Il leader turco Recep Tayyip Erdogan è un abile e cinico politico che sta subendo un rapido logoramento dopo 20 anni di potere ininterrotto. Il presidente filo islamico è in calo di consensi in patria per la disastrosa gestione dell’economia e della politica monetaria e, per uscire dall’angolo in cui si è cacciato, potrebbe aver pensato di sfruttare la causa palestinese e i suoi legami con Hamas, che controlla la striscia di Gaza, per affermare e ribadire un suo ruolo di leader del mondo musulmano.
Contro Israele
Retorica neo-ottomana da sultano d’oriente? Forse, ma c’è anche dell’altro. In questa chiave di lettura va inserita la scelta di alzare i toni dello scontro verbale con Israele. “Il Consiglio di sicurezza deve prendere rapidamente delle misure nel quadro delle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU per la pace a Gerusalemme. È un dovere di tutta l’umanità resistere agli attacchi di Israele contro le città palestinesi e Gerusalemme”. Così si è espresso Erdogan, tornando a definire Israele uno “stato terrorista”.
“Coloro che tacciono, che sostengono o che sono complici dei crimini commessi da Israele, sappiano che un giorno verrà il loro turno”, ha aggiunto rivendicando il suo impegno diplomatico sulla crisi e ricordando di averne discusso finora con 19 capi di stato e di governo.
“Come abbiamo impedito la creazione di un corridoio terroristico alla nostra frontiera con il nord della Siria, oggi ci opponiamo con determinazione alle mani che attaccano [la moschea di] al-Aqsa” a Gerusalemme. “Anche se il mondo intero dovesse chiudere gli occhi sulle crudeltà di Israele verso i palestinesi”, ha assicurato, “noi non lo faremo”.
Contro i Paesi musulmani
Il presidente turco ha inoltre criticato la scarsa determinazione di alcuni Paesi musulmani nel sostegno ai palestinesi. “Se l’Organizzazione della cooperazione islamica non adotta immediatamente un’iniziativa concreta contro gli attacchi israeliani”, ha avvertito, “rinnegherà la propria ragion d’essere”. Erdogan è un abile statista ed è conscio del suo isolamento e della crescente insofferenza che l’amministrazione Biden ha manifestato da ultimo nei suoi confronti in occasione dello storico riconoscimento americano del “genocidio armeno” perpetrato dall’impero ottomano nel 1915. La Turchia e Israele non hanno ambasciatori nelle due capitali dal maggio del 2018. Erdogan invece di chiedere una de-escalation della tensione a Gaza sta cercando di alzare i toni dello scontro verbale per cercare un riavvicinamento con Tel Aviv e in prospettiva con il Cairo e uscire dall’isolamento diplomatico in cui è finito.
I rapporti con i sauditi
Non a caso la Turchia e l’Arabia Saudita recentemente sono tornate a dialogare con l’obiettivo di promuovere la cooperazione bilaterale dopo quasi tre anni di tensioni. I rapporti tra Riad e Ankara si erano raffreddati in seguito all’omicidio del giornalista dissidente saudita, Jamal Khashoggi, avvenuto all’interno del consolato saudita a Istanbul nell’ottobre 2018. L’Arabia Saudita in seguito ha avviato nel 2020 un embargo non ufficiale delle merci e prodotti turchi. La situazione ha subìto una svolta con la dichiarazione di Al Ula che ha posto fine, il 5 gennaio scorso, all’embargo di oltre tre anni nei confronti del Qatar (grande alleato e sponsor finanziario di Ankara) da parte del cosiddetto “quartetto arabo” (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti ed Egitto).
A quel punto Ankara e Riad hanno iniziato un percorso di graduale sebbene prudente riavvicinamento diplomatico. Anche sulle sponde del Nilo si è mossa la diplomazia turca. Tra il 5 e il 6 maggio si sono tenute le prime “consultazioni” tra Turchia ed Egitto a otto anni dalla clamorosa rottura seguita alla destituzione del presidente egiziano Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani fermamente sostenuti da Erdogan. Ma i progressi diplomatici si sono rapidamente fermati davanti alla richiesta, rivolta alla Turchia sia da Israele sia dall’Egitto, di chiudere i rapporti di sostegno con Hamas, branca della Fratellanza Musulmana a Gaza.
Il Mediterraneo orientale
Ma c’è di più. Erdogan è sempre stato molto attento alle questioni geopolitiche ma non dimentica la partita economica, chiave di volta del suo successo elettorale. Ecco perché Ankara sta cercando di entrare, sebbene come un elefante in cristalleria, nel gran gioco energetico apertosi nel Mediterraneo orientale. Per questo la Turchia ha assunto atteggiamenti di sfida con la UE, la Francia di Emmanuel Macron, la Grecia, l’Egitto e da ultimo anche con una nave di esplorazione italiana costretta dai turchi a lasciare le acque territoriali cipriote.
Ankara ha deciso da tempo di non essere solo un hub energetico del gas russo o azero o del petrolio del nord Iraq che poi arriva al terminal di Ceyhan sul Mediterraneo, ma ambisce a diventare un attore a tutto tondo e di estendere la sua influenza politica ed economica verso le zone curde dell’Iraq come quella petrolifera di Kirkuk dove è presente anche una popolazione di origine turcomanna. Erdogan ha fame di energia per la sua energivora manifattura industriale e per ora dipende molto dalle forniture di gas russo attraverso il gasdotto TurkStream nel Mar Nero.
Ora però Ankara vorrebbe entrare nel club del gas del Mediterraneo orientale (l’East Med Gas Forum), un’associazione di cui da due anni fanno parte Grecia, Cipro, Egitto, Italia, Israele, Giordania e l’Amministrazione palestinese. La Francia, la Turchia e il Libano ambirebbero a entrare ma finora sono rimasti alla finestra. Non è da escludere che Erdogan usi la questione palestinese ad arte per sedere, dopo il cessate il fuoco, al tavolo della trattativa del nuovo Medioriente. E magari cercare l’approvazione internazionale all’estensione dei suoi diritti di estrazione marittima siglato con un blitz bilaterale con il debole governo libico di Tripoli, ma non riconosciuto dagli altri Paesi limitrofi tra cui in primis la Grecia e l’Egitto.
Vittorio Da Rold, “Domani”.