale abita anche un lembo del Piemonte occidentale, dove – accanto alla Lingua d’Oc – sopravvivono canti, danze e strumenti di antica tradizione
In un mondo di diffusione – o di confusione – delle culture come l’attuale è sempre più difficile disegnare una mappa geografica dei settori musicali. Ma indipendentemente da questa considerazione generale, se risaliamo ai principi che presiedono al fenomeno musicale popolare, appare per lo meno azzardato parlare in senso strettamente classificatorio di musica “bretone” o “catalana”, “bavarese” o “emiliana” o “boema”.
Le matrici ci sono, ma catalogarle ed etichettarle secondo criteri da “genere musicale” è operazione non meno razionalistica e dottrinale che pretendere di incasellare i “generi letterari”.
Il discorso vale, ovviamente, anche per la musica popolare dell’arco alpino provenzale, settore geografico della nostra indagine.
Esiste realmente una musica popolare provenzale alpina?
La domanda riguarda le valli cisalpine, che chiudono a ventaglio la provincia di Cuneo ed in parte quella di Torino (press’a poco tra la valle Vermenagna ed il colle di Tenda, a sud, e la valle Susa ed il Monginevro, a nord) e le corrispondenti valli transalpine.
Per rispetto dello spazio consentitoci, limiteremo la nostra indagine alla parte meridionale di questo territorio: cioè alle valli di Cuneo, con gli opportuni riferimenti alle corrispondenti valli transalpine del Nizzardo, dell’Ubaye e del Queyras.
Oggi chi entra nelle osterie e nei bar della nostra montagna provenzale, o frequenta i “festini” e le sagre, ben difficilmente ha la ventura di cogliere i motivi tradizionali locali, sostituiti integralmente dal “liscio” alla Casadei o alla “Vecchia Romagna”. Qualche incerta eccezione può riscontrarsi in valle Vermenagna (Vernante), dove per merito di alcuni esecutori fedeli ai vecchi ritmi resistono in qualche modo courento, balét e raspo, tre tipi di ballo sopravvissuti a più numerosa progenie, in una valle devastata dal cemento e dal consumismo; oppure a Blins (Bellino), in valle Varaita, dove fino a qualche anno fa, Batistìn Galliàn – un vecchietto pieno di brio – oltre a cantare, eseguiva sul suo violino a tre corde arie di calissoùn, di courentes ed altri balli e canzoni, autoctone nel testo e nella melodia: come “La rigoulado”: (Vouài, que rigoulado, que la lei a dins nouòsto valado!… Oh, che festa c’è nella nostra valle!…). Batistìn Galliàn rimane figura esemplare nelle valli provenzali, per l’apertura e la gioiosa disponibilità con cui discorreva di tutto quanto appartiene etnicamente alla nostra montagna, e soprattutto della musica. Siamo ormai costretti, purtroppo, a ricostruire il discorso sulla musica valligiana provenzale fondandoci sulle eccezioni. Oggi varie danze e canti delle valli d’Oc sono state riprese in Coumboscuro (valle Grana, Cuneo) da parte dei giovani de “Li Dançaires” (danzatori) e da “Lì troubaires” (trovatori, suonatori) del “Movimento di Autonomia e Civiltà Provenzale Alpina Coumboscuro”.
In valle Vermenagna sono, invece, attivi i “Balarin dla Tourousela” (danzatori del torrazzo); in valle Po, a Sanfront, si profila una riscoperta di balli locali.
In ogni caso si tratta – se non certamente di revival – di volontarie e parziali operazioni di salvataggio d’un patrimonio ridotto ormai sul ciglio della scomparsa. Emigrazione, penuria economica, rifiuto della lingua e della cultura da parte degli organi ufficiali (scuola, amministrazione) hanno determinato nei montanari provenzali un progressivo distacco materiale e morale dalla valle ed il disamore della cultura autoctona; aggravato di giorno in giorno dalle proposte alienanti dei tempi.
Diremo, sintetizzando, che non si è formato al momento giusto il sentimento d’un popolo etnicamente caratterizzato. Popolo alpino-provenzale: alpino, in virtù di progenitori celto-liguri d’origine e di antico impianto pre-romano; provenzale d’Oc, per il tipo di lingua (meglio che di cultura in senso esteso) sovrappostosi al primitivo strato etnico.
Oggi per renderci conto della civiltà e della qualità di vita e di interessi trasmessesi attraverso i secoli fino alla soglia degli ultimi decenni, siamo costretti a lavorare su non molte espressioni culturali sopravvissute: e se ciò appare vero per tutti i settori del patrimonio tradizionale, certamente lo è tanto di più in quello della canzone e della musica. Riteniamo che il quadro socio-culturale da noi tracciato non sia esclusivo delle valli provenzali d’Italia, poiché si ritrova in forme analoghe in altre minoranze etniche dello Stato che sono, in generale, delle tipiche sacche di depressione.
La povertà economica d’un ambiente umano trascina sempre dietro di sé delle difficoltà d’ordine spirituale: spesso mette in crisi linee culturali autonome già bene tracciate, altre volte soffoca i presupposti stessi di questa cultura che pure – anche qui come ovunque – esistono, e ben spesso ad uno stadio di promettente purezza.
I canti profani
Utilizzando il materiale disponibile (che pur rimane sempre abbastanza copioso per uno studio d’insieme) e senza nemmeno pretendere di esaurirlo tutto, per chiarezza ripartiremo l’illustrazione della musica popolare provenzale in alcuni punti: a) canti profani; b) canti rituali; c) danze; d) strumenti usati.
Non prenderò in considerazione (se pur esiste) la protostoria illustre delle nostre origini musicali, cioè i secoli cosiddetti “trobadorici”, tra il 1100 ed il 1500: ritengo per lo meno avventuroso stabilire dei riferimenti concreti tra l’attuale patrimonio melico e melodico delle valli provenzali ed il lai medioevale e cortese.
Sotto la denominazione di “canti profani” ricade il maggior numero di composizioni a noi note. Si tratta di pezzi musicali talora di reale originalità inventiva, altre volte di più modesta fattura. Alcuni raccoglitori si sono azzardati a far risalire molti di questi canti ai lie trobadorici. Per conto nostro la tesi è infondata e rasenta l’utopia. Se è vero che alcune composizioni richiamano i modi delle complaites del cinque-seicento, son certamente da escludersi riferimenti alle composizioni trobadoriche.
La struttura musicale di questi canti è, infatti, tipica del periodo tardo ’700-inizio ‘800, quando i tre gradi fondamentali della tonalità – tonica, sottodominante, dominante – avevano ormai assunto la loro precisa e fondamentale posizione all’interno della frase musicale, ed il settimo grado già assolveva alla sua classica funzione di “sensibile”, totalmente ignorata nell’epoca trobarica.
Anche i rimandi già accennati a modelli cinquecenteschi appaiono delicati: si può, infatti, presumere che pochissimi canti risalgano al cinque-seicento o siano stati composti in quell’epoca: ma si tratta per lo più di motivi religiosi o consacrati a ben determinati periodi dell’anno. Ne riferiremo più avanti.
Gli altri canti – quelli, per intenderci, che abbiamo definito “profani” – risalgono quasi tutti ai secoli XVIII-XIX e non tutti sono circoscritti alla nostra montagna provenzale poiché molti ricorrono, sia pure in varianti diverse, in Provenza, Piemonte, Lombardia, ossia in aree celto-cisalpine (oltreché transalpine) anche notevolmente distanti dalle Alpi sud-occidentali (dei due versanti), oggetto della nostra illustrazione.
I rimandi strutturali e tematici tra queste versioni sono spesso di estrema evidenza anche per il profano. Riportiamo a titolo di esempio, la musica del refrin de “La rigoulado”, già ricordata (tavola 2).
Non occorre molta malizia d’orecchio per richiamare alla memoria “Le chevalier de la lune”, celebre canzone-walzer francese, appunto di fine ’800, largamente diffusasi in area cisalpina. E notiamo come la somiglianza delle due linee melodiche sia tale da apparire, piuttosto, identità (tavola 3).
In ogni caso la tesi della discendenza più o meno diretta dei motivi oggi reperibili nelle valli provenzali dalla matrice medioevale trobadorica ha un acuto sapore di operazione intellettuale, intesa a mobilitare e promuovere socialmente una realtà popolare di ceppo assai più modesto. Con il rischio di spogliarla, appunto, dalla sua autenticità popolare.
E la stessa argomentazione di chi afferma che le sedie, sulle quali oggi ci sediamo, derivano direttamente dalle pietre su cui si sedevano gli uomini preistorici. E come dargli torto se ci poniamo, molto idealisticamente, in una larga prospettiva di filosofia della storia?
Ma noi qui, scegliendo più modestamente la concreta prospettiva offerta dagli ultimi secoli e confluita nella incerta realtà attuale, dobbiamo anzitutto esaminare – sempre nell’ambito della musica profana – i canti secondo le loro funzioni.
Canzone satirico-umoristica. La maggior parte delle composizioni pervenuteci nell’ambito del canto profano è di carattere umoristico-scherzoso: si tratta, cioè, di canti che venivano utilizzati nelle varie viha (veglie) per mettere alla berlina, bonariamente o malignamente secondo i casi, una persona, un paese o un’intera vallata. Esempio tipico di quest’uso funzionale della canzone è la già citata “Rigoulado”, che fa bersaglio delle proprie mordaci allusioni le ragazze da marito di Blins / Bellino (alta valle Varaita).
Dello stesso tenore – ma questa volta venato d’un sottile autolesionismo – è pure l’“Ase de Alegre”, un canto proveniente da San Buc/Sambuco, in alta valle Stura (Cuneo): narra con lepido umorismo il testamento dell’asino d’un certo Alegre: sfortunato ma filosofo il padrone; sfortunato ma anche più serenamente filosofo il quadrupede… E ricordiamo pure “Nì migou, nì tigou”: una amabile ed allusiva satira della vanità delle donne, colta in Coumboscuro.
Di molto interesse, in questo genere, è pure “Jan Jan, piho la caréto!…” (Giovanni, Giovanni, prendi la carretta), proveniente dal versante nizzardo, ma presente con alcune varianti in tutta l’area provenzale-alpina: caricatura umoristica d’un marito tradito che scopre fortuitamente l’intrigo intessuto dalla moglie grazie alla mancata puntualità di costei nel portargli il pranzo in campagna, dove lavora: e riesce, così, a vendicarsi con mezzi, a dir poco, persuasivi (tavola 3).
Canzone d’amore. Per quanto possa apparire incredibile nel nostro mondo di uomini che in ogni tempo hanno sempre fatto grande sperpero di amore e dei suoi surrogati, sia nei comportamenti che nel linguaggio, nella montagna provenzale d’Oc la canzone d’amore è cosa non frequente. Strutturata su modelli più complessi, nel testo e nella melodia, risulta più difficile da ritenere ed esige un orecchio più affinato.
In questi motivi prevaleva il genere della “complainte”: ne abbiamo un noto esempio in “Bonjour; Ninon…”, canzone di contrasto amoroso in cui si affrontano, con una schermaglia di battute allusivamente maliziose, un cavaliere ed una pastora: il pretendente esprime le sue profferte nel raffinato francese colto del suo ceto, la pastora si difende con il colorito linguaggio provenzale, appreso “en gardant mi moutoùn” (vigilando le mie pecore). (Tavola 1).
In realtà il contrasto è solo apparentemente ludico e nasconde un altro diverso contrasto tra ceti sociali, di cui i due personaggi sono gli esponenti, secondo un modello diffuso ben oltre l’area provenzale: pur con varianti ideative, ricordiamo per esempio il noto motivo piemontese de “La bela bergera”, in cui sono tre “jolis français” a ricoprire il ruolo del cavaliere ed il piemontese sostituisce la funzione popolare del provenzale, mentre il quadro si complica con l’introduzione del bergé. Ma l’azione rimane sempre quella tipica della favola pastorale di costume colto. Ma se i motivi finora richiamati sono notevoli per pregi di spontanea e vivace popolarità, con “Aqueli mountanho…” ci troviamo di fronte ad un’invenzione popolare di autentica e commossa poesia. Si tratta di un motivo dolce e grandioso ad un tempo, presente, in diverse varianti di testo e di melodia, nell’intero midi francese, tra Alpi e Pirenei; cioè, in tutta l’area d’Oc.
Originaria (forse) dell’Alvernia, questa canzone, certamente in virtù della sua suggestione poetica e musicale spirante la pensosità lirica dei vasti orizzonti, è giunta alle valli cisalpine attraverso il Nizzardo e l’area immediatamente transalpina, popolati di nostri emigranti e meta di frequenti scambi commerciali e culturali. Ripetiamo la versione ricorrente sul nostro versante (tavola 2).
E curioso notare, di passata, che l’“Ave Maria” di Lourdes rivela una somiglianza straordinaria con questo motivo: tanto che la prima frase musicale è perfettamente identica sia nella linea melodica, sia nella scansione ritmica. Entrambe le melodie sono un cullante tempo 3/4, quasi di valzer lento (tavola 2).
Canzone narrativa. Accanto alla canzone d’amore – sempre nell’ambito del genere profano – ricorrono le “canzoni narrative”, che si ispirano a fatti di cronaca paesana o a situazioni degne d’essere consegnate alla memoria della comunità. Con esse usciamo dal predominante anonimato inventivo: si tratta, infatti, di composizioni che un estroso autore locale creava estemporaneamente, per accompagnare le veglie invernali, quando sulla montagna “la charamaio” (nevica) ed il silenzio è sovrano ovunque.
Per lo più composte in ritmo ternario, queste canzoni adattano un proprio testo a melodie già in voga, colte da qualche girovago nei festini delle ricorrenze patronali tra fine ’800 e primi ’900. Riportiamo, come esempio, la prima frase melodica di “Barbo Batisto Pasquièr…” (tavola 1). A titolo di confronto, nel quadro della tesi da noi sostenuta (della analogia, cioè, e del rimando tematico e strutturale tra motivi di aree diverse e spesso lontane fra di loro) riportiamo ancora l’avvio musicale di “En calant de Cimiéz”, nota canzone del Nizzardo, e di “Era un bel lunedì” canto di larga diffusione popolare in area nord-italica:
(En calant de Cimiez, / souta d’una figuièra / ai rescountra Nourè / ’mé la moun calinhèra. / Acò es un destin / que lou Bon Diou me mando / Ai piha lou fusìl, / ai tuha la pichouna).
(Era un bel lunedì / scendevo dal paese / andavo in città / per guadagnar le spese. / Vendevo mazzolìn / di rose e gelsomìn…) (tavola 3).
I canti rituali
In questo titolo rientrano le melodie che venivano per lo più eseguite durante particolari cerimonie o in determinate ricorrenze: il matrimonio, il decesso di qualcuno, il Natale, la Settimana Santa, Ognissanti, la festa del paese, il carnevale, lou Mai o festa di primavera erano le occasioni classiche.
Ma altri canti coincidevano con particolari momenti della giornata: per esempio quelli eseguiti prima dei pasti oppure prima di entrare a stalla, dove si faceva la veglia serale. Lascerò ultimi i “Nouvels” (canti natalizi) ed i motivi legati al calendario liturgico annuale: nella tradizione alpina, e più ampiamente provenzale, essi rappresentano un genere a parte di notevole popolarità.
I canti di matrimonio, di cerimonia funebre e delle altre scadenze determinanti della vita erano, di norma, profani o religiosi. Di questi secondi diremo più avanti. Qui ricordiamo le melodie che accompagnavano la sposa e lo sposo prima e dopo il rito: ed erano le più belle.
Di quelle rimasteci ne ricorderò una assai caratteristica, di cui conosciamo soltanto la melodie, oggi per lo più eseguita a tempo di walzer. Si trattava, in realtà, di una marcia che serviva ad accompagnare gli sposi alla chiesa. Di essa troviamo varianti interessanti in tutta l’area d’Oc d’oltralpe, ma la sua terra d’origine – dov’essa, infatti, è oggi ancora diffusa – sembra essere l’Alvernia.
Non conosciamo più, invece, le composizioni popolari per i riti funebri e per il lutto e nemmeno quelle delle feste di paese e del mese di maggio. Esse rappresentavano un patrimonio non cospicuo, ma reale, che i vecchi ricordano ancora vagamente, senza saperne dare notizia più precisa.
Le “baihes” (abbadie) ci hanno invece tramandato i ritmi incalzanti del carnevale: rullati dai tamburi su tempi di marcia spinti fino all’ossessione, avevano di solito un tempo 2/4 binario, con il primo accento della battuta assai marcato. Questi ritmi vengono oggi ripresi nella rievocazione delle baihes (che erano semplicemente i corpi di guardie volontarie – specie di confraternite laiche – con compiti di vigilanza d’ordine nelle feste e manifestazioni di paese). Oggi è nota la baiho di San Pèire (valle Varaita), ma fino a qualche tempo addietro quasi ogni paese aveva la sua, capeggiata dagli abba, con seguito di guardie, tamburi, tamburini.
II carnevale – fenomeno dalle scoperte origini pagane e pervaso di fermenti naturalistici – teneva un largo posto tra la gente delle valli provenzali: la quale non fu mai, in verità, incline a chiusure e a pessimistici rigori morali, ma ama abbandonarsi serenamente al brivido gioioso delle feste e degli incontri.
Cosi si spiega l’importanza attribuita ai canti di addio al carnevale. Sul versante transalpino è ancora conosciuto un bel motivo, intitolato appunto “Adieu!” e che inizia con un’invocazione quasi sospirosa: “Adieu, paure, adieu, paure carnaval” (tavola 1).
(Addio, povero carnevale! Tu te ne vai, io me ne vengo. Arrivederci l’anno prossimo! Ci ri pi ci! Ciu ciu ciu ciu ciu! Ascoltami, compare Giacomo, ci ri pi ci, ciu ciu ciu ciu, ascolta ciò che ti dico!).
Il modo minore di questa composizione – che per sé appare stranissimo – sta forse ad evidenziare la tristezza di questo cedere alle feste, ai digiuni ed alle penitenze (davvero duri un tempo e durissimi per la montagna) del tempo quaresimale.
L’“addio al carnevale” è tuttora presente nelle valli provenzali cisalpine: lo si tenne ancora nel 1980 al Vilàr de Acéi (Villàr di Acceglio, in valle Maira): purtroppo senza più i canti, che sono andati persi!
“Nouvèls” o “Noels” erano chiamati i canti natalizi propriamente religiosi, oppure sequenze di versi, che insieme all’azione scenica dei pastori in adorazione di Gesù, formavano il classico Noël provenzale.
I “Nouvèls” dell’arco alpino sud-occidentale si ispirano, senza dubbio, ai noels provenzali di Avignone, di Arles, di St. Remy del 1600, che fu il secolo d’oro del genere pastorale, soprattutto per merito del grande Nicolas Saboly (1614-1675). Sono famosi i suoi 93 “Nouvel”, composizioni d’una vivacità artistica e d’una forza di trasfigurazione storica davvero eccezionali.
I due nouvèls sopravvissuti nelle valli provenzali cisalpine – quello de “La Chanàl” e quello de “L’Argentièro” – presentano, appunto, una qualità ideativa ed una tessitura poetica molto fedeli al modello saboliniano. Come il Saboly, qui ricorrono fresche scene paesane tratteggiate a tocchi rapidi e popolarmente vivaci, non disgiunti da un gusto di scherzose allusioni: tra tanto affaccendarsi, intorno a Gesù Bambino, di pastori e pastore pronti al cicaleccio ed al battibecco, prende forma un tono di sorridente umorismo che non va certamente a detrimento della fede sincera dell’ispirazione.
Sul colorito realismo delle macchiette si stende sempre, infatti, la mistica religiosità del mistero della Nascita di Dio che emerge in tutta la sua suggestione in alcuni momenti di grandiosità immaginativa, degni del grande modello Saboly, e nello stesso tempo intrisi d’una innocenza paesana e rudemente alpina che il modello avignonese non conosce.
Riportiamo, indicativamente, una strofa de “Lou Nouvèl de l’Argentièro”:
Pastres de l’Argentièro
calen de n’aut en bas
portoun froumage gras
dedins la froumagièro
per far la presentièro
al bon Jesu qu’es nas.
(Pastori dell’Argentera
scendono di alto in basso,
portano formaggio grasso
nella formaggiera,
per farne dono
al buon Gesù ch’é nato).
Chi scrisse questo nouvèl era certamente persona di inclinazione culturale e di felice intuito artistico, oltre che profondamente imbevuta di coscienza religiosa. Forse era uno di quegli autodidatti che fiorirono numerosi in montagna e si incontravano nei mercati di Guillestre (Queyras) come di Demonte (valle Stura), di Barcellonette (valle d’Ubaye) ed altrove: ossia nei crocevia commerciali intra-alpini.
Purtroppo la musica del “Nouvèl de l’Argentièro” (come del “Nouvèl de La Chanàl”, val Varaita) non ci è pervenuta, ma è presumibile che essa si rifacesse a composizioni profane (magari del medesimo autore ignoto): come d’altra parte accade anche in Saboly. Poiché questi nouvèls – è indubitabile – appartenevano culturalmente non soltanto alla sfera del “religioso” ma, più ampiamente, a quella del “popolare”.
Le Passioni e le parlate. Durante la Settimana Santa molte comunità celebravano regolarmente la passione e la morte di Gesù Cristo. La consuetudine aveva generato dei veri e propri spettacoli coreografici, in cui svolgevano un ruolo di assoluto rilievo le Confraternite.
Nelle valli probeneali cisalpine, purtroppo, quasi tutto è andato perso. Soltanto a Vòudier (Valdieri, valle Gesso) e ad Entraiga (Entracque, valle Gesso) ed in Coumboscuro, a Sancto Lucio (valle Grana), queste celebrazioni sopravvivono in qualche modo: ma si tratta in gran parte di ritorni guidati dall’intento colto della ricostruzione e dell’adeguamento dello schema antico alle esigenze moderne: così come si verifica con l’annuo roumiage prouvençal de l’adoulorado (pellegrinaggio provenzale per la Vergine Addolorata) della seconda domenica di luglio (ma con chiaro riferimento al mistero della Passione) in Coumboscuro: in esso è evidente lo sforzo di proporre il provenzale come lingua d’uso religioso e liturgico di massa, sia nelle preghiere che nei canti processionali. La stessa cosa accade a Valdieri, dove il giovedì santo si commentano pubblicamente in provenzale, con accompagnamento di canti, i momenti della Passione di Gesù.
A Entraiga (Entracque) si tiene, dal giovedì al sabato santo, la celebrazione delle parlate, articolata su una sacra rappresentazione sostenuta da attori del popolo, ed una sfilata spettacolare per il paese, simboleggiante la salita al Calvario. Non vi compare, tuttavia, l’uso della lingua provenzale e sia l’uno che l’altro momento sono resi in italiano, compresi i canti. Del dramma sacro, attribuito ad un frate, aggregato nel 1600 alla comunità stabilitasi a Entraiga, è stato pubblicato il testo, riveduto secondo criteri linguistici chiaramente ottocenteschi.
Le danze
Anche i balli, che furono una cospicua voce del patrimonio culturale provenzale alpino, hanno sofferto negli ultimi sessant’anni un irrimediabile depauperamento. Molti tipi di danza tradizionale – courento, balét, gigo, bourrého, viéio, trésso, calissoùn, susehin, ecc. – son ancor oggi eseguiti popolarmente su ritmi musicali perfettamente conservati e spesso arricchiti di varianti dall’estro inventivo delle ultime leve di suonatori. Ma molti altri balli, a lungo tramandatisi nelle valli, sono ormai più nel ricordo che nell’uso: l’economia di pura sussistenza e lo spopolamento massiccio non potevano avere effetto diverso.
Ma là dove le condizioni economiche hanno in parte evitato lo spopolamento – per esempio a Vernante, in valle Vermenagna – i balli della tradizione sono ancora vivi nell’uso, nonostante che proprio quella valle sia battuta più di altre dal vento alienante del turismo.
Per lo più le danze sono in tempo 6/8 o 2/4, quasi sempre di modo maggiore: più antiche quelle in 2/4, mentre il 6/8 è sopravvenuto recentemente, forse per influenza di musiche di importazione.
Alcuni balli, per esempio “A susehìn”, appartenente a Blins/Bellino (valle Varaita), presentano il curioso accostamento dei tempi 2/4 e 6/8.
Pure in 6/8 sono quasi tutti i balli della valle Vermenagna; in questa zona di passaggio frontierasco, infatti, facilmente i suonatori erano indotti a trasformare motivi d’origine piemontese in courente e balét locali: tipica la “courenta del cu-cù”, la cui frase iniziale si ispira alla nota canzone in italiano del “cucù”. L’accostamento dei motivi iniziali delle due melodie è istruttivo (tavola 2).
Le danze provenzali cisalpine più antiche, come “La viéio”, pur avendo subito parecchie modifiche per l’uso della fisarmonica, che nel secolo scorso ha sostituito il violino, sono strutturate su base modale anche se ritmicamente i gradi mantengono, in misura più o meno scoperta, la tendenza a disporsi in andamenti liberi, sempre su base modale; mentre i più recenti (che sono pure i più numerosi) oltre a presentarsi estremamente rigidi nel ritmo si configurano decisamente su base tonale.
Si tratta di balli rudi, in cui si avvicendano figure spettacolari, pur nella povertà e nella rustica marcatura del ritmo.
Erano, i balli, l’occasione dell’allegria improvvisata delle serate dopo il duro lavoro, o delle feste di paese.
Originariamente accompagnati dal violino e dalla ribèbo (scacciapensieri) – l’uno e l’altro, strumenti più melodici che ritmici, soprattutto il violino – questi balli subirono una progressiva accelerazione con l’introduzione della fisarmonica e del clarino, strumenti, appunto, più veloci e ritmici.
Ancora oggi i vecchi suonatori accusano i giovani di “spingere” (“poussàr”)troppo i ritmi e, come conseguenza, di trascurare troppo l’armonia della figura e del passo. Purtroppo è difficile resistere al mutare dei tempi!
Al di là delle particolarità via via già emerse e tenendo presente le riserve formulate, ci limitiamo – a conclusione della nostra indagine – ad alcune brevi annotazioni:
a) risulta di notevole interesse musicale, nelle tradizione melodica provenzale-alpina, la frequente conservazione di modi esecutivi ormai arcaici, spesso richiamantisi al repertorio narrativo locale;
b) in linea generale possiamo pensare che le forme solistiche siano assai più arcaiche, disponendosi esse su base modale, mentre le polivocali generalmente a distanza di terze, oltre ad essere più rigide sia nel ritmo che nella forma metrica, tendono decisamente a porsi su base tonale.
Gli strumenti
Ci limiteremo ad una breve nota sugli strumenti usati nella esecuzione di musica tradizionale nelle valli cisalpine provenzali.
Oggi, a questo riguardo, si indulge anche troppo a lunghe e talvolta verbose illustrazioni, le quali, più che un interesse concreto per la civiltà locale, tradiscono un intellettuale gusto dell’esotico, a mezza strada tra il folclore e l’accademia popolare.
Per chiarezza di chi legge, ripartirò gli strumenti in uso nella nostra montagna in due categorie:
a) strumenti che appartengono al ricordo o che sono stati ricuperati recentemente: viouloun (violino), viello o vioùlo (ghironda), finfre, flauti diversi, cornamusa, ribèbo (scacciapensieri), organetti e fisarmoniche diatoniche.
b) strumenti importati da aree culturali esterne, dove spesso sono utilizzati nel settore della musica consumistica: fisarmonica (prima a bottoni, poi a pianoforte cromatico), saxofono (per lo più a tenore), clarino in “do”, chitarra e batteria.
Generalmente essi sono più completi per possibilità armoniche, tecniche ed espressive, che li rendono più apprezzati da un pubblico musicalmente non preparato e, purtroppo, sensibile soprattutto ai risultati d’effetto. Questi strumenti in breve tempo hanno relegato nell’ombra, fino a farli scomparire, i primitivi strumenti, più melodiosi e fini, ma meno ritmici e rumorosi. E ovvio che il mutamento di strumento trascina spesso con sé il mutamento della base musicale dei brani che passa da un tipo “modale” ad un tipo decisamente “tonale”.