Nella terra di Dracula, chi muore non giace e chi vive non si dà pace. Ed è cosi che a Valea Uzului, Transilvania romena, ci si fa il sangue cattivo (ovviamente) su un cimitero. Dove sono sepolti i morti delle due Guerre mondiali, ma soprattutto gli ungheresi. Dove alcune settimane fa un gruppo di politici, di pope e di nazionalisti romeni ha eretto 52 croci “in onore dei nostri Caduti”, cantando marcette nostalgiche e sventolando bandiere. Dove i residenti della minoranza magiara non hanno gradito visto che la Transilvania, oggi romena, fu prima austroungarica ed è comunque contesa da almeno un secolo. Sul camposanto, sono volate inevitabili botte da orbi. In campo diplomatico, i soliti botti di Orbàn. Che ha finito per convocare l’ambasciatore romeno, chiedendo un’inchiesta sulle decine di feriti, sulle lapidi spezzate e sulla “provocazione”.
Non saranno poche tombe a scardinare le relazioni fra i due Paesi dell’Ue. Ma la questione va ben oltre la profanazione: Budapest accusa da sempre Bucarest di penalizzare il milione e passa d’ungheresi che vivono in Romania; Bucarest rinfaccia spesso a Budapest, e al supersovranista Orbàn, di sognare una Grande Ungheria per i magiari espatriati nei Carpazi e nei Balcani. La campagna elettorale delle recenti europee non ha aiutato, quella imminente per le presidenziali romene non gioverà. Perché Orbàn non fa che promettere la fine delle discriminazioni per gli ungheresi della diaspora, mentre la retorica rumàn considera la Transilvania un irrinunciabile Kosovo, una sacra Gerusalemme: cancellate questa regione, diceva Simion Mehedinti, grande cantore transilvano, e i romeni diventeranno come una ruota senza raggi. La ruota della storia ha ripreso a girare, riaffiora un rancore sepolto. E suona sordo l’appello – “vivete da fratelli!” – che il Papa ha lanciato ai due popoli nel suo ultimo viaggio da queste parti. I fratelli sono coltelli, e i loro leader hanno lingue troppo affilate.
Francesco Battistini, “Corriere della Sera”.