Pur essendo trascorsi oltre trent’anni, è ancora vivo nella mente di tanti italiani il ricordo dell’esodo biblico di migliaia di albanesi verso le coste della dirimpettaia Puglia, avvenuto tra la metà del 1990 e il 1992. Era infatti caduto il regime guidato per quasi quarant’anni da Enver Hoxha che aveva portato a decenni di forzato isolamento dell’Albania dal resto del mondo, in particolare da quello occidentale. Fu così che, a metà del 1990, la voglia di andarsene lontano si tradusse per migliaia di albanesi in una vera e propria invasione delle ambasciate straniere da parte di persone che richiedevano non più un visto per emigrare per motivi economici, ma di cittadini che desideravano soltanto scappare via dal loro Paese per chiedere asilo in occidente, in particolare verso la vicina Italia.
Questa voglia di libertà fu determinata anche dall’opportunità di seguire i programmi trasmessi dalla televisione italiana, visibili in Albania sin dai primi anni ‘80 grazie a un ripetitore installato nel vicino Montenegro. Gli storici legami tra albanesi e italiani non erano andati del tutto perduti nel frattempo, e le varie trasmissioni intervallate dalla pubblicità avevano finito con il “costruire nell’immaginario collettivo degli albanesi una sorta di ‘mito dell’occidente’. Il mare Adriatico rappresentava l’unica barriera che li separava da questo paradiso capitalistico”, 1) di cui il territorio italiano veniva considerato non solo l’avamposto, trovandosi a poche ore di navigazione, ma anche la terra a cui ricongiungersi dopo la fallimentare esperienza del comunismo.

Si può ragionevolmente affermare che nelle condizioni di arretratezza generale in cui versava l’Albania di quegli anni, le immagini trasmesse dalla televisione italiana creavano speranze e facevano sognare. Inoltre la diffusione della lingua italiana, imparata proprio grazie ai programmi televisivi, oltre alla vicinanza (non solo geografica) dell’Italia e degli italiani, furono veri e propri catalizzatori che avrebbero attirato ben presto gli albanesi, in massa, verso le nostre coste.

I primi coloni albanesi in Italia

Ma quella degli anni ‘90 del secolo scorso non è stata di certo l’unica migrazione verso l’Italia degli albanesi. La popolazione dell’altra sponda dell’Adriatico iniziò a giungere dalle nostre parti già verso la metà del XIII secolo; addirittura nella prima metà del ‘400 si sviluppò un primo vero fenomeno migratorio verso la Sicilia e verso altre province meridionali della penisola soprattutto di contadini albanesi, mentre in alcuni casi si trattava di una vera e propria tratta di persone ridotte in schiavitù dopo tentativi falliti di abbordaggio da parte di pirati epiroti, montenegrini o albanesi a navi provenienti dal Regno di Napoli e della Sicilia o da Venezia.
Ma anche chi giungeva come emigrante dalle nostre parti, lo faceva a causa dell’asperità del suolo della sua terra e del freddo clima balcanico che d’inverno impediva a molte coltivazioni di sopravvivere alle intemperie, laddove in gran parte del sud d’Italia c’era, al contrario, un grande bisogno di mano d’opera per coltivare terreni fertili e ancora incolti del grande latifondo nobiliare.
Dopo le guerre del Vespro combattute in Sicilia nel ventennio tra il 1282 e il 1302, che portarono alla cacciata degli angioini e all’insediamento degli aragonesi, molti casali erano rimasti spopolati, come era successo a Mezzojuso, a Palazzo Adriano e nella zona dove poi sorgerà Piana dei Greci (oggi Piana degli Albanesi).
In effetti, soprattutto nella Sicilia occidentale erano rimasti scarsamente popolati molti altri paesi e casali, e anche attorno ai pochi centri ancora sufficientemente abitati corrispondeva un immenso territorio del tutto vuoto comprendente i feudi dell’arcivescovado di Monreale e di alcuni monasteri, oltre che vaste terre di varie famiglie dell’aristocrazia residente a Palermo. Insomma, le campagne erano “vuote d’uomini”. 2)
Quindi divenne indispensabile reperire contadini per rimettere a coltura i territori abbandonati, sicché già dalla fine del XIV secolo i proprietari terrieri avevano promosso un’immigrazione di zappatores dalle altre regioni d’Italia e da altre nazioni vicine, come quelle dell’altra sponda dell’Adriatico, oltre che dalla Spagna, terra d’origine degli aragonesi. L’obiettivo era anche ripopolare i territori dove la peste del 1347 e la malaria degli anni successivi avevano di fatto dimezzato la popolazione.
Questi primi albanesi avevano preferito risiedere nei centri rurali, rifiutando di lavorare come “massari” e dando vita a un fenomeno migratorio assai ampio e articolato: sulla base delle attestazioni archivistiche, la loro presenza è stata rilevata in oltre un centinaio di casali dell’Italia centro-orientale e meridionale.
Tuttavia, in questo periodo gli arbanisi di Sicilia erano ancora pochi rispetto al resto della popolazione e degli altri immigrati: quelli presenti nell’Isola rimanevano legati più che altro a un’immigrazione episodica, di singole famiglie, che in breve tempo a mano a mano si integravano con la popolazione dell’Isola, soprattutto a Palermo e dintorni, di fatto perdendo le connotazioni linguistiche e culturali d’origine. In ogni caso finivano comunque assorbiti lasciando della loro presenza solo scarne notizie, per lo più le stesse contenute negli atti notarili con i quali stringevano i loro rapporti di lavoro e di piccolo commercio. 3)
Accanto a questi immigrati, legati soprattutto ai lavori agricoli, vi era stato poi un altro gruppo di albanesi assoldati come mercenari soprattutto nell’àmbito delle dispute tra il re e alcuni baroni locali troppo indipendenti o rimasti legati agli angioini, noti all’epoca come “stradioti”. Questi mercenari, giunti in Sicilia nel 1448, si sarebbero insediati prima nell’antica fortezza di Bizir, presso Mazara del Vallo, e poi, dopo successivi spostamenti verso oriente, nei pressi del castello abbandonato di Calatamauro; infine nei vicini feudi dell’odierna Contessa Entellina, dove si sarebbero fermati per alcuni decenni sino a quando, in seguito a dissidi interni, alcuni decisero di abbandonare il luogo per unirsi agli altri gruppi albanesi fermatisi in Calabria o rientrati in Albania.
Come ha sottolineato Giuseppe Schirò, d’altronde, da Napoli il re così aveva decretato:

Noi, certi della loro cattolicità, integrità, bontà, onore e valore, tenendo conto nello stesso tempo della loro povertà, dato che hanno abbandonato beni, provincie e poteri nelle mani dei pessimi turchi, e considerando la loro grande nobiltà, desideriamo, vogliamo e sanciamo che ai predetti coloni albanesi ed epiroti dal nostro viceré (di Sicilia) siano assegnate terre e possedimenti. 4)

Dopo questi iniziali insediamenti, la prima ondata migratoria di massa degli albanesi in Sicilia ebbe luogo qualche anno dopo la morte, avvenuta nel 1468, di Giorgio Kastriota Skanderbeg (Gjergj Kastrioti Skenderbeu), il leggendario comandante che aveva messo insieme un esercito di connazionali per cercare di resistere all’avanzata delle truppe ottomane in Europa, difendendo le terre dei propri compatrioti e resistendo agli eserciti del sultano per ben venticinque anni. Gli storici ritengono che i primi gruppi a scegliere la fuga dalla loro patria provenissero dalle città di Kruja e di Scutari, la cui caduta in mano turca avvenne tra il 1478 e il 1479. D’altronde, essendo venuta meno ogni possibilità di resistenza all’invasione ottomana dell’Albania, sia la Repubblica di Venezia sia il Regno di Napoli e di Sicilia – che in quella terra d’oltre Adriatico avevano grossi interessi commerciali – finirono con il rappresentare il rifugio naturale degli esuli albanesi.

Il mito di Skanderbeg e le prime colonie

Come nota Francesca Di Miceli, “la mitizzazione di Skanderbeg è stata quasi un atto dovuto nelle comunità italo-albanesi”. La sua origine va ricercata presumibilmente nel periodo successivo alla prima grande diaspora albanese, quello immediatamente posteriore alla sua morte, quando occorreva a tutti i costi un’àncora di salvezza che conservasse e tenesse unito il popolo in fuga.

Il pericolo che in quella fase correvano i profughi albanesi era evidente perché, in termini generali, superato il momento di smarrimento vissuto dai coloni che trovarono rifugio in Italia, si andava incontro a una fragilità identitaria del popolo migrante, causata da una sostanziale impossibilità di affermare la propria autonomia sia politica che culturale, e da una assoluta mancanza di interazione con la madrepatria che in quel momento era più che mai allo sbando. Le comunità italo-albanesi, sopravvissute alla morte del loro “eroe”, riuscirono ad auto-rinvigorirsi egregiamente probabilmente perché la loro storia fu contrassegnata da questa speciale condizione: per un verso di “esuli” e per un altro di “ospiti”; e così gli arbëreshë da un lato poterono mantenere forte la dipendenza dai moduli sociali della madrepatria, dall’altro lato poterono sviluppare un processo di costruzione d’identità che, dall’iniziale scoperta della loro nuova realtà, giunse ad auto-costituirsi come un mondo culturale mitico, in gran parte riprodotto sulla base di una rilettura della propria storia. 5)

Di tale storia, Skanderbeg rappresentava l’elemento base dell’auto-identità, colui dal quale tutto aveva avuto inizio, sublimando quanto poi sarebbe accaduto e i valori sui quali la cultura arbëreshë si sarebbe basata: il valore dato alla parola data e alla famiglia, e i valori coesivi a essa sottesi, sublimati per di più in un’ampia ricerca e conservazione delle proprie radici che, attraverso moduli culturali simili a quelli della madrepatria, si imponevano come un sistema di valori codificati.

Si può tranquillamente affermare che Skanderbeg svolse per gli albanesi (non solo quelli della diaspora) la funzione di eroe culturale e di eroe eponimo che nell’antica Grecia avevano svolto figure come Achille e Ulisse, o nell’antica Roma Enea o Romolo: da figura storica che si erge a difensore della comunità e a combattente della libertà, egli finì con il trasformarsi in un personaggio fuori dal tempo e dallo spazio, divenendo strumento di coesione sociale.
La figura ben presto mitizzata di eroe fondatore dell’identità di un popolo, finì così per sovrastare quella del personaggio storico realmente vissuto, e intorno a lui il popolo arbëreshë iniziò a “tessere il riscatto di un’etnia a lungo caratterizzata dalla mobilità e dalla miseria”. 6) Non può spiegarsi altrimenti il ruolo e l’importanza attribuita alla sia figura, attorno alla quale ruota interamente l’identità albanese e italo-albanese: fu principe albanese e re dell’Epiro, fu condottiero e diplomatico, fu colui che unì i principati d’Albania sostenendo la resistenza del suo popolo contro gli ottomani e bloccando la loro avanzata in Europa per decenni. Ma prima di tutto egli divenne l’eroe di un popolo che aveva bisogno di credere in sé stesso per auto-conservarsi e non disperdere la propria identità. 7)
Per gli esuli che avevano dovuto lasciare la loro terra pur di non abbandonare il cristianesimo, era necessario non solo ricordare ma, come evidenzia Alessandra Carnesi, anche

immaginarsi un passato, intraprendere un viaggio di risalita verso le segrete sorgenti, verso l’età dell’oro e delle origini, un’età perduta tra la nostalgia delle cose assenti, tra ciò che non è mai stato e il desiderio di ciò che potrebbe essere stato. Ed è proprio in riferimento a questa “ri-costruzione” che trova ampio spazio il mito che con le sue narrazioni riesce a illuminare la storia spesso oscura delle comunità e a tracciare quelle coordinate spazio-temporali in grado di trasformare il caso insensato degli eventi nel destino della comunità. 8)

Così, su queste fondamenta e sul mito di Skanderbeg, testimoniato anche dai monumenti a lui dedicati in ogni centro arbëreshë d’Italia, nacquero le prime colonie albanesi della Sicilia, sviluppatesi grazie al ripopolamento di casali abbandonati, come Palazzo Adriano (in lingua arbëreshë Pallaci), la cui rifondazione risale al 1482, Mezzojuso (Munxifsi), la cui fondazione risale al 1490, e Contessa Entellina (Kundisi), che dopo essere stata abbandonata, come già detto, dal primo gruppo di mercenari albanesi fu nuovamente ripopolata attorno al 1520. O fondate ex novo, come Biancavilla (Callicari) nel catanese, la cui fondazione risale al 1482, e Piana dell’Arcivescovo, oggi Piana degli Albanesi (Hora e Arbëreshëvet), la cui fondazione risale al 1488, nonché San Michele di Ganzaria (Shën Mikeli) nel calatino, la cui fondazione risale al 1517. Altri albanesi si stabilirono a Sant’Angelo Muxaro (Shënt’ëngjëlli) nell’agrigentino, a Lipari e a Taormina, dove ancora oggi si ricorda “il quartiere degli albanesi”.
Poco dopo il 1488 alcune famiglie albanesi di Biancavilla, nel catanese, si trasferirono a loro volta nella vicina Bronte. Ma soprattutto nella Sicilia orientale si trattò spesso di sperimentazioni coloniche o di piccoli insediamenti abbandonati dopo pochi anni o tenuti vivi solo dalla presenza di cognomi tipicamente albanesi (come Greco, Scafiti, Schirò, Schilirò, Triscari, Zappia), dato che le famiglie albanesi ben presto persero le altre connotazioni d’origine, a partire dal culto bizantino.
Anche negli anni successivi ebbero luogo altre ondate di migrazione dall’Albania, che tuttavia interessarono la Sicilia solo marginalmente. Infine, parecchi anni dopo, nel 1691, ad alcuni albanesi di Piana dell’Arcivescovo fu concesso in enfiteusi il vicino feudo di Santa Cristina dei duchi di Gela, oggi denominata Santa Cristina Gela (Sëndahstina), che era stato, come insediamento preesistente, quasi del tutto abbandonato dai residenti originari. 9)
Oltre che in Sicilia, i profughi albanesi furono accolti in altre regioni del Regno di Napoli, in particolare nelle zone montuose intorno a Benevento, oltre che in provincia di Potenza, tra Barile, Ginestra, Maschito e Melfi, dove ripopolarono villaggi abbandonati e devastati da un recente terremoto.
Un altro consistente numero di albanesi si insediò in Calabria, dove in provincia di Cosenza fondarono o reinsediarono i paesi di Corigliano Calabro e Cantinella (frazione della stessa Corigliano), Firmo, Lungro, Macchia Albanese, San Cosmo Albanese, San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, Santa Sofia d’Epiro, Spezzano Albanese e Vaccarizzo Albanese. Altri preferirono stabilirsi nelle terre dell’attuale provincia di Catanzaro, come Caraffa, Curinga, Gizzeria e Marcedusa; e in quelle del crotonese, come Belvedere di Spinello, Carfizzi, Casabona, Pallagorio, San Nicola dell’Alto, Zagarise e Zinga (frazione di Casabona).
Alcune famiglie della vecchia nobiltà albanese si stabilirono invece in Puglia, in particolare a Trani e a Otranto; e sempre nella terra d’Otranto, in quel territorio ancora oggi denominato “Albania Salentina”, furono fondate o ripopolate Belvedere (frazione di San Giorgio Ionico), Carosino, Civitella (frazione di Carosino), Faggiano, Fragagnano, Mennano (frazione di Roccaforzata), Monteiasi, Montemesola, Monteparano, Roccaforzata, San Crispieri, San Giorgio Jonico, San Martino (frazione di Monteparano), San Marzano di San Giuseppe, Santa Maria della Camera (adesso parte dell’abitato di Roccaforzata), Sternatia e Zolino.
Seppur in misura minore, altri profughi albanesi vennero accolti lungo la costa adriatica tra il Gargano e l’Abruzzo, dove furono fondate o ripopolate Campomarino, Montecilfone, Portocannone, San Giacomo degli Schiavoni, San Martino in Pensilis, Santa Croce di Magliano, Ururi, Sant’Elena Sannita, e quindi Casalnuovo Monterotaro, Casalvecchio di Puglia, Castelluccio dei Sauri, Chieuti, Faeto, Monteleone di Puglia, Panni e San Paolo di Civitate. Altri ancora raggiunsero persino lo Stato Pontificio, stabilendosi nelle Marche.
Nei due secoli successivi il flusso di esuli albanesi continuò ininterrotto, anche se non ebbe più le caratteristiche di un esodo vero e proprio.

Da varie fonti d’archivio, infatti, si hanno notizie di spostamenti, sia in Sicilia che in Calabria, di sparsi gruppi di albanesi che abbandonavano la patria con le loro famiglie nella speranza di inserirsi nelle comunità ricostituite in Italia dai loro connazionali. 10)

Arbëreshë della Sicilia

Gli insediamenti arbëreshë della Sicilia sono rimasti nel tempo fondamentalmente quelli dell’enclave di Piana, all’interno della provincia di Palermo, cioè l’area che gli esuli albanesi si scelsero, o furono costretti a scegliersi, nella cosiddetta “Piana dell’Arcivescovo”, appartata e poco popolata: cioè, oltre alla stessa Piana degli Albanesi (da sempre considerata la “capitale” albanese dell’Isola), Palazzo Adriano, Mezzojuso, Contessa Entellina e Santa Cristina Gela.

Un’area isolata rispetto alle grandi vie di comunicazione dell’Isola, pur distando Piana degli Albanesi appena una ventina di chilometri in linea d’aria da Palermo; un’area che non è mai stata collegata in modo rapido fino agli anni ‘40 del secolo scorso né al capoluogo né al resto del territorio monrealese o corleonese, forse perché, come nota Mario Gandolfo Giacomarra,

se gli albanesi di Sicilia scelsero di vivere appartati, non pare che la popolazione circostante abbia fatto molto per cambiare, o mitigare, gli effetti di quella scelta originaria… La convivenza era assicurata, in altre parole, non perché i siciliani rispettassero gli esuli albanesi e la loro cultura, ma perché tendevano a ignorarli: ignorarsi a vicenda generava l’effetto di conservare, ognuno, le proprie specificità. 11)

Ed è sempre Giacomarra ad affermare che

a fronte di una ricca ricostruzione (tra storia e mito) degli eventi della diaspora albanese nel corso del XV secolo, la storia dei secoli successivi rimane spesso oscura, sia per la mancanza di sufficienti documenti d’archivio, sia per l’assenza di una tradizione orale paragonabile a quella relativa al periodo precedente. 12)

Si può ipotizzare che a periodi di maggiore tranquillità nei rapporti tra i nuovi arrivati e il resto della popolazione dei territori circostanti, si contrapponessero momenti di crisi, per vicende legate alla feudalità locale o allo stesso rapporto tra la Chiesa siciliana e i fedeli legati al culto greco-bizantino. Né si può tacere il fatto che, quanto più l’Albania si islamizzava a causa della dominazione ottomana, tanto più gli insediamenti arbëreshë in Sicilia e soprattutto nelle altre regioni d’Italia tendevano ad accogliere ulteriori profughi spinti dal bisogno di ritrovare le tradizioni, la lingua e i costumi albanesi in un territorio dove la stessa morfologia ricordava quella della madrepatria.
Per gli arbëreshë – e quelli siciliani in particolare – esisteva d’altronde, oltre a una comune origine, una solida omogeneità sociale e culturale che aveva iniziato a manifestarsi fin dal momento cruciale dell’edificazione (o riedificazione) dei loro paesi, con la rapida costruzione delle chiese di rito greco-bizantino e l’edificazione delle prime infrastrutture: il fondaco, la macelleria, l’edificio comunale, i mulini e le fontane pubbliche a cui le donne attingevano l’acqua per le loro case e le loro famiglie e che divennero i primi centri di aggregazione sociale delle comunità.

Giovane coppia a Piana degli Albanesi.

Proprio per questo nei secoli successivi alla nascita dei primi insediamenti, le diatribe da pacifiche e, tutto sommato, indolori si trasformarono talora in screzi o in veri e propri conflitti con i locali, soprattutto con coloro che si erano spostati dai dintorni e che quindi si trovavano nella medesima posizione di “immigrati”, seppur da centri vicini. Tuttavia, in linea di massima, si può affermare che in Sicilia i rapporti tra albanesi e latini furono più tranquilli rispetto a quelli degli altri insediamenti dell’Italia peninsulare. In particolare tra Calabria e Puglia

l’abbandono del rito (bizantino) divenne lo strumento attraverso il quale produrre una vera assimilazione e venne perseguito da numerosi Vescovi mediante punizioni collettive, comportamenti premiali verso chi accoglieva le nuove direttive, imposizioni e pressioni continue. La pratica del rito bizantino costituiva l’elemento identitario da rimuovere: di ciò era consapevole la comunità che richiedeva questo requisito per coloro che ricoprivano cariche pubbliche o per i funzionari amministrativi, come ne era consapevole la Chiesa la quale non perdeva occasione per distogliere i fedeli dall’osservanza di questa tradizione. Il passaggio di alcune comunità al rito latino dà dunque la misura di quanto forti fossero le attività repressive esercitate dalla Chiesa. 13)

Anche per il numero più esiguo di albanesi presenti in Sicilia, qui comunque non si arrivò a tanto; e la convivenza tra albanesi e latini rimase nel tempo abbastanza tranquilla, proprio passando attraverso una lunga fase di reciproca “ignoranza”, garantita anche dall’isolamento geografico dei “greci”, che in Sicilia continuarono a fare ciò che sapevano fare in Albania: i pastori e i contadini. Semmai, “resta inesplorata la parte della vicenda arbëreshë concernente il radicamento degli albanesi nella realtà produttiva del territorio circostante, rimanendo al contrario autonoma la loro realtà linguistica e culturale”, che andremo ad approfondire nelle righe seguenti. 14)
Al riguardo si può tranquillamente affermare che, in una realtà prettamente agricola e pastorale comune a tutta la popolazione siciliana del ‘600, del ‘700, dell’800 e di gran parte dello stesso ‘900, e non soltanto ai residenti dell’enclave albanese, persino le tecniche produttive agricole e pastorali non siano mai state diverse, come dimostrano le denominazioni di tecniche e strumenti del tutto simili nella lingua arbëreshë a quelle dell’area circostante, a parte i normali adattamenti morfologici rispetto ai termini originari usati dai siciliani.

Per quanto riguarda la massa di albanesi giunta in Italia negli anni ‘90 del secolo scorso di cui parlavamo all’inizio, va subito precisato che gran parte di loro si diressero ben presto verso il centro-nord d’Italia (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Toscana, Piemonte), se non anche oltre confine; e questo perché erano in possesso di titoli di studio superiori e lauree da poter spendere in qualche modo anche fuori dall’Albania, o perché aspiravano a lavori in àmbito industriale o a questo collaterale (trasporti, logistica, eccetera). La scelta di tali destinazioni era d’altronde la stessa a cui tendevano da anni gli stessi movimenti migratori degli italiani nati nelle aree meno sviluppate del sud.
Il numero di quanti scelsero invece il sud e la Sicilia, pur sapendo dell’esistenza di comunità albanesi storicamente radicate nel territorio, fu solo marginale se non quasi nullo, data l’arretratezza economica delle aree in cui le comunità locali vivevano, legate ancora in maggioranza a una produttività economica da secoli limitata quasi esclusivamente all’àmbito agro-pastorale, o tutt’al più a modeste attività artigiane e commerciali, e solo marginalmente a lavori collegati all’accoglienza e all’assistenza turistica.
Un modesto flusso migratorio in entrata si ebbe piuttosto negli ultimi anni del ‘900 e i primi anni del nostro secolo, allorquando la comunità arbëreshë siciliana diede accoglienza e aiuto agli albanesi del Kosovo colpiti dalla violenta reazione militare serba al loro tentativo di indipendenza o di inclusione del territorio kosovaro all’interno della cosiddetta “Grande Albania”. Alcuni nuclei familiari, in quegli anni, furono accolti nei paesi albanesi della Sicilia, e in particolare a Piana, e l’integrazione tra arbëreshë e shqiptarë 15) diede luogo anche a molte conversioni di kosovari dall’islamismo, religione da loro in massima parte praticata, al cristianesimo, anche in relazione alla celebrazione di matrimoni misti tra giovani delle due comunità. Ma ovviamente non possiamo parlare in nessun caso di grandi numeri.
Non deve quindi meravigliare se tale ricambio generazionale tra gli albanesi giunti in Sicilia e nel sud d’Italia nei secoli passati e quelli fuggiti dall’Albania post-comunista o dal Kosovo in tempi moderni non sia avvenuto in maniera davvero significativa, ipotecando in tal modo il depauperamento un po’ ovunque delle storiche comunità arbëreshë, in particolare di quelle dell’Isola. Per di più l’emigrazione oltreoceano, nei Paesi europei e nel nord Italia degli stessi componenti di tali comunità, che ha avuto luogo nel corso di tutto il ‘900, ha impoverito gli antichi centri albanesi in Sicilia come altrove: anche da queste parti i giovani sono spesso andati via in massa e, come accaduto in tanti altri abitati del resto della Sicilia, anche qui di alcune famiglie sono rimasti quasi solamente gli anziani, soprattutto nei centri più piccoli e ancora più isolati rispetto a Piana degli Albanesi; trasformando l’immigrazione dei secoli scorsi in una manifestazione inversa, di emigrazione tout court. 16)

Gli insediamenti arbereshe.

Ciò nonostante, sebbene non si possa mantenere in vita una cultura se i suoi attori fuggono da essa, i “chianoti” (come vengono chiamati dai palermitani i residenti di Piana degli Albanesi), sicuramente più e meglio dei residenti negli altri paesi dell’enclave albanese siciliana, hanno continuato a fare di tutto per conservare la loro lingua, o quanto meno un vero e sentito bilinguismo, a volte persino sofferto nella necessità di contatto con “gli altri”, cioè i siciliani e gli italiani in genere; ma anche e soprattutto una cultura che si è a tutt’oggi conservata radicandosi nel vissuto quotidiano e non solo nelle solenni manifestazioni sacre e profane che si svolgono nell’arco dell’anno in tutti questi centri, assolvendo il ruolo che fin dagli inizi gli albanesi qui emigrati le avevano affidato: fornire loro un’identità e testimoniare un passato che non è mai stato negato, anzi è stato continuamente tenuto in vita nella memoria collettiva e quindi cocciutamente e orgogliosamente sempre affermato.
Ma negli altri centri dell’enclave non sempre è stato facile, tanto che il rito greco-bizantino è rimasto il più importante strumento di autoidentificazione di queste comunità (soprattutto laddove il gruppo arbëreshë convive con una comunità siciliana non arbëreshë). In questi centri la conservazione della lingua originaria è stata ancora più difficile, al punto che di fatto si è persa tra le ultime generazioni (come accaduto a Mezzojuso e a Palazzo Adriano). Ma per i discendenti di quegli antichi profughi, è rimasto comunque l’attaccamento alle tradizioni e alle cerimonie legate direttamente o indirettamente al culto religioso a rappresentare ancora oggi il sostegno principale della sopravvivenza dell’antica dimensione culturale impiantatasi dal XV secolo. Per tale ragione,

la retorica dei miti della storiografia arbëreshë continua a esercitare un forte richiamo connotativo per un gruppo che, cosciente e consapevole di avere ormai perduto la quasi totalità dei suoi tratti distintivi, riversa sull’unico tratto superstite – il rito – il continuo bisogno di rielaborazione identitario. 17)

Il ruolo del culto cattolico-bizantino

Cercheremo adesso di evidenziare quanto importante sia stato per la conservazione della cultura delle comunità di esuli albanesi nel sud d’Italia, e principalmente di quella siciliana, il ruolo dei papàs, ossia dei sacerdoti che officiano le funzioni religiose seguendo da sempre il rito bizantino. Un ruolo importantissimo, se si pensa che per lungo tempo furono solamente gli uomini di Chiesa a sapere leggere e scrivere i testi sacri in greco bizantino, in assenza di una letteratura sacra o laica albanese o arbëreshë in forma scritta. Non è un caso se l’iniziale toponimo della capitale albanese di Sicilia fu Piana dei Greci, evidentemente a causa dell’errore di considerare “greci” quei profughi giunti dai Balcani e strettamente legati al rito religioso dei “greci”, cioè appunto il bizantino (per la cronaca, il nome della cittadina fu modificato in Piana degli Albanesi nel 1941, riconoscendo solo a quel punto agli albanesi il loro ruolo di popolo e di nazione).
Tale rito si differenzia dal cattolico romano, pur rimanendo nell’alveo del cattolicesimo, per le modalità di svolgimento dei riti, i simbolismi e le forme solenni e grandiose delle celebrazioni sacre, nelle quali il greco dell’antica Bisanzio si mescola in alcune parti all’arbërishtja, costituendo l’eredità più importante in occidente della Chiesa “orientale”, da dove si propagò sino ai territori più periferici dell’allora Impero Romano d’Oriente molto prima che gli albanesi lasciassero la loro terra, costretti a fuggire davanti all’invasione ottomana e alla conseguente necessità di islamizzarsi.
Per questo si parla di rito “bizantino italo-albanese” e non solo di “rito orientale”, perché in ogni caso questo costituisce probabilmente il tratto più importante dell’identità arbëreshë.
Spesso si fa tuttavia confusione mescolando la cattolicità del rito bizantino, di cui sono espressione le due “eparchie” (diocesi) di Piana degli Albanesi (che esercita la sua giurisdizione sulle parrocchie dei paesi arbëreshë di Sicilia) e di Lungro in Calabria (che esercita la sua giurisdizione sulle parrocchie dei centri arbëreshë dell’Italia peninsulare), con il rito officiato dalle Chiese ortodosse, che sono autonome dal punto di vista nazionale e non accettano il primato del vescovo di Roma, cioè del papa. Le due eparchie d’Italia, disciplinate dai canoni dal 177 al 310 del Codice delle Chiese Orientali, 18) sono invece del tutto corrispondenti alle diocesi della Chiesa cattolica di rito latino (o romano), con un “eparca” di nomina papale che riveste lo stesso ruolo del vescovo diocesano.
La confusione è generata anche dal fatto che, a differenza dei sacerdoti cattolici di rito latino, solamente l’eparca è legato al celibato e può quindi essere scelto soltanto tra i papàs celibi o tra i monaci del rito bizantino, diversamente dei semplici papàs che invece possono anche sposarsi, seppur solo prima di ricevere l’ordinazione presbiterale, e possono rivestire anche da sposati il ruolo di parroco (ma se rimangono vedovi non possono più sposarsi). Proprio per questo spesso gli eparchi di Piana e di Lungro sono stati scelti tra i religiosi del Monastero di Grottaferrata (il cui priore, secondo l’uso delle Chiese orientali, assume a sua volta il titolo di “esarca”), come l’attuale eparca di Piana, monsignor Giorgio Demetrio Gallaro, il quale dal febbraio 2020 è stato nominato da papa Francesco anche segretario della Congregazione per le Chiese Orientali.
L’osservanza della disciplina cattolica da parte delle comunità arbëreshë di Sicilia e del meridione è un fatto storico: fin dall’inizio della loro fuga dall’Albania e del loro sbarco in Italia, i profughi albanesi diedero prova di fedeltà al papato; e proprio grazie a questo, in Sicilia l’arcidiocesi di Monreale concesse loro i territori dove furono poi edificati Piana degli Albanesi e gli altri paesi dell’enclave arbëreshë.

Mezzojuso: iconostasi della chiesa di San Nicola di Mira,

Ma la storia della Chiesa italo-albanese di rito bizantino è stata in realtà lunga e tortuosa fin dall’inizio: il papa di allora, Clemente VIII, e i suoi successori avevano problemi con altre comunità di rito bizantino e per tale ragione inizialmente il culto e le liturgie a esso collegati furono fortemente limitati. Ben poco cambiò con la bolla Etsi pastoralis, promulgata nel 1742 da Benedetto XIV, anche se l’istituzione nel 1734 a Palermo del primo seminario greco-albanese per opera di papàs Giorgio Guzzetta, come già accennavamo, diede a tutte le comunità albanesi d’Italia l’opportunità di formare in Sicilia un clero che rimanesse nel contempo nel solco della tradizione orientale e fedele alla gerarchia della Chiesa siciliana, evidenziandosi quindi come primo costruttivo momento di un rinnovato dialogo con il papato.
Il 6 febbraio 1784, Papa Pio VI eresse il vescovado di rito bizantino per la Sicilia con sede a Piana dei Greci (come a quel tempo era chiamata la cittadina), con la bolla Commissa Nobis; in realtà non si trattava di una diocesi autonoma – dipendendo dall’arcidiocesi di Palermo – ma era prevista comunque la presenza di un vescovo “locale” per poter ordinare i papàs formati nel seminario greco-albanese palermitano.

Palazzo Adriano: iconostasi della chiesa di Maria SS. Assunta.

Dovette passare ben più di un secolo perché si giungesse, nel 1919, all’erezione della prima eparchia d’Italia, quella calabrese di Lungro da parte di Papa Benedetto XV. 19) A questa seguì nel 1937 la trasformazione del vescovado di Piana in un’eparchia autonoma, con l’erezione a cattedrale della parrocchia di San Demetrio Megalomartire e con giurisdizione sui fedeli di rito bizantino della Sicilia e, specificatamente, su tutte le altre parrocchie di Piana dei Greci e su quella di Santa Cristina Gela, nonché su quelle officianti il rito bizantino a Mezzojuso, Contessa Entellina e Palazzo Adriano, sottratte nel contempo alla giurisdizione delle arcidiocesi di Palermo e di Monreale alle quali fino a quel momento erano legate. Alla piccola eparchia di Piana venne assegnata come concattedrale pure la storica chiesa palermitana di San Nicolò dei Greci, che coesiste con quella di Santa Maria dell’Ammiraglio (nota anche come “La Martorana” per l’antica presenza di un monastero femminile famoso per i dolci di marzapane realizzati dalle suore); e venne posto sotto la sua giurisdizione, trasferendolo da Palermo a Piana, anche il seminario greco-albanese.
Infine, nel 1960 con la bolla Orientalis Ecclesiae, Papa Giovanni XXIII assegnava alla giurisdizione dell’eparchia di Piana degli Albanesi anche le parrocchie di rito latino dei paesi dell’enclave arbëreshë della Sicilia. Il territorio dell’eparchia siciliana comprende così quindici parrocchie, in maggioranza legate al rito bizantino (con tredici papàs) e alcune di rito latino (con sette sacerdoti), oltre ad alcuni monasteri di ordini religiosi femminili e maschili che professano il rito orientale, come quello dei Monaci Basiliani, quello delle Suore Basiliane Figlie di Santa Macrina e quello delle Suore Collegine della Sacra Famiglia di Piana (che nelle loro sedi al di fuori del territorio eparcale seguono, invece, il rito latino).
Appare chiaro che tante lotte per la difesa del rito greco-bizantino prima della sua accettazione da parte della Chiesa di Roma non hanno quindi rivestito un carattere esclusivamente religioso, ma

hanno rappresentato nella storia delle comunità arbëreshë un momento significativo di resistenza all’assimilazione che veniva dal potere e dai gruppi dominanti (feudatari laici ed ecclesiastici) dell’ambiente italiano circostante in cui dette comunità erano inserite. 20)

La tradizione religiosa

Passando alla liturgia bizantina cattolica, essa è rimasta comunque profondamente legata agli splendori della Chiesa orientale, che infatti rivivono sia nella decorazione interna 21) e negli arredi degli edifici sacri, 22) sia nelle solenni cerimonie ecclesiastiche vi si svolgono, solennità propiziata pure dalla ricchezza dei paramenti sacri indossati dai celebranti (il cui numero varia in relazione all’importanza della funzione religiosa).
Una differenza tra le chiese dei due riti è la posizione dell’altare: se con il secondo Concilio Vaticano II l’altare dal quale viene officiata la messa nelle chiese cattoliche di rito latino è stato rivolto verso il pubblico, abbandonando il sistema originario, 23) quello delle chiese di rito bizantino è addirittura invisibile ai fedeli se non parzialmente nel corso delle cerimonie. Esso infatti è nascosto da una sorta di “muro”, generalmente ligneo, sul quale sono poste le icone dei santi secondo un ordine d’importanza meticoloso. Questo muro prende il nome di iconostasi e, tranne che nel corso delle messe, rimane chiuso allo sguardo dei fedeli, i quali non possono oltrepassarlo ma occupare solamente lo spazio antistante, cioè la/le navata/e. Le tende che chiudono le porte vengono aperte solo durante la divina liturgia poiché rappresentano l’impenetra­bilità del mistero divino. Quando, nel corso delle funzioni religiose, vengono aperte le porte, anche i fedeli possono dare uno sguardo al vima (presbiterio), cioè alla parte posteriore all’iconostasi, detta anche “santuario” perché riservato ai soli celebranti; qui nessuna donna può mai avere accesso nemmeno per le pulizie.
Nel corso delle celebrazioni sacre vengono ripetuti ancora oggi, immutati, gli antichi gesti carichi di simbolismo della dottrina bizantina, mentre i salmi cantati accompagnano sempre le lunghe e solenni liturgie nelle quali si alternano alle lunghe letture di testi biblici le lente processioni accompagnate dalla dispensa di incenso in tre direzioni (in avanti, a destra e quindi a sinistra), sempre come simbolo della Trinità.
La “Divina Liturgia” (come nella Chiesa bizantina è indicata la celebrazione della messa e dell’eucaristia) si apre con la pròthesis, cioè con le preghiere di vestizione dei celebranti e il rito di preparazione del pane necessario per l’eucaristia. Mentre ha luogo questa fase iniziale, i fedeli cantano la grande Dossologia.

Piana degli Albanesi: iconostasi della cattedrale di San Demetrio.

Segue la liturgia della parola (detta anche “liturgia dei catecumeni” perché nell’antichità era l’unica alla quale potevano assistere i catecumeni stessi), che comprende la grande litania di pace (Irinikà), il canto dei tre salmi (Antifone), la processione dei celebranti col Vangelo (Isodos), che costituisce l’elemento visivo caratteristico della celebrazione in quanto il Vangelo viene fisicamente portato in mezzo ai fedeli.
Quindi hanno luogo le letture delle Epistole o degli Atti degli Apostoli e quella del Vangelo, oltre all’omelia del papàs.
Segue poi la liturgia dei fedeli (così chiamata perché nell’antichità vi erano ammessi solo i battezzati in stato di grazia), con una processione con cui si trasportano sull’altare i sacri doni (il pane e il vino preparati durante la protesi); ne fanno parte una litania, l’abbraccio di pace, la professione di fede con la recita del Credo, preceduta dal segno di pace, quindi l’anafora (o preghiera eucaristica) e l’eucaristia.
Chiudono la divina liturgia l’orazione “Abbiamo visto la vera luce”, l’orazione “Riempi le nostre bocche con la tua lode, o Signore”, la litania di ringraziamento, un’altra orazione dietro l’ambone e il congedo dei celebranti con la benedizione dei presenti. Si tenga conto che tutti i testi delle preghiere sono cantati, così come gli inni e le litanie, comprese le varie orazioni, il credo e le letture bibliche.

Cerimonie

Ancora più solenni sono alcune cerimonie tenute nel corso dell’anno, a partire dalla liturgia di San Basilio che regola la messa del primo giorno dell’anno, o da quelle celebrate la sera della vigilia di Natale (Krishtlindje) e il giorno dell’Epifania (Ujët e pagëzuam). Il culmine dei riti sacri viene raggiunto nella celebrazione della Settimana Santa (Java e Madhe), dove fortissima è la spiritualità legata al più grande evento del calendario bizantino, la Passione e la Resurrezione del Cristo.
Le funzioni solenni cominciano la mattina del Giovedì Santo allorché il papàs, dopo aver letto dodici brani dei Vangelo, procede alla lavanda dei piedi a dodici uomini della comunità, che rappresentano gli apostoli, seduti attorno a un grande tavolo sul quale sono disposti altrettanti pani benedetti (kuleçët) che verranno poi tagliati e distribuiti ai fedeli.
La sera del Venerdì Santo si svolge la processione con cui vengono portate a spalla le diverse statue rappresentanti i vari momenti della via crucis e in cui vengono eseguiti canti tradizionali albanesi, tramandati oralmente, simili ai canti funebri (vajtimet).
La mattina del Sabato Santo si cantano il Vespro e la Liturgia di San Basilio e, dopo la lettura dell’Epistola, viene dato in chiesa il preludio della resurrezione di Cristo, simbolicamente sollecitato dal papàs a risorgere, mediante il lancio di fiori. In quel momento le campane suonano a gloria, mentre il celebrante compie il sacro rito alla fine del quale i fedeli si recano nelle fontane a prendere l’acqua benedetta.
Dopo la mezzanotte, il canto del Christòs Anèsti (“Krishti u Ngjall”, cioè Cristo è risorto) viene eseguito in greco antico e in albanese da gruppi di cantori spontanei, i quali vanno di casa in casa annunciando il grande evento per le vie del paese e presso le famiglie che attendono nelle veglie private la resurrezione di Gesù.
La cerimonia liturgica della Domenica di Pasqua inizia al mattino con il solenne pontificale celebrato a Piana degli Albanesi dall’eparca e dai papàs dell’eparchia vestiti con antichi e ricchi paramenti. Tra ampie volute di incenso l’eparca, attorniato dai papàs, celebra il rito della “sacra mensa” che, secondo l’uso orientale, si innalza al centro dell’abside. Alle preghiere in lingua greca antica, secondo la liturgia di San Giovanni Crisostomo, il popolo risponde coralmente, e in un tripudio di canti e colori viene esaltata la resurrezione di Cristo, conclusa dal famoso inno del Christòs Anèsti.
Alla fine della messa pasquale ha inizio la sfilata delle donne in costume arbëreshë, sia a Piana sia negli altri paesi dell’enclave siciliana, ed è il momento clou della giornata dal punto di vista della partecipazione delle persone, dato che intervengono ogni anno centinaia se non migliaia di turisti.

Ragazze in abbigliamento tradizionale a Piana degli Albanesi.

In queste cerimonie più solenni gli officianti vestono paramenti sacri simili a quelli dei pope ortodossi, a partire dal tipico copricapo (mitra) e dal pastorale (ravhdes) sormontato da due teste di serpente affrontate, simbolo della prudenza evangelica. Ma per tutto l’anno i papàs (che gli albanesi chiamano anche zoti prifti) usano i lunghi abiti clericali e il tipico copricapo cilindrico nero (kalimafion) della tradizione ortodossa, e come i pope russi o greci portano abitualmente i capelli lunghi con la coda (tupi) e la barba lunga, tradizione questa che però negli ultimi anni alcuni giovani papàs stanno abbandonando.
Un’altra particolarità del rito bizantino consiste nel fatto che i sacramenti dell’iniziazione alla vita cristiana vengono celebrati tutti insieme all’età di pochi mesi: al battesimo, eseguito per immersione o per aspersione (in questo caso l’acqua deve scorrere prima sulla testa e poi sul resto del corpo del bambino), si uniscono nel corso della medesima cerimonia anche il sacramento della comunione e quello della cresima. In tal modo l’iniziazione del piccolo al cristianesimo è subito completa.
La confessione ha luogo dinanzi a un’icona, dato che in oriente non esistono i confessionali.
Per l’eucaristia, a differenza del rito latino, non si usano pane azzimo o ostie ma pane lievitato, noto come prosphorá (πρόσφορον in greco significa “offerta”), che può essere composto solamente da quattro ingredienti – farina di grano, acqua, lievito, sale – e che presenta sulla parte alta un taglio a forma di croce; mentre è usanza comune che l’acqua benedetta sia spruzzata nell’impastatrice all’inizio del processo di lavorazione oppure sull’impasto o sulle forme di pane prima della loro cottura in forno. Il pane eucaristico, una volta pronto, come già si accennava, viene predisposto poco prima della celebrazione eucaristica vera e propria attraverso il rito della pròthesis, cioè della preparazione; la comunione viene quindi fatta abitualmente col pane (come già detto, lievitato e non azzimo, e nemmeno con le ostie del rito latino) immerso nel vino e per questo si riceve solo in bocca, mentre i bambini più piccoli, che hanno ottenuto come si diceva tre sacramenti insieme, possono riceverla con un cucchiaino.
Il sacramento del matrimonio per gli arbëreshë ha rappresentato finora un altro specifico punto di forza in difesa della loro identità, poiché fa da veicolo per tramandare i princìpi, la mentalità e più in generale la cultura arbëreshë alle nuove generazioni. Anche per il motivo etnico intrinseco a un avvenimento così importante, l’istituto matrimoniale diventa un fattore sociale di rilievo e viene celebrato con la massima solennità tra i colori del tradizionale costume femminile, tra i riti maestosi di sapore orientale e i canti che per tale circostanza manifestano un’enorme capacità espressiva. Nell’àmbito della cerimonia è previsto che sia il papàs a mettere all’anulare dei due sposi le fedi nuziali, simbolo dell’azione di Dio che li unisce, e a questo è legato anche il rituale dell’incoronazione: il celebrante pone davanti all’altare un tavolo, e la coppia deve baciare il Vangelo e la Santa Croce, bevendo ciascuno per tre volte dallo stesso calice il vino benedetto, in memoria della benedizione di Gesù alle nozze di Cana. Il calice viene quindi gettato con forza per terra dall’officiante affinché si rompa: in tal modo nessuno potrà distruggere il matrimonio stesso dividendo i due in futuro.
Il rito si conclude con gli sposi che girano tre volte attorno al tavolo accompagnati dal papàs, ciascuno con una candela in mano, a sua volta simbolo della vita coniugale che dovranno percorrere insieme, illuminati dalla luce della fede. Infine il papàs impone sugli sposi due corone a suggello della discesa dello Spirito Santo su di essi.

N O T E

1) Ardian Vehbiu, Rando Devole, La scoperta dell’Albania. Gli albanesi secondo i mass media, Milano 1996.
2) Henri Bresc, Un mondo mediterraneo: economia e società in Sicilia, 1300-1450, Roma 1981.
3) Cfr. Matteo Mandalà, Gli antichi insediamenti in Italia della comunità albanese, in AA.VV., Studio antropologico della comunità arbëreshë, Torino 2006; e Henri Bresc, Pour une histoire des Albanais en Sicile XIV-XV siècles, in Archivio Storico Siciliano LXVIII, 1972.
4) Nella sua opera Canti tradizionali ed altri saggi delle colonie albanesi di Sicilia, Schirò riportò la lettera scritta nel 1467 da Giovanni II d’Aragona e indirizzata al Viceré di Sicilia da cui è tratto il brano.
5) In Identità e autoidentità albanese; il mito di Skanderbeg, Palermo 2007.
6) Giulia Maria Sidoti, L’identità siciliana, crogiolo di culture e di ispirazioni, da “RDP Cultura”. Di altre figure simili di eroi, d’altronde, la storia (e la mitologia) sono piene; chi volesse approfondire l’argomento potrà consultare il mio volume Eroi, Palermo 1992-2020.
7) Come evidenzia Giulia Maria Sidoti (op.cit.):
il testo che ha offerto dettagli e spunti per l’elaborazione del suo mito è Historia de vita et rebus gestis Scanderbegi, Epirotarum principis di Marin Barleti, del 1508. La leggenda lo descrive alto di statura, possente ed invincibile. Una delle varie leggende narra che, in punto di morte, avesse chiesto al figlio di rifugiarsi con i suoi uomini e la sua famiglia in Italia dove avrebbe trovato protezione presso il Papato e gli aragonesi per i quali aveva combattuto, ma lo mise in guardia contro i turchi e gli predisse che giunto alla spiaggia al di là dell’Adriatico avrebbe trovato un albero a cui legare il cavallo e la sua spada, che gli erano appartenuti in vita, in modo tale che, al minimo soffio di vento i nemici avrebbero sentito ruotare e sibilare la sua spada e nitrire il suo cavallo, restandone atterriti, per cui i turchi si sarebbero guardati dall’inseguire gli albanesi. Quindi “un nome, una spada ed un destriero” costituiscono l’esergo delle imprese e della personalità di Skanderbeg; infatti, nel nome Skanderbeg (da “Iskender Bej”, cioè Alessandro) vi è inscritto il suo destino, grande come Alessandro Magno; la spada, di fattura ottomana, donata dal sultano che mai sarebbe stata usata per tradire il popolo albanese, si carica di significati simbolici, sacri e magici. La mitologia vuole che gli eroi siano dotati di un arma poiché preposti ad alte imprese e che questa sia forgiata da una divinità o donata da un personaggio significativo, e pertanto avrebbe assunto una valenza sacrale. Nel combattimento la spada diviene l’alter ego dell’eroe e da quel momento è sacra, acquisisce un’anima, quasi dotata di una vita propria soprannaturale. Molte sono nella mitologia mondiale le spade magiche, quella di Orlando, Sigfrido, re Artù, che acquistano un nome, Excalibur ad esempio. Quella di Skanderbeg, più realistica, portava solo un’incisione che inneggiava alla grandezza dell’eroe. L’arma ha più significato quando passa di padre in figlio, a Gjon in questo caso, ufficialmente riconosciuto dal suo popolo come erede e continuatore, quindi ha la stessa funzione di un testamento; il tutto conferma la valenza mitica dell’oggetto. Il cavallo è l’elemento che completa il mito. In tutte le culture ricopre il ruolo di guida nei mondi superiori, che esca dalle tenebre del mondo ctonio o dal mare è portatore di morte, ma anche di vita al quale l’eroe si affida, inseparabile compagno che nell’affrontare l’ignoto in esso può confidare per tornare sano e salvo.
8) La memoria autentica, da “Dialoghi Mediterranei” n.7, maggio 2014.
9) Cfr. Mondo arbëreshë, dal sito web mondoarberesh.altervista.org/018.html
10) Matteo Mandalà, op.cit.
11) La vicenda arbëreshë tra storia e mito, da Res Albanicae, vol. 1, Palermo 2012.
12) Ibidem.
13) Giovanni Cimbalo, Il ruolo degli arbëreshë nella messa a punto del modello albanese di rapporti tra le comunità religiose e lo Stato, da “Stato, Chiese e pluralismo confessionale” n. 17/2014.
14) Mario Gandolfo Giacomarra, op.cit.
15) Gli albanesi chiamano il loro Paese “Shqipëria”.
16) Piana degli Albanesi è passata da una popolazione di circa 6300 abitanti negli anni ‘90 a meno di 5800 nel 2020, con una diminuzione del 9,3%; una percentuale assai più alta si è registrata negli altri centri arbëreshë dell’Isola, dove in alcuni casi nello stesso arco di tempo la diminuzione dei residenti è arrivata a sfiorare il 25%, come a Palazzo Adriano; mentre l’unico centro in controtendenza è stato il più piccolo dell’area, Santa Cristina Gela, che invece ha visto aumentare la sua popolazione negli ultimi trent’anni di quasi il 20%.
17) Alessandra Carnesi, op.cit.
18) Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, promulgato da Papa Giovanni Paolo II il 18 ottobre 1990, costituisce il codice comune a tutte le Chiese sui iuris diverse dalla Chiesa latina ma di osservanza cattolica (oltre alla Chiesa italo-albanese, quella greco-croata, quella bulgara, quella melchita mediorientale, quella rutena ucraina, quella ungherese, eccetera), ognuna di esse da non confondersi con quelle nazionali ortodosse coesistenti sullo stesso territorio.
19) L’eparchia di Lungro ha giurisdizione ecclesiastica sulle parrocchie di Acquaformosa, Castroregio, Civita, Corigliano, Eianina, Falconara Albanese, Firmo, Lungro, Plataci, Rosciano, San Basile, San Benedetto Ullano, San Cosmo Albanese, San Costantino Albanese, San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, San Paolo Albanese, Santa Sofia d’Epiro, Vaccarizzo Albanese, comuni che fanno parte delle province di Cosenza, Potenza e Pescara.
20) Francesco Altimari, Mario Bolognari, Paolo Carrozza, L’esilio della parola: la minoranza linguistica albanese in Italia, Pisa 1986.
21) La decorazione delle parti basse della navata rappresentano sempre il mondo visibile; la cupola e il presbiterio, dove si trova il santuario protetto dall’iconostasi, sono simboli del cielo, dove tutte le forze celesti rendono culto a Dio, nelle sue forme trinitarie.
22) Esiste una differenza strutturale tra l’architettura delle chiese ortodosse e quella delle chiese cattoliche di rito bizantino, che riguarda la pianta degli edifici: centrica, cioè a “croce greca” le prime (con lunghezza della navata uguale a quella del transetto), a “croce latina” le seconde (con la/le navata/e allungata/e rispetto ai due bracci laterali del transetto).
23) L’utilizzo dell’altare originario con il sacerdote che dà le spalle nel corso della messa all’assemblea del popolo riunita nella navata della chiesa è consentito nell’àmbito del cattolicesimo anche agli officianti il rito tridentino (o “romano antico”), che prevede anche l’uso della lingua latina in alcune o, a volte, persino in tutte le parti delle funzioni liturgiche.

Il testo del presente articolo riprende alcuni argomenti trattati nel volume Le comunità arbëreshë di Sicilia, dello stesso autore, pubblicato nel 2022 dalle Edizioni Fotograf.